Strategia del ragno (1970). Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un racconto di Jorge Luis Borges. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Marilù Parolini, Edoardo De Gregorio. Fotografia di Vittorio Storaro e Franco Di Giacomo. Scene e costumi di Maria Paola Maino. Musiche di Giuseppe Verdi (Attila, Un ballo in maschera, Trovatore, Rigoletto), canzoni, musiche da ballo. Interpreti: Giulio Brogi, Alida Valli, Pippo Campanini, Tino Scotti, Franco Giovannelli, e brevi apparizioni di Allen Midgette e Giuseppe Bertolucci. Durata: 90'
Per quanto mi riguarda, non riesco a guardare “Strategia del ragno” senza diventare sentimentale, senza provare nostalgia. Nel 1970 ero già abbastanza grande per ricordare, di questo film sono contemporaneo, a Parma e dintorni c’ero anch’io, nel 1970. E’ la nostalgia dei nonni e degli zii, della gente, dei vecchi e della campagna di Parma: conosco anch’io quel caldo, quella luce particolare. Questi sono dettagli che sfuggono a chi è cresciuto altrove, e so che spesso si rimprovera a chi è di Parma di parlare troppo di queste cose, ma penso che sia come per chi è cresciuto sul mare, o in montagna: sono cose che ti rimangono dentro.
Per esempio, la luce che si vede in “Strategia del ragno” è luce naturale: se ci si fa caso, non c’è asfalto e nemmeno cemento, le case sono di pietra e di mattoni, i muretti sono fatti di sassi e malta, tutto intorno ci sono campi coltivati. Ma ormai, nel 2012, anche Parma è diventata come Milano, i vecchi (belli e un po’ matti) che si vedono nel film sono una specie in estinzione, e non so quanti bambini perdano il loro tempo a giocare con i conigli, come il bambino che si vede nel film: per me era una scena comune, i miei cugini e i loro vicini di casa avevano molta confidenza con gli animali da cortile.
Potrei continuare: il bicchiere di vino bianco (che si vedrà bene anche in “La tragedia di un uomo ridicolo”), un vino bianco leggermente torbido, vino novello di bassa gradazione alcolica, l’ho bevuto anch’io e me lo ricordo ancora: un ricordo meraviglioso, quel vino lo faceva uno zio di mia mamma, 'l zio Giovanòn (la “z” è una via di mezzo con la “s”, impossibile riprodurla se non si è di quelle parti), lo facevano un po’ tutti ed era buona abitudine offrirne un bicchiere a chi capitava in casa, magari con qualche fetta di salame.
Ma qui mi conviene fare una pausa, tirare un sospiro e tornare al film, dire qualcosa di asettico del tipo “è un preludio a Novecento”, e poi tirare diritto fino alla fine, mettendo in fila ordinata gli appunti che mi sono preso in questi anni.
Come si è detto nel primo post, Bertolucci è fedelissimo al racconto di Borges: le due variazioni principali sono lo spostamento nella campagna emiliana e l’ambientazione ai tempi del fascismo. Bertolucci mantiene l’origine irlandese della storia raccontata utilizzando il toponimo Tara, molto frequente in Irlanda (“The harp that once / through Tara's Hall / the soul of music shed...”è il primo verso di una delle canzoni più amate dagli irlandesi, e non solo).
Il fatto all’origine del racconto viene spostato al 1936, ed è l’uccisione da parte dei fascisti di Athos Magnani. Quando il figlio, nel 1970, torna al paese del padre, trova che tutto è stato intestato alla memoria di Athos Magnani: piazze, scuole, circoli, perfino un monumento. Ma c’è qualcosa che non torna nella storia dell’omicidio, non si è mai saputo chi abbia effettivamente ucciso suo padre, troppi particolari sembrano di origine letteraria, per uno che ha studiato ascoltando quei racconti celebrativi, ripetuti infinite volte e da tutti presi per veri, è inevitabile pensare al Giulio Cesare, al Macbeth, al Ballo in maschera di Verdi... Troppi dettagli suonano strani, a uno che ha studiato e che viene da fuori; in paese invece questa storia piace, ed è stata sempre presa per vera.
E dunque il film comincia con l’arrivo in paese, in treno, di Athos Magnani, stesso nome padre e figlio, “uguale uguale a suo padre” come gli dicono tutti in paese. Nel film si dice brevemente che il giovane Magnani (un cognome molto comune in Emilia) è un personaggio noto, visto in tv, non viene specificato se attore o giornalista. E’ stato lontano dal paese, ora ritorna per una celebrazione di suo padre, chiamato dalla sua antica innamorata: non la moglie e la madre dei suoi figli, ma “amante ufficiale” come dice lei stessa, quasi un titolo di merito. In paese glielo dicono ancora, con ammirazione: “per loro è come se fosse ieri”.
Il giovane Athos è interpretato da Giulio Brogi, un attore che ha fatto molti film importanti in quegli anni e che poi si è dedicato quasi soltanto al teatro: si possono ricordare i film con i fratelli Taviani (“San Michele aveva un gallo”), il grande successo popolare con l’Eneide in tv, e molto altro ancora. La donna è interpretata da Alida Valli, ancora molto bella, grande attrice, perfetta per il ruolo; il suo personaggio si chiama Dràifa (dal nome dell’ufficiale francese Dreyfuss, come ricorda lei stessa), un nome che può sembrare strano ma che certamente è reale perché tra l’Emilia e la Romagna i nomi di battesimo strani abbondano. Alida Valli è stata un’attrice importante per tutta la sua carriera, dagli anni ’30 fino ai suoi ottant’anni, lavorando sempre e sempre con ottimi risultati: un monito per tutte quelle attrici che si lamentano perché dopo i quaranta non le chiama più nessuno. Alida Valli è stata una donna bellissima, ma si è resa conto (come Katharine Hepburn, come Meryl Streep, e come molte altre) che sulla bellezza non si può basare una carriera cinematografica; bisogna saper accettare ruoli adatti in ogni momento della vita. Questo di Draifa è un ruolo molto bello, ed è magnificamente interpretato.
L’altra cosa importante da dire su “Strategia del ragno” è che la storia raccontata è solo una parte del film, altrettanto importante è il non detto. Quando uscì il film, così come per “Allonsanfan” dei Taviani, ci furono diverse polemiche: il ruolo dell’antifascismo, per esempio, così come i discorsi dei congiurati del Risorgimento in Allonsanfan, furono visti come molto riduttivi, e anche offensivi. C’è qualcosa di vero, ma qui si tratta di storie personali e, soprattutto, non solo non è affatto in questione l’antifascismo (da Bertolucci, figuriamoci!) ma qui si tratta di tutt’altra questione, e non bisogna limitarsi alla superficie delle cose.
Per esempio, la questione del Tempo. Il protagonista arriva in paese e vorrebbe starci poco, deve partire subito, vuole partire subito, invece resta o è costretto a restare, “ho un treno adesso” ho un treno domani alle 9.35”, ma poi a partire non ci riesce proprio, è come se il tempo fosse diventato immobile, come se tutto fosse fermo a quel 1936 in cui morì suo padre. E’ particolarmente inquietante il finale, un binario arrugginito e coperto d’erba che non porta a niente, il treno per Parma in ritardo, niente giornali di oggi, non sono arrivati, “a volte si dimenticano di noi, come se non esistessimo”; è un paese dove ci sono solo vecchi e bambini, dove il Tempo è immobile, dove non è possibile andare via, dove il figlio è “uguale uguale al padre”, così uguale che lo si vorrebbe vedere come se fosse la stessa persona, come se rendersi conto che si tratta di un altro comportasse il dover ammettere che invece il Tempo è passato davvero, che si è mosso, e che qui sono diventati tutti vecchi. A me personalmente dà un brivido l’immagine finale dei tre uomini in canottiera che spingono con dei pali un carrello sulla ferrovia, come se fossero una via di mezzo fra Caronte e le Parche.
Nel finale, dopo i binari, tra l’erba, l’ultima inquadratura è per la tana di qualche animale; un finale che rimanda alla talpa di “Novecento”.
Per capire il discorso che ho fatto (è solo un abbozzo, di più non so fare) bisognerebbe rileggersi Borges (non solo questo racconto, ma anche altri, magari “Il giardino dei sentieri che si biforcano”),
o magari il tè dal Cappellaio Matto di Lewis Carroll (capitolo 7 da “Alice nel Paese delle Meraviglie”), o ancora Joseph Conrad, “Al limite estremo”, un’altra storia di stallo e di rapporti col padre (col capitano che l’aveva preceduto nel comando...). In “Strategia del ragno” c’è anche qualcosa di Raul Ruiz, che però nel 1970 faceva film diversi e abitava ancora in Cile.
(continua)
2 commenti:
E comunque il tempo passa pure per me, che continuo a detestare cordialmente i DVD ma ora ho partecipato - non temere, non come cantante (smile) - alla realizzazione di uno girato qui al Verdi di Trieste, in occasione della Battaglia di Legnano. Per fortuna la mia presenza è nel "making of", che io salto regolarmente come spero faccia la maggioranza degli appassionati.
Spero di fare qualche commento più sensato nei prossimi giorni, con calma.
Ciao!
beh, forse potremmo correggere quel tuo passaggio (comunque il post non è questo!)
:-)
però penso che si capisca lo stesso, non è il dvd che non ci piace ma certe tecniche di ripresa e di regia tv.
Io i making of li guardo! O almeno ci provo, poi bisogna vedere che cosa c'è su...(se c'è anche Betta, lo voglio!)
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