The dreamers (2003) regia di Bernardo Bertolucci. Da un racconto di Gilbert Adair. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci e Gilbert Adair Fotografia: Fabio Cianchetti Musica: Jimi Hendrix, The Doors, Bob Dylan, Fred Astaire, Michel Polnareff, Charles Trenet, Françoise Hardy, Nino Ferrer, Martial Solal, The Platters, Edith Piaf. Con Michael Pitt, Eva Green e Louis Garrel ; Anna Chancellor e Robin Renucci (i genitori), Jean-Pierre Kalfon, Jean-Pierre Léaud, Henri Langlois (immagini di repertorio), Florian Cadiou, Pierre Hancisse (115 minuti)
Dopo i primi venti minuti, i tre ragazzi sono da soli nella bella e grande casa borghese, e ci rimarranno fino alla fine del film: che nonostante le apparenze iniziali è quasi tutto girato in interni e in poche stanze. A pensarci bene, è un dato che sorprende.
La casa è un appartamento di gran pregio in un palazzo d’epoca, a Parigi: siamo tra arredi borghesi, i “borghesi comunisti” e l’intruso, una situazione e molti dialoghi che rimandano a “Prima della Rivoluzione”, il secondo film di Bertolucci, dove questa situazione è spiegata nel dettaglio (i discorsi alla Festa dell’Unità, nel finale del film del 1963). E’ facile pensare a Bertolucci che rivede se stesso da giovane, diviso fra il palco al Regio di Parma e la voglia di spaccare tutto, e forse i figli del poeta di questo film sono una proiezione di suo padre e di se stesso, la sua parte femminile e quella maschile. Il padre di Bernardo Bertolucci è un poeta importante, come il padre dei due ragazzi francesi di questo film; facile pensare che questa casa bellissima e piena di libri sia una proiezione della casa dei Bertolucci a Parma, ma il paragone deve finire qui, questo non è un film biografico e, come spiegava Bertolucci stesso nelle interviste relative a “The dreamers”, non è un film sul passato, ma sul presente. E’ il presente che si è chiuso in se stesso, tra fantasie di sesso, videogiochi, barriere di tornelli e obliteratrici, cuffie nelle orecchie, nostalgie per regimi totalitari: un presente chiuso in se stesso esattamente come i ragazzi di “The dreamers”. Il finale, quindi, è ancora tutto da scrivere: che sia il 2003 o questo 2012, non sappiamo ancora come andrà a finire questa storia.
Oltre a “Prima della rivoluzione” (del 1962) molti sono i rimandi a “Ultimo tango a Parigi”, altro film di Bertolucci, uscito nel 1972: un grande appartamento a Parigi, le scene di sesso molto esplicite, l’identico periodo storico, il chiudersi in se stessi. La famiglia di Michael Pitt sembra molto vicina a quella di Marlon Brando in Ultimo tango, americani e contadini, gente di provincia rispetto a Parigi. I due fratelli gemelli sono viziati, infantili, estremi nelle loro azioni e reazioni proprio come due bambini. “Voi non crescerete mai” dirà a un certo punto l’americano a Théo, dopo la scena della vasca a 1h14 dall’inizio. L’entusiasmo per l’avventura sta per finire, il giovane californiano tutto sommato è molto più maturo degli altri due.
Il film a questo punto è da vedere, i tre giocano, litigano, leggono libri e fanno giochi (dal backgammon all’indovinare il titolo di un film), c’è molto sesso e molto esplicito (compreso un bel po’ di cattivo gusto), viene in mente “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore per i molti inserti di film (Chaplin, Keaton, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Freaks di Todd Browning, molto cinema francese). A me è venuto in mente, ancora più potente, “Dead poets society” di Peter Weir (in Italia “L’attimo fuggente”), un altro film molto toccante, e molto bello, dove però in fin dei conti i protagonisti sono tutti giovani ricchi senza alcuna preoccupazione per il futuro. Pensare al futuro fa stare molto male, a diciott’anni e non solo: chi ha visto il film di Weir sa cosa intendo. Qui, in “The dreamers”, il futuro non esiste; si evita di pensarci, e viene rimosso continuamente. Ma il futuro finirà con l’irrompere nella casa, nonostante tutto, e con fragore.
E dunque preferisco fermarmi qui e dedicare qualche riga alla musica che si ascolta in queste scene:
Bob Dylan, “Queen Jane” è alla fine della corsa nel Louvre; un disco di Charles Trenet (La mer) per Isabelle che si spoglia; Jim Morrison e i Doors per la scena del pranzo allestito da Théo con i rifiuti. Françoise Hardy "Tous les garçons et les filles” nella scena del bar, la cannuccia e la bibita divisa in due; i Platters (anche sullo schermo) per la scena del bacio al cinema; musica per orchestra, forse Halffter, per la barricata nella strada, inaspettata e vista con molto stupore.
Ancora i Doors per la camera di Isabelle, con la voce di Jim Morrison che canta “I’m a spy in the house of love”; ancora Trenet e La mer per il fratello che si apparta con una ragazza, suscitando la rabbia e la gelosia di Isabelle. Con l’apparizione della tenda, “Dark star” dei californiani Grateful Dead (ma si sente appena).
Eva Green come Venere di Milo appare a 1h22, con i guanti neri su sfondo nero a simulare la mancanza delle braccia: un trucco alla Méliès (le origini del cinema, 1895: Bertolucci lo aveva già fatto in “Partner”) o meglio ancora come l’animazione di Topo Gigio, che avviene con lo stesso sistema.
Dal sesso e dai giochi sul cinema, che ricordano molto i discorsi del protagonista con Gianni Amico in “Prima della Rivoluzione”, si uscirà solo nel finale, con la politica. A 1h26 Théo recita Mao, “La rivoluzione non è un pranzo di gala” (per esteso) e l’amico americano gli risponde “Se tu credessi veramente in quello che dici, saresti là fuori, in strada”; e poi scopre che Isabelle non è mai uscita da sola con un ragazzo, sempre con il fratello e con gli amici. Dai litigi e dalle crisi di gelosia si esce presto, Isabelle si inventa la tenda nel salotto, Théo va a prendere i vini pregiati in cantina, tutti e tre si addormentano insieme. A questo punto i genitori tornano e trovano un porcile, ma non dicono niente, vanno via in silenzio lasciando un altro assegno. I tre ragazzi dormono beatamente e non se ne accorgono nemmeno.
Siamo a 1h33 dall’inizio, è Isabelle che si sveglia e se ne accorge, trova l’assegno e prende il tubo del gas mentre scorrono le immagini del finale di “Mouchette” di Robert Bresson, a 1h38. Il film sembra destinato a finire così, ma poi un sasso rompe il vetro della finestra, “la strada entra nella camera”, Isabelle corre a rimettere a posto il tubo del gas e tutti e tre corrono in strada a vedere che cosa sta succedendo.
“Dans la rue!” gridano i manifestanti, e proseguono con il famoso “Ce n'est qu’un debut, continuons le combat”. Davanti ai manifestanti, tra le barricate, con la polizia schierata e pronta alla carica, vediamo Matthew che si allontana mentre Theo “cala il passamontagna” e lancia una molotov, dando inizio ai disordini. Isabelle è con il fratello.
Il film finisce qui, su un’immagine livida, tra barricate, macchine rovesciate, polizia in assetto di sommossa, fuochi. Su queste immagini parte la voce di Edith Piaf, “je ne regrette rien”, non rinnego niente; e potrebbe essere un finale in stile Kubrick (come in “Full metal jacket”, la marcia di Topolino e Paint it black) ma presto la voce della Piaf sfuma, e ritorna Hendrix come nei titoli di testa.
I titoli di coda scorrono in senso inverso rispetto al solito, piovono dall’alto e se ne vanno dal basso.
Menzione d’obbligo (fin qui non lo avevo ancora fatto) per Fabio Cianchetti, direttore della fotografia, degno erede di Vittorio Storaro.
(continua)
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