La terra dell’abbondanza (2004)
E’ un bel film, di linea chiara e di bella ispirazione. Dubito che il suo messaggio politico, chiaro e ben espresso, serva a qualcosa: a destra non guarderanno mai questo film, e se lo guarderanno sarà per dirne male, per dire che sono tutte fesserie, eccetera. Però rimane un bel film: non all’altezza del giovane Wenders, ma nettamente migliore di Million dollar hotel, al quale ci sono molti rimandi, e mai banali. Insomma, forse Wenders si sta ritrovando, e ci sono ragionevoli speranze di vedere ancora capolavori fatti da lui. (settembre 2004, al cinema)
“La terra dell’abbondanza”, il nuovo film di Wim Wenders
WENDERS È VIVO E LOTTA INSIEME A NOI
di lorenzo majello, repubblica-musica, settembre 2004
Se cercate un film che racconti in maniera notevole e originale l'America post 11 settembre, non perdete La terra dell’Abbondanza, oggi in concorso a Venezia e da domani nelle sale. Certo, la terra dell'abbondanza (dal titolo di una canzone di Leonard Cohen presente nel film, Land Of Plenty), ma anche una terra che abbonda di diseredati ed angosce. Lei ha 20 anni, è pacifista e aiuta gli homeless di Los Angeles downtown. Lui ne ha 60, è un reduce del Vietnam e pattuglia Los Angeles a caccia di terroristi. Lei pensa che «i tremila delle torri gemelle non vorrebbero che altri fossero uccisi in quel modo». Lui pensa che in Vietnam «abbiamo vinto perché abbiamo bloccato la diffusione dei comunismo per diecimila giorni» e si rammarica di non essere stato su uno di quei quattro aerei perché «... prova a puntarlo a me un taglierino». Lei non ha il telefonino. Lui ha l'inno americano come suoneria. Lei è attratta da tutti gli emarginati ed è tremendamente ingenua. Lui è ossessionato da tutti gli Arabi ed è totalmente paranoico. Ma lui è suo zio e lei è tornata dalla Palestina per incontrarlo, E tutti e due si occupano troppo degli altri e poco di se stessi. Insieme, tra mille incomprensioni, attraverseranno il paese da Los Angeles a Ground Zero annusandosi e cercando di capirsi. Alla fine forse riusciranno ad ascoltarsi e imparare qualcosa l'uno dall'altra. Lei il coraggio, lui l'umanità. 20 anni dopo Paris Texas, Wenders torna sulla strada per raccontare un'America ferita e la va a cercare tra le pieghe, dietro agli angoli, nei coni d'ombra che Hollywood non illumina. Con un messaggio decisamente pacifista, ma anche una profonda umanità per il personaggio meno simpatico e spesso ridicolo (lo zio). Inquadrature mai banali, primissimi piani a raffica e macchina da presa in continuo movimento. A voler cercare dei difetti, un finalone forse un po' retorico, al limite della crisi mistica e i diseredati che sono tutti buonissimi, con dei sorrisi meravigliosi e sempre solidali tra loro. Ma francamente negli ultimi tempi si poteva pensare che Wenders fosse uno di quei grandi innovatori che non avevano più niente da dire. Ebbene, questo film dimostra tutto il contrario.
Non bussare alla mia porta (Don’t come knocking, 2005)
Mi ha fatto tristezza vederlo: non perché sia brutto, ma perché sembra il film di un imitatore di Wenders. In particolare, anche per la presenza di Sam Shepard, sembra un remake di “Paris Texas”. Gli ampi spazi, il deserto, le città americane di provincia, il mito del western, e Tim Roth, abbastanza somigliante, come remake del personaggio di Philip Winter che fu per molti film di Rüdiger Vogler, ormai troppo vecchio per quella parte. Così risulta in parte sprecata una magnifica Jessica Lange, attrice grandissima, e si scopre che passa molta differenza (come attore) fra Sam Shepard e H.D.Stanton (il riferimento è sempre a “Paris Texas”). Trovo sprecata anche Sarah Polley, in viaggio con l’urna delle ceneri: ormai un “must” dopo “Il grande Lebowski”, “Chocolat” con la Binoche, Fellini all’isola di Erimo per “E la nave va”, e altri ancora. Altri attori: Fairuza Balk, Gabriel Mann, Eva Marie Saint: due ruoli solo abbozzati e la riapparizione in grande stile di un’ottima attrice dei tempi di Hitchcock. Sembrano un remake anche le musiche, le canzoni, le luci... Anni fa, Ingmar Bergman scrisse che sarebbe stato triste per Bergman rifare Bergman, o per Tarkovskij rifare Tarkovskij: con loro non è successo, con Wenders e con Herzog purtroppo sì. (maggio 2008)
- Parliamo d’amicizia. Quella con Wenders, per esempio.
- Grandi affinità e grandi diversità: io emotivo e instabile, lui stoico e intelligente. Per scrivere “Don’t come knocking” ci sono voluti tre anni e mezzo. In alcuni periodi ci siamo rifugiati in un mio piccolo ranch senza elettricità e acqua potabile, io con la mia macchina da scrivere, lui con il computer agganciato al satellitare, internet e le sue irrinunciabili tecnologie. Abbiamo scritto tutto scena per scena, come per “Paris Texas”. (...) Ci unisce una grande passione per la musica, per il blues. (...)
Sam Shepard su Wim Wenders, dal Venerdì di Repubblica 24.06.2008
(continua)
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