martedì 22 novembre 2011

«My life was saved by rock'n'roll»

Wim Wenders ha sempre detto, nelle sue interviste, che la musica ha avuto un ruolo importantissimo nella sua vita. “My life was saved by rock’n’roll”, dice Wenders citando il verso di una canzone (dei Velvet Underground): nel senso che la musica, soprattutto quella americana, gli ha aperto orizzonti, culturali e geografici, altrimenti impensabili.
Quello che dice Wenders nel brano che riporto vale non solo per il rock, ma per tutte le riprese musicali. Molti concerti di musica classica, o di opera lirica, sono ripresi ancora oggi nel modo descritto da Wenders qui sotto, e cioè male. Un mio ricordo televisivo riguarda una ripresa del Te Deum di Giuseppe Verdi, una delle ultime composizioni del Maestro. Verdi scrive il pezzo quasi come un blocco unico, cantato dal coro; ma alla fine trova un effetto sonoro bellissimo, una voce solista che scende come dall’alto e che canta: “In Te, Domine, in Te speravi...”. La regia tv faceva una zoomata veloce sulla cantante, che veniva rapidamente portata in primissimo piano: e così l’effetto voluto da Verdi (la voce che scende dall’alto, da lontano) si perdeva completamente. Una cosa davvero triste, che purtroppo capita quasi sempre.
I brani che seguono sono tratti da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo”, una raccolta curata dallo stesso Wenders nel 1988. Il libro è stato pubblicato da Ubu Libri nel 1988, e il titolo viene da una poesia di Rainer Maria Rilke. Per chi fosse interessato al tema, il libro è ricco di interventi sulla musica, così come i film di Wenders.
Quasi sempre, quando si va a vedere un film che vorrebbe offrirti un documento su un qualsiasi soggetto, si prende una fregatura. Che si tratti di gran premi automobilistici, di perversioni sessuali, di campionati mondiali di calcio o di musica pop, non si riuscirà a vedere quello che si voleva vedere, ma si riceverà al contrario una posizione sull'argomento, un modo di intendere la cosa, un'opinione. Ciò che si desiderava vedere bisognerà carpirlo faticosamente coi propri occhi, se non sarà già stato completamente guastato o sommerso dal resto.
I film musicali sembrano appunto un teatro di battaglia. Nessuno ritiene che valga la pena riprendere, semplicemente, in tutta calma il gruppo che è sul palco e che fa musica. E così cameramen si scatenano in zoomate e panoramiche. Anche i miseri resti della loro furia devastatrice non vengono risparmiati: li si frantuma ulteriormente con il montaggio. Di solito i film musicali non sono altro che attestati di incompetenza, di insofferenza e di disprezzo.
Monterey Pop (Id., 1968) non è in effetti il film musicale che si vorrebbe proprio vedere, ma per lo meno è meglio di tanti altri, non lascia del tutto insoddisfatti. Alcuni passaggi riescono a fissarsi limpidamente nella memoria, sicché si esce contenti dal cinema, soprattutto per aver visto le tre donne che vi compaiono. Grace Slick coi Jefferson Airplane, che battono tanti percorsi musicali senza raggiungere una meta, finché poi la voce di Grace intona una canzone che dà nuovo corso alla musica, e la potenzia. (...) Monterey Pop è stato girato da Pennebaker e Leacock nel giugno 1967, durante un festival pop a Monterey in California. Due anni prima di Woodstock, dell'isola di Whright e di Altamont, in un'estate in cui non era possibile entrare in un bar, in una gelateria o in una discoteca senza ascoltare "If you're going to San Francisco/Be shure to wear some flowers in your hair", di Scott Mc Kenzie. Anche il film comincia con questa canzone, e ciò che in realtà documenta è proprio il movimento dei figli dei fiori. È per questo che ci sono continui inserimenti di riprese degli spettatori, quelle mortali scene idilliache che risultano odiose anche nei cinegiornali sportivi. (Monterey Pop, Agosto 1970)
(...) Nei cinegiornali sui concerti dei Beatles o dei Rolling Stones venivano inquadrati di più i teenagers estasiati nelle prime file che i musicisti stessi: il primo piano di una ragazzina urlante in realtà è solo il rovesciamento del primo piano di un operatore disgustato, un'immagine difensiva, di paura, una formula di scongiuro. È un meccanismo talmente diffuso che i musicisti e la musica appaiono solamente in margine, serve per rimuoverli dall'immagine. Quando vengono inquadrati di nuovo gli Stones, si nota che avvertono questa ostilità. (...) La maggior parte dei film sulla musica rock procede in modo simile ai vecchi cinegiornali. Mostrano più il loro disinteresse, la loro disapprovazione o addirittura il loro disprezzo che non l'oggetto stesso. Quello che c'è da vedere, ossia i musicisti, gli strumenti, il palco, il lavoro, il piacere o la fatica di suonare, si considera che non valga la pena di mostrarlo così come è. Anche quando questo atteggiamento non è di completa disapprovazione, rimane il disprezzo degli short pubblicitari che parte dal presupposto che nulla è abbastanza buono da non dover essere rivalutato da chi filma. (...) La maggior parte dei film sulla musica pop pretendono di conoscerne il "linguaggio". Come quelle persone che ridono a alta voce delle barzellette proprio perché non le hanno capite, e si appropriano di questo linguaggio o di ciò che ritengono tale e immediatamente lo spacciano per proprio. È per questo che questi film, specie se si vendono come spot televisivi, sono quasi sempre balbuzienti, scimmiottanti. Vogliono riprodurre la tensione di un tipo di musica: lo zoom scatta avanti e indietro con un ritmo nevrotico. Ma proprio perché non è un movimento di macchina bensì una caricatura, l'immagine, degradata a ingranditore, perde tutta la sua forma e profondità, e non resta altro che il dolore di una ferita che viene continuamente aperta e richiusa. Vogliono imitare il movimento di un tipo di musica: la cinepresa riprende con tale velocità gli oggetti che, a causa delle inquadrature ravvicinate e non a fuoco, o delle panoramiche improvvise e incontrollate, i dettagli non risultano più percepibili se non con grandi sforzi; per non parlare poi delle inquadrature più grandi: come quando si tenta di leggere il giornale in macchina mentre si viaggia sul pavé. Vogliono riprodurre l'atmosfera di un tipo di musica: le continue dissolvenze incrociate sono caricate di effetti cromatici e retinati, e dopo un po' l'immagine non è altro che un unico effetto ottico, invadente e fine a se stesso, che elimina ogni forma di fantasia tranne appunto la propria. Vogliono riprodurre il ritmo di un tipo di musica: i tagli, seguendo il ritmo, si susseguono a distanza di secondi. Assemblando le singole parti però non si ricompone un insieme, come in un puzzle, anzi è proprio la frammentazione a emergere in primo piano: in un momento il batterista abbassa violentemente la bacchetta, il chitarrista solista alza il suo strumento, il cantante ha appena allontanato il microfono dalla bocca per prender aria, e il bassista suona qualcosa che non si sente, perché un basso lo si deve osservare un po' prima di sentire lo strumento e riconoscere le note sulle dita. Ci sono solamente dei particolari, non un palco con un complesso che suona. E se poi un film del genere non è stato nemmeno girato con più cineprese in sincronia, bensì in modo parzialmente sincrono, e le immagini perciò non si susseguono nemmeno nell'esatta sequenza cronologica, l'oggetto ripreso sparisce completamente. Le immagini sono del tutto false e ammettono apertamente il fine ultimo della distruzione del suo oggetto. Il fatto che questi metodi di distruzione sembrino a prima vista ricavati dalla musica stessa e quindi appropriati, non fa che dimostrare con ulteriore evidenza che chi fa un film del genere non solo non ha capito nulla della musica ma ha anche in scarsa considerazione il proprio lavoro. Si comporta come se la batteria fosse la cinepresa, ma in realtà entrambe le cose, batteria e cinepresa, gli sembrano un tritacarne. (...)
(Un genere che non esiste, settembre 1970)
(immagini dai film di Wenders "Lisbon Story" e "Il cielo sopra Berlino"; i musicisti sono rispettivamente Teresa Salgueiro dei Madredeus, e Nick Cave and The Bad Seeds)

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