Nei film di Wim Wenders non mancano mai i bambini. Magari non ci si fa caso, ma sono davvero tanti; a volte sono protagonisti, come Hunter Carson in “Paris Texas”; più spesso sono i protagonisti del film che li incontrano nei loro percorsi, per brevi istanti (i bambini che giocano vicino alla pompa di benzina, all’inizio di “Nel corso del tempo”; le scene del circo in “Il cielo sopra Berlino”; eccetera); e molto spesso sono protagonisti di sequenze importanti (la bambina che viene salvata da Otto Sander in “Così lontano così vicino”, il bambino che scambia il quaderno con gli occhiali da sole, sempre in “Nel corso del tempo”).
E poi c’è “Lisbon Story”, dove il protagonista è quasi assediato da una piccola troupe di bambini portoghesi: e il protagonista è ancora una volta Rüdiger Vogler, compagno di avventure di Wenders in molti suoi film.
Vogler ha un feeling particolare con i bambini. Non si direbbe, a vederlo: da giovane è qualcosa a metà tra un hippy e un barbone, da uomo maturo ha molto del duro alla Bogart, qualcosa tra il gangster e il detective privato dei romanzi di Dashiell Hammett. La verità è che Vogler può essere considerato come un discendente diretto di Charlot. Non so se sia una cosa studiata, o se sia venuta da sola; sta di fatto che la somiglianza (una somiglianza non fisica ma nella recitazione e nel modo di porsi) c’è, e salta fuori spesso.
Che Vogler avesse un feeling naturale con i bambini apparve evidente a Wenders durante la lavorazione di uno dei suoi primi lavori, “La lettera scarlatta”; fu sul set di quel film che il regista tedesco notò la simpatia tra l’apparentemente rude Vogler (in realtà tenerissimo) e la bambina che interpretava la figlia della protagonista nell’adattamento del romanzo di Hawthorne. Da quell’osservazione nacque il progetto per “Alice nelle città” (1973), che si può considerare il primo film completamente di Wenders, e che ancora oggi è uno dei suoi film più belli da rivedere.
Ne sono protagonisti un adulto (Rüdiger Vogler) e una bambina di otto anni (Yella Rottländer); quasi per caso, un po’ come nel “Monello” di Chaplin, Vogler si trova questa bambina da custodire, non sa bene come fare, la porta in giro per la Germania cercando di capire dove lasciarla - quantomeno ai nonni; da questa situazione nasce un “road movie” molto simpatico e molto delicato. Con il pretesto di riportare a casa la bambina, che non si ricorda nemmeno il nome della città (o forse fa finta, perché quel papà improvvisato le piace un mondo), anche noi giriamo la Germania, un po’ in treno e un po’ in macchina. Il personaggio di Vogler si chiama Philip Winter, la bambina (Alice) gli si affeziona subito, e alla fine – quando le cose si sistemano – le dispiace molto doverlo lasciare; e a lui dispiace ancora di più, ma non si può fare diversamente. Vent’anni dopo, nel 1993, Wenders gira “Così lontano così vicino”, che è il seguito di “Il cielo sopra Berlino”. E’ un film ricco di personaggi e di storie, e una parte è affidata anche a Rüdiger Vogler: un detective privato che, guarda caso, si chiama ancora Philip Winter. Il ruolo dell’angelo è quasi soltanto di Nastassia Kinski, in questo film; ma insieme a lei circolano altre presenze, che vediamo per pochi fotogrammi. Dietro a Philip Winter, in una delle sequenze iniziali, appare una giovane donna: un angelo sorridente e ironico, particolarmente tenero, che guarda in camera e lancia un’occhiata verso di noi come a dire: sì, è lui, è mio. La bella signora che fa da angelo custode a Vogler/Winter è Yella Rottlaender, un nome complicato, lo stesso che si portava dietro vent’anni prima nella sua vita reale: è la bambina che nel 1973 Wenders aveva ribattezzato Alice.
Yella Rottländer non ha più fatto l’attrice: è rimasta nel giro del cinema, ma come costumista e con un suo curriculum personale molto lontano da quelle prime esperienze. La sua presenza in questo film è dovuta ad un ricordo felice, quasi una vacanza, fatta da bambina in compagnia di quei due signori all’apparenza così burberi e severi, Herr Wenders und Herr Vogler.
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