Sono stato un loggionista della Scala per tanti anni: costava meno che andare al cinema. Avevo vent’anni, facevo l’operaio, e andavo alla Scala: e mi piaceva molto che queste tre cose stessero insieme.
Io alla Scala ci sono andato (cosa che non avrei mai pensato di fare) perché alla Scala in quel periodo c’erano Paolo Grassi e Claudio Abbado, che fin dagli anni ’60 invitavano apertamente chiunque ne avesse voglia ad avvicinarsi alla grande musica, che non doveva più essere riservata ai ricchi signori in abito da sera e alle dame impellicciate. Addirittura, Claudio Abbado portava l’orchestra della Scala nei luoghi di lavoro e nelle piazze; e si facevano abbonamenti particolari per lavoratori e studenti: tutto questo alla Scala, in un periodo di grandissime voci e di grandissimi direttori. Sono stato fortunato, perché oggi non è più così, da molto tempo ormai l’opera lirica e la Scala sono tornati ad essere “roba da ricchi”, ma all’epoca (fine anni ’70 - primi anni ’80) mi sembrava scontato e normale che un ragazzo di vent’anni, non ricco, che faceva un mestiere umile, potesse aver voglia di andare all’Opera. Col tempo, mi sono accorto che non era affatto così scontato, e che c’era già chi lavorava per far cessare “questo scandalo”, e col tempo, a partire da metà anni ’80, quasi tutto il lavoro di Grassi, di Abbado, e di Giorgio Strehler è stato accuratamente cancellato.
Due date segnano questa mio ricordo personale: il 1983, con l’incendio del cinema Statuto a Torino che portò a drastiche misure di sicurezza ovunque, e che alla Scala portò alla riduzione degli ingressi in loggione (con conseguente incremento del bagarinaggio: ogni singolo posto diventava molto prezioso, anche quelli in piedi), e il 1986, anno in cui Claudio Abbado lasciò Milano per andare a dirigere le due orchestre più prestigiose del mondo: Wiener Philharmoniker e Berliner Philharmoniker, il posto che fu di Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler. Da allora, le cose cominciarono a cambiare: sul piano puramente musicale Riccardo Muti fece un lavoro eccellente, ma su tutto il resto ci sarebbero molte cose da dire.
Soprattutto, è diventato sempre più difficile per un ragazzo come me, come ero io, interessarsi all’Opera e alla musica. Negli anni ’60 e ’70, la Rai aveva un palinsesto molto variato: si poteva vedere di tutto, dalla Coppa Campioni di basket fino al Rigoletto e alla Turandot: anche se in casa mia nessuno si interessava di musica, per me fu facile cominciare a farmene un’idea. Faccio il paragone con l’oggi: la tv è soltanto commerciale, da vent’anni ormai funziona così, non si trasmette ciò che è bello e interessante, ma solo quello che attira gli inserzionisti pubblicitari. La pubblicità è diventata l’unico metro di paragone: se piace ai pubblicitari, deve piacere anche a te, e per forza. Potrà sembrare un paradosso, ma con i duecento canali del digitale terrestre, con i mille canali del satellite, eccetera, va a finire che si trasmettono sempre e soltanto quelle due o tre cose: la pubblicità e il marketing cercano solo i luoghi comuni, ciò che è banale e risaputo, e ripetono all’infinito quelle tre o quattro cose, sempre quelle, magari piacevoli all’inizio ma che poi diventano come i cavallini di una giostra: dopo dieci minuti sai già quello che ti passa davanti. Guai a chi cerca di informarsi, di capire, di crescere, in questo mondo tra fine Novecento e inizio del Duemila...
Oggi guardo le cronache tv e trovo che la Scala (soprattutto la Scala) è tornata ad essere quello che è sempre stata nell’immaginario collettivo: un ritrovo di vecchie signore impellicciate e di giovani baldracche in abiti da sera costosissimi (mi scuso per il termine, ma i tempi sono questi e lo abbiamo purtroppo dovuto constatare infinite volte), che dell’opera non sanno nulla di nulla ma che ci vanno perché devono farsi vedere. A queste persone, alla Scala, Riccardo Muti riservava un trattamento particolare: lo ha fatto per quasi vent’anni di fila, in apertura di stagione, il 7 dicembre. Sono rimaste leggendarie, le aperture di stagione di Riccardo Muti alla Scala: niente Traviata o Aida, niente Bohème o Cavalleria rusticana, “volete venire alla Scala? mettetevi comodi e ascoltate la musica.” E la musica c’era sempre, di qualità eccelsa e in proporzioni tali da ripagare il costo del biglietto: Guglielmo Tell di Rossini (sei ore), Ifigenia in Aulide di Gluck (primo atto di un’ora e mezza, senza intervalli), Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi (dodici ore e tre quarti, più i balletti scritti per Parigi e che di solito non vengono mai eseguiti), la Walkiria di Wagner (tre settimane, due giorni, ventidue minuti e otto secondi, sempre senza intervalli). Poi finiva che un vero appassionato di musica, come Francesco Saverio Borrelli, era entusiasta e coglieva le diversità e le somiglianze dell’Ifigenia in Aulide rispetto all’Ifigenia in Tauride, o magari commentava le due differenti versioni dell’Alceste, quella francese e quella italiana; le Santanché e le Ravetto non ci avevano capito un tubo e si erano annoiate a morte, ma avevano speso trentamila euro dalla parrucchiera e il loro vestito era tanto ma tanto bello.
Questo aspetto convenzionale dell’opera lirica, il teatro d’opera come luogo per ricchi signori annoiati (lontano anni luce dall’idea di Verdi e di Mozart e di tutti i veri appassionati), è ben presente nel cinema; mi limiterò quindi a portarne qui solo due esempi, che spero significativi.
Il primo è “Pretty woman”, famosissimo film, dove Julia Roberts viene portata all’opera dal riccone Richard Gere e si commuove tanto per “La Traviata” di Giuseppe Verdi; il secondo è “Match point” di Woody Allen, che mi ha ispirato qualche riflessione, più o meno dolce o amara. Woody Allen riempie il film di arie d’opera, e lo fa con grande intelligenza; ma anche lui associa il teatro d’opera a gente ricca e svogliata, e ovviamente l’opera si ascolta nel palco, e ovviamente chi sta nel palco ha lo yacht, gioca a golf, possiede gallerie d’arte, tenute di campagna, cani, cavalli, servitù, eccetera.
E’ lo stesso mondo descritto in “Pretty woman”, e da qui mi è venuta quella parola un po’ forte che ho scritto prima, e sulla quale vorrei tanto sorvolare ma non so se posso.
Nel film di Woody Allen si ascolta però la vera voce di Enrico Caruso, restaurato benissimo. Caruso morì nel 1921, ed era una voce formidabile ma non certo un modello di finezza interpretativa. Se vi piacciono le arie d’opera che avete ascoltato, posso consigliarvi altre versioni di riferimento: per esempio Tito Schipa, Alfredo Kraus, Cesare Valletti, Carlo Bergonzi, Franco Corelli, Luciano Pavarotti nelle incisioni dal 1960 al 1990, Aureliano Pertile, Jussi Bjoerling, Beniamino Gigli, e molto altro ancora. Woody Allen è così curioso da ripescare un’aria cantata da Caruso che nessun altro avrebbe mai pensato di inserire in un film: si tratta di “Mia piccirella” viene da un’opera che non conoscevo, il “Salvator Gotta” del brasiliano Carlos Antonio Gomes (1874: Gomes visse a lungo in Italia). Nei film americani, quando si cita l'opera, si ascolta spesso l'aria “M’apparì”, presentata come aria italiana per antonomasia, ma viene dalla "Martha" un'opera del 1847 di Friedrich von Flotow, che ebbe la sua prima a Vienna, in tedesco, ma che nella sua versione italiana divenne ben presto amatissima dai tenori di tutto il mondo. Dell'opera "Martha" si sono perse le tracce, quest'aria invece è ancora molto apprezzata nei concerti di canto.
Al terreno del convenzionale appartengono, nonostante tutto, anche messe in scena ben fatte come quella di Francis F. Coppola nel “Padrino parte terza”, la Cavalleria rusticana di Mascagni, e molto altro ancora; mentre si merita un discorso a parte “L’uomo che pianse” di Sally Potter, tutto ambientato intorno al teatro d’opera, tra i protagonisti un tenore antipaticissimo interpretato da John Turturro: in questo film le scene d’opera sono veramente belle, e anche molto ben scelte.
In questo contesto metterei anche Alfred Hitchcock, L’uomo che sapeva troppo, dove non c’è l’opera lirica ma c’è il teatro, un film in cui ho sempre trovato veramente brutta la scena dei timpani (anche perché la musica è davvero poca cosa).
Ma forse la rappresentazione migliore di questo genere di cose è in Citizen Kane (Quarto potere ) di Orson Welles: il ricchissimo e potentissimo Kane sposa una cantante di musical, le costruisce apposta un teatro d’opera e la fa debuttare come solista. Ma con l’Opera (così come con il football) non si può scherzare né barare: o sei capace o vai a casa. La donna è imbarazzatissima, vorrebbe sottrarsi ma non può; maestri di canto e musicisti sono stati pagati bene ma appaiono davvero disperati; l’opera va in scena lo stesso, ma l’esito è quel che è.
Invece in tv barare si può, eccome, e anche al cinema è possibile, e in parte anche nel teatro di prosa o nei libri. In tv e al cinema capita spesso (è capitato, capita, e capiterà ancora) che i più bravi si debbano tirare da parte per fare spazio alle Ambre Angiolini e alle Marie de Filippi di turno, che vanno avanti per forza anche se nessuno capisce bene perché (e guai a dirlo, che si offendono). Ma qui vado fuori discorso, ho già scritto troppo, chiudo e dico ancora soltanto che le immagini di questo post vengono per l’appunto da quella scena di “Citizen Kane”. Il commento dei due macchinisti è davvero eloquente.
(continua)
2 commenti:
Un post coltissimo, caro Giuliano, nel quale esprimi con cognizione di causa il fatto tuo. Davvero un piacere leggerlo, e non ti nascondo un pochino d'invidia per aver potuto apprezzare di persona una stagione attualmente irripetibile.
Dimenticavo, visto che comunque parliamo di cinema: "Citizen Kane" è un film che devo rivederemi perché non me lo ricordo proprio più. L'ho visto una volta sola, una decina d'anni fa, spezzettato in due diversi pomeriggi perché mi sembrava pesantissimo.
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