Qualche anno fa mi sono trovato coinvolto nella realizzazione di un filmato professionale. E’ andata così: io lavoravo in una ditta chimica, piuttosto importante, che aveva deciso di stabilire rapporti di buon vicinato con gli abitanti dei paesi vicini agli impianti. L’iniziativa si chiamava “fabbriche aperte”: in giorni prefissati, chi voleva venire a visitare la fabbrica avrebbe potuto farlo, guidato dai dipendenti. Un’iniziativa lodevole, anche perché gli impianti chimici sono sempre guardati con molto sospetto e la gente non sa che una bombola in cantina può essere molto più pericolosa di un impianto chimico ben custodito. Di quel progetto faceva parte la realizzazione di un filmato, per realizzare il quale furono chiamati dei professionisti del settore, che usarono la fabbrica come set cinematografico per qualche giorno spostandosi di reparto in reparto.
Io il film non l’ho mai visto, e nelle immagini non ci sono; però quando sono venuti a girare in laboratorio c’ero. Quella settimana mi toccava il turno di notte, il che significa iniziare alle 22 per terminare alle sei del mattino del giorno seguente. La buona regola in fabbrica era di arrivare venti minuti prima, così c’era tutto il tempo per il passaggio di consegne, e così avevo fatto anch’io, come sempre; ma quella sera, alle 21:40, nessuno mi prestava attenzione. I miei due colleghi, impegnati come attori, avevano ben altro da fare: agli ordini del regista e dell’addetto alla fotografia stavano spostando tutto, strumenti e reagenti e bilance, perché così come erano messi creavano dei problemi con le luci. Anche il mio capo, la Dottoressa, era lì presente; e guardava con riprovazione e disapprovazione il mio distacco da quell’alacre attività.
Una volta spostati gli strumenti, le bilance, i reagenti, e tutto lo spostabile, sorse un altro problema: la maggior parte delle nostre analisi concerneva liquidi incolori, assolutamente non fotogenici. In tutti i laboratori di analisi si lavora quasi sempre su diluizioni o su quantità molto piccole di campione: non esiste niente di meno spettacolare di un laboratorio chimico.
Che fare? Il problema fu presto risolto usando acqua colorata: e così si fa normalmente in tutti i servizi fotografici e nei filmati che vedete in tv e al cinema. Le materie prime possono essere colorate, ma sciogliendone un grammo in un litro d’acqua distillata il colore inevitabilmente si perde. Inoltre, la strumentazione moderna richiede sempre meno quantità di campione, a volte ne basta una goccia o una punta di spatola, che oltretutto va a finire in strumenti magari molto complessi e costosi, ma che visti dal di fuori sono scatoloni somigliantissimi al decoder della tv digitale o al forno di casa vostra. Insomma, dal punto di vista spettacolare il laboratorio chimico è una vera delusione; ne consegue che il 95% delle foto di laboratorio che vedete sui giornali sono foto farlocche, fatte con tutte le migliori intenzioni ma inevitabilmente false: come questa qui sotto.
I miei colleghi-attori se ne andarono solo dopo le 23, di corsa e quasi senza salutare, e soprattutto senza mettere in ordine: l’ingrato compito toccò a me, dato che l’alternativa era darmi malato, piantar lì tutto e andare a casa. Mettere a posto il laboratorio mi tenne occupato fino a mezzanotte inoltrata, e poi dovetti affrontare la mole di lavoro arretrato, perché la fabbrica non si era fermata, la produzione era andata avanti, c’erano gli impianti da controllare e le macchine da scaricare. Insomma, del cinema in fabbrica non sono entusiasta e ora sapete anche perché.
Pochi ambienti sono meno spettacolari di un laboratorio chimico. Dimenticatevi il dottor Jekyll e il dottor Frankenstein, dimenticatevi gli effetti speciali, i fumi, le esplosioni: tutte cose che accadevano ai tempi del dottor Lavoisier nel 1789, ma che oggi sono rarissime. I fumi si fanno sotto cappa, e anche le cappe non sono molto fotogeniche.
Alla realtà di un laboratorio chimico è andato molto vicino Andrej Tarkovskij con il film del 1972 del quale vedete alcune immagini in questo post: l’attore è Anatolij Solonitsin, nei panni dello scienziato Sartorius (“Sartorius” è una nota marca di bilance analitiche e strumenti per laboratorio), sulla stazione orbitante che si muove attorno al pianeta Solaris. La realtà del laboratorio è questa: barbe lunghe, capelli arruffati, magliette macchiate, pantaloni stinti, scarpacce antinfortunistiche. E camici sporchi, perché una fabbrica non è una clinica e capita sempre di aprire fusti, prelevare campioni dai serbatoi, andare a ricevere i camion e le autocisterne e magari arrampicarcisi sopra e guardare dentro per vedere se sono pulite. Non è una realtà molto fotogenica, e non sono sicuro che Tarkovskij abbia fatto bene a mostrarcela in un film: ma così funziona ancora oggi, tra i colleghi che cominciano alle 6 del mattino e quelli che a quell’ora vanno a casa a dormire.
(N.B.: per osservare al meglio le macchie e la stazzonatura della maglietta di Snaut, interpretato dall’attore Jurij Jarvet, è consigliabile fare clic sull’immagine).
La realtà del laboratorio chimico è stata descritta soprattutto da Primo Levi, che su questi ambienti ha scritto racconti meravigliosi. Chi non sa niente di chimica difficilmente riesce a capire quanto sia stato grande Primo Levi come scrittore. E’ una cosa che mi dispiace moltissimo, il Dottor Levi è un grandissimo scrittore ma la Chimica è un terreno ostico per tutti i diplomati del liceo classico, che sono la maggioranza assoluta tra i critici letterari, quelli che in questi casi abbandonano la lettura dopo le prime tre righe ma per contratto parlano anche dei libri che non hanno letto
Riporto qui un breve brano tratto da “Il sistema periodico”, raccomandando la lettura del racconto per intero, perché è bellissimo, profondo e divertente. Da allora sono passati sessant’anni, oggi gli archivi sono quasi tutti computerizzati, ma vi posso assicurare che i coloranti continuano a macchiare le dita, che la glicerina è sempre appiccicosa, e che l’olio di pesce continua a puzzare di pesce (serve per preparare gli ingrassi per il cuoio: borsette e scarpe ne escono meravigliosamente morbide, ma l’odore è difficile da eliminare).
Il giovane dottor Levi, neolaureato assunto in una ditta di vernici, sta cercando di recuperare una produzione andata a male e ammassata in gran quantità nei magazzini; per riuscire nell’impresa, come un investigatore, deve andare a scavare nel passato...
(...) Del resto, cominciavo a sentire intorno a me ed al mio lavoro una curiosità canzonatoria e malevola: chi era questo ultimo venuto, questo pivello a 7000 lire al mese, questo scribacchino maniaco che disturbava le notti della, foresteria scrivendo a macchina chissà che, per intrigarsi degli errori passati e lavare i panni sporchi di una generazione? Ebbi perfino il sospetto che il compito che mi era stato assegnato avesse avuto lo scopo segreto di condurmi ad inciampare contro qualcosa o qualcuno (...) Non mi fu difficile procurarmi, oltre alle PAN, anche le altrettanto inviolabili PDC, Prescrizioni di Collaudo: in un cassetto del laboratorio c'era un pacchetto di schede bisunte, scritte a macchina e piú volte corrette a mano, ognuna delle quali conteneva il modo di eseguire il controllo di una determinata materia prima. La scheda del Blu di Prussia era macchiettata di blu, quella della Glicerina era appiccicosa, e quella dell'Olio di Pesce puzzava di acciughe. Estrassi la scheda del cromato, che per il lungo uso era diventata color dell'aurora, e la lessi con attenzione. Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è una unità cosí definita da sopportare un cosí definito coefficiente numerico; e poi, a conti fatti, la dose prescritta era assurdamente elevata: avrebbe allagato l'analisi, conducendo in ogni caso ad un risultato conforme alla specifica. Guardai il rovescio della scheda: portava la data dell'ultima revisione, 4 gennaio 1944; l'atto di nascita del primo lotto impolmonito era del 22 febbraio successivo.
A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l'edizione precedente della scheda del cromato portava l'indicazione di aggiungere « 2 o 3» gocce, e non « 23»: la «o» fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. (..)
(Primo Levi, il racconto intitolato “Cromo”, da “Il sistema periodico”, edizione Einaudi)
PS: Il ritratto di Lavoisier è opera di Jacques-Louis David. La foto sorridente di Primo Levi è del 1979, la consegna del Premio Strega per “La chiave a stella”. La foto del laboratorio con le soluzioni colorate viene da un vecchio giornale che non saprei più indicare; una delle immagini di "Solaris" rappresenta un essiccatore, strumento di vetro molto usato nei laboratori ma qui adibito a funzioni improprie di semplice contenitore. Un’altra immagine rappresenta uno dei grandi miti della fotografia, un mito anche perché ormai quasi estinto: il primo scatto del rullino, quello che non si sa mai se viene e perciò si fa alla prima cosa che capita. In questo caso, il "mio" laboratorio, nell'ormai lontano anno 1990.
2 commenti:
Hai confezionato questo post da chimico: in piccole dosi, tanti elementi. Il risultato è gradevolissimo.:-)))
p.s.
Spinta dai tuoi post, stasera ho rivisto una parte di Fanny e Alexander che avevo registrato in VHS anni fa...
un'altra storia vera, alle volte sembra di vivere dentro una barzelletta - ma ogni tanto penso a quando capita di avere un capo così a persone che fanno mestieri pericolosi, ai carabinieri per esempio. Ho portato pazienza finché ho potuto...
La versione che hai di Fanny e Alexander è quasi sicuramente più completa di quella che trovi sul dvd ufficiale! Tienila da conto, in attesa di fare acquisti su internet o in Svezia.
(una vera fregatura: vedi che sono due dvd e pensi che sia l'edizione completa...) (per fortuna io l'ho comperato su una bancarella, usato)
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