Parlando del teatro d’opera al cinema, è impossibile dimenticarsi di Luchino Visconti, e in particolare delle prime sequenze di “Senso” (1954): cioè il Trovatore di Giuseppe Verdi, al Teatro La Fenice di Venezia, in riprese che definire leggendarie è decisamente riduttivo. Ma questo è un film che ha fatto la storia del cinema, e non solo: a parlare di Visconti mi sento molto in soggezione, ed è questo l’unico motivo per cui non ho ancora messo nessun film di Visconti in questo blog. Per oggi mi limito a ricordare che Luchino Visconti, come Ingmar Bergman e come Orson Welles, alternava regolarmente l’attività di regista in teatro con quella di regista di cinema, e con esiti straordinari in entrambi i campi. Non è da tutti: per esempio qui da noi Giorgio Strehler e Luca Ronconi, registi grandissimi in teatro, non hanno mai fatto cinema. Di Luchino Visconti si cita ancora oggi (per fare un solo titolo) la leggendaria regia della “Traviata” di Giuseppe Verdi negli anni ’50, alla Scala: direttore Carlo Maria Giulini, protagonista Maria Callas.
Non mi sono invece mai piaciuti i film-opera degli anni ’40 e ’50, quelli con la Loren che fa Aida (doppiata da una vera cantante), o i film con Mario Lanza (che non è mai stato un vero cantante d’opera, ma solo un cantante di musica leggera, come da noi Claudio Villa o Al Bano), e via discorrendo, film che vedevo spesso in tv quand’ero bambino o ragazzo e che per lungo tempo mi hanno fatto detestare l’opera lirica. Qualcosa di buono c’è anche lì, s’intende: ma se fosse stato per quei film non mi sarei mai e poi mai appassionato all’Opera. Mi ci sono appassionato quando ho scoperto cos’era davvero l’Opera, e l’ho fatto dapprima grazie alla radio e poi grazie ai dischi: la parte visiva non aiuta a capire, l’opera va vista e ascoltata in teatro. Altrimenti, meglio i dischi, meglio la radio: e – aggiungo – anche alla radio, meno commenti ci sono e più si capisce (con le dovute eccezioni, naturalmente: oggi sempre più rare, purtroppo si parla troppo, e quasi sempre ripetendo a pappagallo una valanga insopportabile di luoghi comuni).
Sul filone “storico”, ho trovato orribili anche i film dedicati ai castrati, per esempio Paolo Ferrari e “Le voci bianche”(1964, regia di Pasquale Festa Campanile), e il film biografico sul famoso Farinelli, “Farinelli voce regina” di Gérard Corbiau (1999). La storia dei cantanti castrati è terribile, ed è durata quasi fino ai giorni nostri: l’ultimo cantore evirato, Domenico Moreschi, ha fatto in tempo ad incidere un disco. Cent’anni fa Moreschi era già anziano e la registrazione vale solo come testimonianza, la sua voce ormai era molto precaria; la cosa che fa impressione è che i cantanti come lui sono durati fino all’Unità d’Italia, nel 1870 lo Stato Pontificio aveva ancora cantori evirati, e si tratta di Roma, del Papa. Non sto qui a fare tutta la loro storia, che occuperebbe un volume intero: per indicarne l’orrore basterà dire che l’operazione andava fatta prima della muta della voce, cioè su bambini di 10-12 anni. Il senso dell’intervento era questo: evitare la muta della voce, mantenere anche da adulti un timbro di voce simile a quello delle donne, e questo soprattutto perché alle donne era vietato cantare in chiesa. Una donna in chiesa era considerata peccaminosa, un uomo evirato da bambino no: erano altri tempi, si dirà, e la vita di un bambino valeva poco. Non è detto che l’operazione andasse a buon fine: nei casi migliori, il cantante evirato faceva forse una vita migliore dei suoi coetanei, che in quei tempi morivano precocemente di fame e di malattie; e alcuni dei “castrati” fecero grande carriera anche in teatro, nel Settecento, diventando vere e proprie star, richiestissimi in ogni teatro d’Europa. Ma tutto questo a me fa impressione lo stesso: gli ultimi castrati, in teatro, cantarono nel primo Ottocento, poi il gusto cambiò, e – soprattutto – era arrivata la Rivoluzione Francese, stava cominciando il mondo come lo conosciamo oggi. Gli ultimi castrati (in teatro) risalgono ai tempi di Mozart e di Rossini, e di Meyerbeer: ma nessuno di questi compositori scrisse mai volentieri per loro, preferendo altre voci. La leggenda del “do di petto” nasce proprio dalla fine dell’epoca dei castrati: nel primo Ottocento i tenori seguendo il loro esempio eseguivano ancora gli acuti più estremi in falsetto, e il primo tenore che emise quelle note a voce piena fece scalpore. L’epoca d’oro per i castrati (è un termine di cui mi scuso, ma è quello comunemente usato dai musicologi) fu quella di Haendel, la prima metà del Settecento; e oggi le parti scritte per castrato vengono comunemente eseguite da donne, senza troppa fatica. Del resto, già Haendel (che a Londra fu impresario teatrale) scritturava senza problemi sia donne che castrati, a Haendel interessava solo che cantassero bene, dato che la partitura rimaneva invariata.
Nel cinema, quando si vede un castrato (cantante maschio con voce di timbro femminile) si passa da un eccesso all’altro, dalla caricatura becera in chiave checca fino al tombeur de femmes, ma i castrati non erano omosessuali o effeminati, erano persone come le altre; ci saranno sicuramente stati omosessuali ed effeminati tra di loro, ma questo accadeva nella stessa percentuale del resto della popolazione.
Dal punto vista musicale, con questi film siamo quasi sempre in chiave commedia degli orrori, sia con Festa Campanile che con i francesi di “Farinelli”, che mischiarono al computer due voci, una femminile e una di un maschio che canta in falsetto, per cercare di avere la voce di Farinelli come se si trattasse di mostruosità – ma invece bastava rivolgersi ad una voce di donna, a una voce naturale, ai dischi di Marilyn Horne, di Bernadette Manca di Nissa, di Nathalie Stutzmann, ad Ann Hallenberg, o magari alla sublime Kathleen Ferrier...
Incontriamo falsettisti e castrati (in brevi apparizioni) anche nei film romaneschi d’epoca, quelli di Sordi e di Celentano degli anni ’70 (cantanti sempre pessimi e grevemente caricaturali: non si capisce perché mai gli ascoltatori li ascoltino rapiti invece di prenderli “a calci ner culo”, per usare il linguaggio del Marchese del Grillo), e anche nel Casanova di Fellini (1976), dove però in quella scena (bruttina, a dire il vero) tutto appare più sensato perché il ricco padrone di casa è uno che ama i travestimenti, e dove la musica è un abile e dichiaratissimo falso.
Le immagini di questo post (del quale mi scuso per la crudezza, ma non posso cambiare la Storia, che purtroppo è andata davvero così), vengono tutte dal “Casanova” di Fellini: è il momento in cui, a circa due terzi del film, Casanova (Donald Sutherland) è a Dresda e incontra una vecchia amica che è una famosa cantante.
(continua)
4 commenti:
Argomento davvero interessante, questo dell'opera al cinema, del quale so davvero molto poco. Aspetto i post successivi.
ci sono molti luoghi comuni sull'opera lirica, e a me i luoghi comuni danno sempre molto fastidio, perché usarli significa "staccare la spina al cervello". A volte dietro i luoghi comuni c'è davvero una verità, ma in ogni caso è sempre meglio verificare...
Si tratta comunque di mie opinioni personali, ci tengo a ribadirlo: la verità assoluta non mi appartiene, e anche a me scappano delle fesserie, ogni tanto (però su questo blog le fesserie si possono correggere!!!)
Visto che in questo post accenni a Mario Lanza non ho potuto non pensare al suo ruolo in "Creature del cielo" di Peter Jackson e a come l'esaltazione che suscita l'opera spesso si presti, in alcune situazioni, ad eccitare l'immaginazione sempre più malata. Sarebbe un tema da approfondire. Mi viene in mente anche la scena finale di "I pugni in tasca" di Bellocchio, dove l'attacco convulsivo è scatenato dal ritmo vitalissimo e sfrenato della Traviata "Sempre libera.."
Sono due film che non ho visto... Li aggiungerò all'elenco, però almeno Bellocchio avrei dovuto ricordarmelo!
Mario Lanza non mi piace perché conosco i veri cantanti, gli manca del tutto lo stile di Bergonzi, Tucker, Pertile, Peerce, per citare solo alcuni dei tenori che circolavano negli anni '40 e '50. Mario Lanza aveva una voce piacevole, ma il paragone va fatto con Claudio Villa o con Al Bano. (su queste cose sono un bel po' drastico, anche troppo, lo so...)
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