sabato 14 maggio 2011

Fellini, "Il bidone"

Il bidone (1955) Regia: Federico Fellini - Soggetto e sceneggiatura: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, da un'idea di Federico Fellini - Fotografia: Otello Martelli - Musica: Nino Rota, diretta da Franco Ferrara - Scenografia e costumi: Dario Cecchi - Durata: 104'
Interpreti: Broderick Crawford (Augusto – voce di Arnoldo Foà), Richard Basehart (Picasso – voce di Enrico M. Salerno), Franco Fabrizi (Roberto), Giulietta Masina (Iris), Giacomo Gabrielli ("Baron"Vargas), Alberto De Amicis (Rinaldo), Sue Ellen Blake (Susanna), Lorella De Luca (Patrizia, figlia di Augusto), Mara Werlen (la danseuse), Xenia Walderi, Mario Passante, Irene Cefaro (Marisa), Riccardo Garrone, Paul Grenter, Emilio Manfredi, Lucetta Muratori, Sara Simoni, Maria Zanoli, Ettore Bevilacqua, Ada Colangeli, Amedeo Trilli, Tiziano Cortini, Gino Buzzanca, Ettore Bevilacqua, Rosanna Fabrizi, Barbara Varenna, Yami Kamadeva, Gustavo De Nardo, Gianna Cobelli, Tullio Tomadoni, Grazia Carini, Giuliana Manoni.

“Il bidone” esce subito dopo “La strada” e prima di “Le notti di Cabiria”, ed è forse il film più dimenticato di Fellini. E’ un bel film, anche se con molti difetti; questi difetti sono ben esemplificati in una recensione d’epoca:
«[. ..] Gli errori del film sono fondamentalmente due, uno di impostazione generale e l'altro di dinamica drammatica. L'autore ha infatti evidentemente esitato a lungo tra due alternative: se svolgere la narrazione in tono umoristico [...], oppure conferire ad essa un piglio decisamente tragico [...]. Da ciò nasce l'evidente squilibrio tra la prima parte del film, dall'andatura svagata e allusiva in cui i"bidonisti" richiamano apertamente i"vitelloni", e la seconda in cui l'incomprensione e la solitudine dei personaggi e la dolorosità di accenti, sono decisamente vicini a La strada. Tale incertezza genera implicitamente la seconda: una difficoltà d'avvio alla vicenda drammatica del film e una sostanziale assenza di una dinamica della condizione umana dei personaggi [. ..] ». Nino Ghelli, Bianco e Nero, XVI, 9-10, Roma, settembre-ottobre 1955. (tratto da”I film di Federico Fellini”, ed. Gremese)
Rivedendo oggi “Il bidone” verrebbe da dire che si tratta di un esempio tipico del film che fa cambiare la carriera di un regista, un film “sbagliato”, anche se non brutto, che fa prendere coscienza all’autore di che direzione prendere in futuro. E’ successo un po’ a tutti i grandi autori del cinema, per Stanley Kubrick probabilmente fu “Spartacus”, per Wim Wenders (che meglio di tutti ha spiegato cosa succede in questi casi) si trattò di “La lettera scarlatta”. Un film dove l’autore si trova a dire: “non voglio più lavorare così”, nel senso di volere il pieno controllo di quello che succede, senza interferenze esterne.
Si è discusso spesso di queste cose, parlando di cinema: c’è anche chi nega apertamente che un film si debba ascrivere al solo regista, perché il film è un lavoro di gruppo (e questo è sicuramente vero) oppure perché, si dice, “a Hollywood sono i produttori a decidere”, e quindi esistono i film di Selznick, della MGM, della “Light and Magic”, eccetera, e anche qui c’è molto di vero, ma bisognerebbe distinguere caso per caso, e smettere di ragionare come se tutto il cinema fosse uguale. Ci sono registi che sono tali solo perché hanno messo la firma su un lavoro collettivo, su indicazione dei produttori, ma ci sono anche i film d’autore: i film di Fellini, nel bene e nel male, sono proprio di Fellini e non dei suoi produttori. Idem per Kubrick, per Antonioni, per Tarkovskij, per Wenders, per il primo Herzog, per i Coen, e via elencando. E ci sono, ovviamente, tutte le vie di mezzo: si può fare cinema d’autore lavorando a Hollywood (vedi Peter Weir), oppure fare film commerciali lavorando nel cinema indipendente: il mondo è bello perché è vario, ogni tanto bisogna ripeterlo. Ed è proprio qui la bellezza del mondo, al di là del luogo comune: nella varietà delle sue forme, nelle differenze, nel trovare sorprese continue.
Wenders racconta di aver deciso di fondare una sua casa di produzione, dopo “La lettera scarlatta”: con lui si associarono Werner Herzog e gli altri grandi del cinema tedesco, e da allora Herzog e Wenders hanno deciso di fare tutto in proprio, finanziamenti compresi. La stessa cosa fece (ancora prima) Ermanno Olmi in Italia, e gli esempi potrebbero continuare.
Fellini sceglierà una strada diversa, quella di “martirizzare” i suoi produttori, che gli davano carta bianca perché sapevano che sarebbero stati ripagati. Fiducia ripagata, perché il cinema era nel suo periodo migliore, e dopo “Il bidone” (1955) sarebbero arrivati i grandi successi al botteghino, “Le notti di Cabiria” (1957) e soprattutto “La dolce vita” (1959).
La storia raccontata è abbastanza semplice: si tratta non tanto di “bidonisti”, quanto di vere e proprie carogne, una banda di truffatori che non si fermano davanti a niente e che prendono i soldi, di preferenza, alle persone che di soldi ne hanno pochi. Si tratta di grosse cifre: le cifre che ascoltiamo nel film, le centinaia di migliaia di lire, negli anni ’50 erano paragonabili ai diecimila o trentamila euro di oggi. E sono soldi, come vediamo nel film, portati via a persone che ne avevano bisogno: come il benzinaio, o come le persone che vivono nelle baracche e aspettano l’assegnazione di una casa. E non vale dire che si tratta di persone ingenue, che la truffa è visibilmente grossolana, perché così facendo si giustificano anche le truffe odierne: siamo tutti ingenui o incompetenti, in qualche modo, e quando firmiamo un contratto, ancora oggi, è difficile sapere che cosa ci stiamo davvero impegnando a fare.
I tre imbroglioni, comunque, sono descritti con simpatia e con grande calore umano da Fellini: ed è giusto che sia così, perché si tratta di disgraziati che tirano solo a vivere bene per qualche settimana, e per essi – è chiaro fin dall’inizio – questo modo di vivere può portare facilmente al carcere o alla tragedia.
Siamo forse più dalle parti dei “Vitelloni” che di “La strada”, il film immediatamente precedente da cui Fellini porta con sè due dei protagonisti, Richard Basehart e Giulietta Masina, oltre alla voce di Arnoldo Foà, re dei doppiatori, non più per Anthony Quinn ma per Broderick Crawford. Nel “Bidone” Gelsomina sposa il Matto, se così si può dire: e ne siamo tutti contenti, era quello che speravamo in “La strada”, ma qui la trovata sembra piuttosto goffa, nonostante la bravura degli interpreti. Molto bella la musica di Nino Rota, ancora oggi molto eseguita in concerto: al di là dei film di Fellini, Rota è stato uno dei maggiori compositori della seconda metà del ‘900, e come direttore di Conservatorio fu insegnante di Riccardo Muti. Molto bravo Enrico Maria Salerno ad alleggerire la sua voce per il personaggio di Basehart, e molti ottimi attori con menzione speciale per la paraplegica Susanna interpretata da Sue Ellen Blake.
I truffatori del “Bidone” portano via i soldi alle persone povere, e questo non li rende affatto simpatici; alla fine, Crawford se ne va via con i soldi della paraplegica, nonostante la scena sia commovente se li nasconde e non li vorrebbe dare ai suoi colleghi, vorrebbe tenerseli per sè e la scusa della giovane paralizzata gli sembra perfetta per rifilare un “bidone” anche ai suoi collaboratori. Che non sono più, a questo punto del film, i vecchi amici: della compagnia che avevamo visto all’inizio è rimasto solo il perfido Vargas. Il pittore soprannominato Picasso (Richard Basehart, il “Matto” di “La Strada”) ha accettato i consigli di chi gli vuol bene ed è tornato a casa da sua moglie (Giulietta Masina) e da sua figlia, alla quale vuole un gran bene; il viveur Roberto (Franco Fabrizi, già protagonista nei “Vitelloni”) è andato a vivere a Milano, solo Augusto è rimasto fermo nel suo destino, e questo gli sarà fatale.
«[... ] Tutti i film di Fellini mi irritano: Lo sceicco bianco per la sua meschineria, Agenzia matrimoniale per la sua affettata sensibilità, I vitelloni per la sua limitazione, La strada per la sua laboriosa e letteraria cineseria. Il bidone assomma le qualità di questi quattro film al punto che i difetti di Fellini - sempre gli stessi: puttanate, sottigliezze, simbolismo grossolano, errori tecnici - passano in secondo piano, molto lontani nella profondità di campo, mascherati e forse anche diluiti dal volto sublime e dalla statura grandiosa di Broderick Crawford [... ]. Il bidone inizia in malo modo e finisce solennemente: questo miscuglio esplosivo può dar fastidio in un festival a tutti coloro che entrano nella sala impazienti di uscirne; ma io, che avevo tutto il tempo a mia disposizione, sarei rimasto volentieri delle ore a veder morire Broderick Crawford ».
François Truffaut, Cahiers du Cinéma, 51, Paris, octobre 1955. (tratto da”I film di Federico Fellini”, ed. Gremese)
(...) Ricorda Angelo Solmi, nella scorrevolissima «Storia di Federico Fellini» (Milano, Rizzoli, 1962) che Fellini cominciò a pensare al film nel 1954 dopo il grande successo de La strada (quando, come ha detto lo stesso regista, tutti gli chiedevano un seguito alla Strada, magari intitolato Il ritorno di Gelsomina; del resto quello dei "seguiti" è stato un problema tipico di Fellini, ma forse non soltanto suo, e di tanti autori italiani e non italiani; perfino dopo I vitelloni ci fu chi voleva un "seguito", intitolato, misteriosamente, I formigoni; e, d'altronde, il famoso Moraldo in città, sempre vagheggiato da Fellini e mai girato, non era proprio un "seguito" delle avventure del vitellone Moraldo?).
Girando La strada Fellini aveva accumulato molte osservazioni su tutto un mondo lacero e semi-legale, o apertamente illegale, di gente, appunto, "di strada" che confinava con la truffa e la piccola o grande soperchieria. Una sera, a Ovindoli, in trattoria, un magliaro gli aveva raccontato la propria vita. Via via ne era nata l'idea di un film "collettivo" su truffatori vari, una sorta di Vitelloni illegali, appunto, con Sordi, Fabrizi, Peppino De Filippo ... (ripensandoci adesso, avrebbe potuto essere un gran film, una sorta di summa felliniana della commedia all'italiana). Poi, dice sempre Solmi, sulla scorta di dichiarazioni di Pinelli, via via che il lavoro di documentazione aumentava, via via che venivano individuati e intervistati molti "bidonisti", si scoprì quel che era ovvio si scoprisse: e cioè che il loro era un mondo meschino, feroce, spietato, "pieno di crudeli arrivisti che non si accontentavano di guadagnare in qualche modo la giornata, ma puntavano sul colpo grosso e si facevano tra loro una guerra a morte". Sicché invece di un film corale, Fellini finì poi per puntare tutto su un bidonista principale, affiancato da due altri minori, e per raccontarne le imprese stranite e stancamente fortunose, sino al crollo ed alla morte. Per il protagonista Fellini aveva pensato prima a Bogart e poi a Fresnay. Dovette "accontentarsi" di Broderick Crawford, che sembra non avesse mai visto, ma che era allora assai noto come protagonista di Tutti gli uomini del re di Robert Rossen. Ancor oggi la scelta mi pare straordinariamente fortunata. Crawford porta nel film non solo la puntualità di reazioni del buon professionista americano, ma una corposità dilatata e stanca, un cinismo astuto e sfatto, una furbizia senza illusioni, che danno ad Augusto una coloritura minuta e ferocemente patetica, che non è l'ultimo dei meriti del film. (...) (Claudio Fava, tratto da”I film di Federico Fellini”, ed. Gremese)
«[... ] A nostro parere a Fellini è mancata la fiducia nella capacità del pubblico di assimilare e di comprendere la sua materia. Certe insistenze di talune scene, e specie di quelle corali [...], denunciano in lui la preoccupazione di non essersi spiegato abbastanza; e implicano ripetizioni ostinate e fastidiose. Qui basterà tagliare, il rimedio è facile [ed effettivamente alcuni tagli furono fatti dopo la proiezione veneziana e prima della presentazione del film al pubblico delle sale commerciali - n.d.r.]. Più ci preoccupano certe caratteristiche del film che sembrano rivelare i limiti dell'ispirazione del regista. ...]».
Arturo Lanocita, Corriere della Sera, Milano, 11 settembre 1955. (tratto da”I film di Federico Fellini”, ed. Gremese)

2 commenti:

Matteo Aceto ha detto...

Anche "Il Bidone" ho finora visto una volta sola, però, tutto sommato, è un film che m'è piaciuto. Condivido buona parte delle critiche e il giudizio di Claudio Fava sull'efficacia interpretativa di Broderick Crawford, mentre avrei dato volentieri un bonario spintone a Truffaut (della serie "ma vedi di andartene") per le "puttanate" che ha detto.
Certo, considerato "Il Bidone" nell'opera complessiva di Fellini, appare come un film minore ma - preso per quello che è - non mi sembra affatto un... bidone.

Giuliano ha detto...

Pensa che "Il bidone" piaceva molto a Bergman: l'ho trovato ieri per caso, cercando altro, in un'intervista all'inizio del "Castoro Cinema". In effetti, qualcosa di Bergman c'è.
Truffaut scriveva nel 1955, ben prima di tutto quello che è venuto: quindi lo assolverei. Comunque, è divertente! Meglio una critica così di tanti che nemmeno guardano i film, o magari degli uffici marketing di oggi (che fine ha fatto la critica cinematografica? Mah!). Ho messo questo parere di Truffaut, al di là del divertimento, proprio perché rende l'idea del momento in cui fu girato il film. Giudicando soltanto da I vitelloni e La strada, non si sapeva ancora bene chi era Fellini, e forse non lo sapeva neanche lui. Però nel 1955 io non c'ero, e mi sa che anche tu...
:-)
Anche a me è piaciuto, avrebbe avuto bisogno di qualche "limatina" qua e là, ma anche così come è non è male.