IL SILENZIO È D’ORO (Le silence est d’or, 1947). Scritto e diretto da René Clair. Fotografia di Armand Thirard e A.Douarinou. Scenografia di Léon Barsacq. Musica: Georges Van Parys. Interpreti: Maurice Chevalier, François Perier, Marcelle Derrien (Madeleine), Dany Robin (Lucette), Robert Pizani (Duperrier), Christiane Sertilange (Marinette), Paul Olivier, Gaston Modot, Raymond Cordy, Paul Demange (il sultano), e molti altri. Durata: 100 minuti.
Un omaggio di René Clair all’inventore del cinema come lo conosciamo oggi, Georges Méliès. Méliès, mago e prestigiatore, aveva rilevato a Parigi il teatro che era stato del famoso Houdini; quando i Lumière fanno la loro prima proiezione va a vederla e chiede di comperare una di quelle macchine, ma i Lumière non gliela concedono e allora Méliès (che è anche un abile artigiano) se ne fabbrica una da solo, inizia a girare brevi film, e soprattutto scopre i trucchi cinematografici. La presenza di fantasmi e diavoli che appaiono e scompaiono nei suoi film (il diavolo è quasi sempre lo stesso Méliès nel classico costume mefistofelico) sono l’immediata garanzia di successo per il nuovo mezzo appena inventato. Méliès inizia a produrre film nel 1896, un anno dopo la prima proiezione dei Lumière, e terminerà la sua carriera nel 1918, non riuscendo più a stare al passo dei colossi americani, francesi e italiani (a Torino, Pastrone e “Cabiria”) che avevano cominciato a muoversi con ben altri mezzi rispetto a quelli ancora artigianali di Georges Méliès; e soprattutto con ben altri capitali a disposizione.
René Clair si ispira dichiaratamente a Méliès per questo film, ma il suo protagonista non assomiglia affatto al vero Méliès: affidando la parte a Maurice Chevalier, attore brillante e con fama di scapolo e di viveur, Clair prende le distanze dal film biografico sia pure nel contesto di una riproduzione storica perfetta. Tra i collaboratori di Clair per questo film, infatti, ci sono alcuni tecnici che avevano lavorato con Méliès: la ricostruzione dei teatri di posa è eseguita con estrema attenzione anche al minimo dettaglio, così come la tecnica di costruzione delle scenografie, la posizione della cinepresa e del palcoscenico, se si va a confrontare si scopre che tutto è identico alle fotografie prese mentre Méliès lavorava, e non poteva essere diversamente perché René Clair aveva veramente vissuto quell’epoca, cominciando a fare cinema (come attore) già nel 1920. A differenza di Méliès, però, Emile (Maurice Chevalier) ha un produttore a cui rendere conto: ecco un’altra differenza significativa, ancora un modo per prendere le distanze dal film biografico e anche un modo per Clair di parlare un po’ di se stesso e delle sue esperienze personali. Va anche detto che Clair è forse troppo preso personalmente dal soggetto per poter condurre lucidamente il film, che è a tratti un po’ confuso, discontinuo (cosa strana per Clair).
Il film inizia benissimo, per strada, con un anticipo di Grandi Manovre, tra l’altro: i dragoni a cavallo si vedono in un breve frammento della sfilata del carnevale, e dopo i dragoni sfilano i moschettieri, ma con l’ombrello, perché piove. Si prosegue poi un po’ a sbalzi, il film si perde per strada, torna grande per alcune sequenze, finisce con un’idea ottima ma realizzata un po’ stancamente. C’è spazio anche per l’ometto che porta sul set una capra: gli avevano chiesto un cammello, ma lui ha solo una capra, e dunque la capra finirà col recitare nei film di Emile Clément. E c’è spazio per tutti gli omini dei film di Clair, Raymond Cordy e soci, come nel Milione: si rappresenta la nascita del cinema, i primi anni, ed è un gran bel vedere perché la ricostruzione è minuziosa. René Clair c’era, ha conosciuto Méliès, ha visto i suoi studi, li ricostruisce in questo film. Si vede anche molto teatro: varietà, can can, donnine, comici, canzoni e cantanti, e non possono mancare i musicisti di strada come in Sotto i tetti di Parigi.
Chevalier è in gran forma, così come l’attore che fa Celestin, padre della protagonista, vale a dire l’uomo che sposò la donna che era amata da Chevalier; e che adesso ha una figlia ventenne, identica a sua madre. Celestin è un ometto simpatico ma ridicolo, sempre in giro in tournée, anche in Algeria; anche dopo vent’anni, pur mantenendo inalterata l’amicizia, Emile-Chevalier non si capacita che la donna che amava si sia sposata con uno come lui. Sarà però la ragazza, la figlia di Celestin, a condurre il gioco. Sembra inerte, indifferente, ma si fa sempre quello che vuole lei; le piace Emile ma sceglierà il suo giovane assistente (interpretato da François Perier), e se non fosse per lei il ragazzo non si sarebbe mai deciso. Chevalier anziano ha qualcosa di James Stewart anziano (forse si somigliavano anche da giovani, ma era difficile notarlo).
Sono tutti bravi gli altri attori, soprattutto nelle piccole parti; però la protagonista non va, non funziona, ed è grave perché le donne come lei sono sempre state il vero centro dei film di Clair. Così come è un po’ scialbo il suo innamorato, che però si dimostrerà (sul palcoscenico) un ottimo attore; e sul suo non essere bello ci si scherza, con ottimi esiti, nei dialoghi. Del resto, i veri divi ai tempi di Méliès non erano ancora arrivati: gli attori erano ancora volti anonimi, all’inizio del cinema. Divertente la scena del ricchissimo Sultano in visita agli studios, dal quale ci si aspettano importanti finanziamenti: come prevedibile prima chiede se la ragazza che recita è in vendita, ma poi protesterà e vorrà il lieto fine, che gli verrà dato cambiando lì per lì la sceneggiatura: lo accontentano, certo che lo accontentano. Anche a voi piace il lieto fine, vero?
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