martedì 23 agosto 2011

I fratelli Coen ( II )

Il grande Lebowski
E’ molto bello, per certi versi toccante. E’ un film di personaggi, volutamente scombinato, quasi una strip di fumetti. Ma, del resto, quando mai i Coen sono stati lineari? Sequenze spettacolari, mai una banalità, attori e personaggi splendidi. Mi trovo assolutamente d’accordo col discorso finale del cowboy che beve salsapariglia (una presenza angelica?): è bello sapere che esiste un Drugo Lebowski, comunque vada a finire la storia. (e la partita a bowling, col grande Turturro... (marzo 2002)
...l’ironia, o meglio l’irrisione, la derisione, è la chiave di lettura del ridicolo o delle demenze sociali. Il protagonista non ha un’occupazione, come tanti adesso nella fine del lavoro; non ha amori né ideologie né passioni; non pretende di dare alla propria vita altro senso se non quello di viverla con meno problemi e più gioco possibile. “Il grande Lebowski”, insomma, è l’esatto contrario della narrativa ottocentesca (con le sue storie compiute, eroi compatti, sfondi sociali, sentimenti forti, buone cause) che ancora nutre la maggior parte dei film e soprattutto dei film americani d’azione (...) : è un’immagine di quella realtà nostra di cui la cultura stenta a prendere atto, dalla quale la cultura viene lasciata indietro. Per di più, è molto divertente nel tracciare il ritratto di un personaggio e di una città, Los Angeles: «Dopo averla vista, puoi morire senza pensare che Dio t’abbia fregato.» (...)  L’Espresso 14.5.1998, Lietta Tornabuoni per l’ultimo film dei Coen, “Il grande Lebowski” (LA e poi muori...?) (mah!)
L’uomo che non c’era
E’ il solito grande, bellissimo esercizio di stile dei Coen. Si può discutere sulla tinta un po’ funerea, ma i fratelli Coen sono di un talento spettacolare, e i loro film quasi sempre perfetti. Questo qui, in particolare, lo è: anche se il soggetto non mi interessava molto, l’ho guardato fino in fondo senza problemi e mi è piaciuto. Ottimi gli attori, Billy Bob Thornton e tutti quanti, l’avvocato Freddy Riedenschneider che è Tony Shalhoun (una parte che sarebbe stata perfetta per Romolo Valli), e poi Scarlett Johansson che fa la bambina pianista, e suona Beethoven. (gennaio 2004)
ALBERT CAMUS E I FRATELLI COEN
di Enrico Regazzoni, La Repubblica 22 febbraio 2002
L' ultimo film dei fratelli Coen, L' uomo che non c' era, continua a stregare migliaia di spettatori. E' semplicemente bellissimo: la trama è secca, la fotografia superba, la recitazione dei due principali interpreti (Billy Bob Thornton e Frances McDormand) impeccabile, la regia a dir poco magistrale. Ma bastano questi aggettivi, per quanto eccezionali nella loro compresenza, a spiegare l' incantamento che ci assale durante la proiezione, e quel lieve stato ipnotico, al limite dell' ebetudine, che ci costringe al silenzio mentre ci disperdiamo per le strade, dopo lo spettacolo? No, non bastano. E allora? La storia, si ricorderà, è ambientata verso la fine degli anni Quaranta in una cittadina del nord della California. E' qui che il taciturno Ed lavora da barbiere nel negozio del cognato. Ha una moglie, Ed, che fa l' impiegata contabile in un grande magazzino, e che ha una tresca con il suo principale. Per caso, da una conversazione con un tale cui sta tagliando i capelli, Ed intravede la possibilità di un business, per il quale occorre però un capitale iniziale. Non avendo denaro, decide di procurarselo ricattando l' amante della moglie. Da qui, il precipizio: nel corso di una colluttazione, Ed ucciderà il corpulento amico della sua signora; del delitto verrà accusata la moglie; Ed proverà ad autodenunciarsi, per salvarla, ma non verrà creduto; lei si impiccherà in cella; infine, a Ed toccherà la sedia elettrica per un altro omicidio, che non ha commesso. Questi i passi, ben staccati l' uno dall' altro come i gradini di una scala che scende. Ma la progressione della catastrofe, in sé, non sbalordisce più che tanto. E anzi sembra studiata ad arte per scontornare l' imperturbabilità del protagonista. Quella sì, fa paura e incanta.
Lascia sgomenti il modo in cui Ed muove verso la fine, l' assoluta ambivalenza delle sue scelte, la gratuità dell' intenzione, e insomma quella sensazione perfino fisica di inappartenenza alla sua stessa vita: è tutto questo a risultare semplicemente magnetico, e a conferire alla narrazione la cifra enigmatica della tragedia, dove il protagonista vive in un costante scollamento dal senso profondo delle sue azioni. Nel Novecento, questa deriva di un' esistenza liberata dal dolore perché liberata dalla speranza aveva avuto uno dei suoi più inquietanti esponenti in Meursault, protagonista de Lo straniero di Albert Camus. Quel breve romanzo, che fece da specchio dimagrante alle generazioni postbelliche e che ancor oggi rappresenta il valico anagrafico che separa l' onnipotenza dell' adolescenza dall' impotenza della giovinezza è certamente fra le letture più solide dei fratelli Coen. Forse i due registi l' hanno già rivelato, in una qualche conferenza stampa. O forse qualche critico l' avrà già sottolineato. Ma non sarà comunque banale scrivere, qui e ora, che l' algerino Meursault ha un fratello americano, di una sessantina d' anni più giovane, che gli assomiglia in modo impressionante: questo fratello si chiama Ed e fa il barbiere, il barbiere che non c' era. Un rapido checkup psicologico dei due soggetti conferma il loro stretto rapporto di parentela. Meursault, sulla spiaggia, spara ripetutamente all' arabo perché costui lo ha abbagliato indirizzando verso i suoi occhi i raggi del sole riflessi dal coltello. E' un omicidio che nasce dal fastidio di un istante, un gesto senza psicologia: lui spara per difendersi da quei raggi che gli fanno male, spara al sole e spezza due vite, quella dell' arabo e la propria. Per quel delitto verrà poi processato e condannato, secondo un rapporto causaeffetto che gli apparirà tanto logico quanto estraneo. Analogamente, il barbiere Ed ferisce a morte l' amante della moglie: e anche il suo è solo il tentativo di fermare la stretta delle mani che lo stanno soffocando, un colpo portato con l' automatismo di chi allontana un pericolo da sé. Poi torna a casa, e riprende il monologo ai piedi della moglie addormentata esattamente dal punto in cui l' aveva interrotto la telefonata con cui l' amante lo convocava per aggredirlo.
Sia Meursault che Ed spiano con attenzione la loro stessa vicenda, e vorrebbero in certo senso collaborare al buon andamento delle cose, anche quando queste rotolano implacabilmente verso la catastrofe. Sono interessati, più che coinvolti, dal funzionamento dei meccanismi sociali che li stanno annientando. Trovano giusto pagare per l' errore commesso, ma di questo errore non mostrano alcuna percezione morale. E in tale distanza dall' obiettività dei loro comportamenti, e dunque dalle conseguenze, si fonda il fascino che esercitano su di noi: giacché sembrano agire per arbitrio assolutamente libero, quasi avessero superato per sempre i drammi della coscienza con quel balzo verso lo spossessamento di sé che solo al saggio è concesso. Ma, a ben guardare, è solo un' apparenza. Il ghigno fantastico che è stampato sul volto di Ed, dalla prima immagine all' ultima, è sì la smorfia di chi sa tutto ma anche quella di chi ignora tutto. E' la cerniera espressiva che salda l' alba e il tramonto della consapevolezza, la più appagata saggezza e la più naturale idiozia (in ciò l' attore Billy Bob Thornton è vertiginoso; meno fortunato, o meno abile dei due registi americani fu il nostro Luchino Visconti, che avendo affidato il suo Straniero cinematografico all' arte di Marcello Mastroianni dovette accontentarsi di uno sguardo di arresa malinconia). Del resto, l' ambivalenza è la cifra che segna la riflessione di questi due impassibili eroi. Ogni cosa può valere il suo contrario, tutti gli errori sembrano pesare allo stesso modo (cioè poco), nulla si può davvero perdere poiché nulla si può davvero avere. «A che serve conoscersi meglio?», si interroga Ed, ripensando alla storia del suo matrimonio. «Cosa importa che Maria offra oggi la sua bocca a un nuovo Meursault?», si domanda Meursault dalla cella in cui aspetta di essere condotto al patibolo. L' inventario delle analogie potrebbe continuare, ben più a lungo di quello delle differenze. Citeremo ancora solo la morte e il ritmo. Sia Meursault che Ed affrontano la propria esecuzione come la necessaria conclusione degli eventi che li hanno visti protagonisti. Si osservano morire con lo stesso disincanto con il quale, da uomini liberi, assistevano al passeggio delle persone per strada. E' la prova suprema della loro inappartenenza: una fine violenta che può anche spaventarli, ma soprattutto li incuriosisce e non riesce a riguardarli del tutto. Quanto al ritmo, entrambe le storie si muovono con cadenze lente e sincopate, quasi un singulto narrativo costante che tiene a bada il pathos e cerca di porre il protagonista e il lettore (l' attore e lo spettatore) a un' analoga distanza dalla vicenda. A tal fine, Camus adottò il tempo del passato prossimo, mantenendolo per tutto il romanzo. Non meno efficace è la soluzione stilistica dei Coen, che consegnano questo compito alla fotografia in bianco e nero e spezzano il thriller in un puzzle di brevi episodi che sembrano altrettanti frammenti compiuti. Che dire, insomma? Forse che i due registi americani hanno fatto un film che è un pregevole plagio? Tutt' altro: recuperando un esemplare archetipo letterario, i fratelli Coen hanno rimesso in moto autorevoli fantasmi della nostra immaginazione. Che importa che il loro barbiere debba la sua esistenza all' indolente algerino di Camus? Questo debito Ed lo paga, nel corso del film, con una serie di generose citazioni. Poi vive la sua avventura, tutta originale. O meglio: non la vive, perché non c' è. Ma dalle radici della sua assenza non cessa di additare quella zona d' ombra nella quale il senso delle nostre azioni sembra finalmente irrilevante. E dalla quale, in futuro, forse verranno a turbarci nuovi Meursault. - ENRICO REGAZZONI
(continua)

2 commenti:

Ismaele ha detto...

"questo non e' il Vietnam, e' il bowling: qui ci sono delle regole da rispettare"

genio puro:)

Giuliano ha detto...

ti dirò, mi sento colpevole perché non ho rivisto tutti i film prima di scriverne qui...Ma questo è un lavoro di "disbrigo", sto solo finendo di mettere in ordine. La mia impressione però è che quasi nessuno abbia colto veramente cosa c'è dietro al grande Lebowski, come con "Arancia meccanica" tutti si sono fermati al livello più superficiale. I Coen sono veramente sfuggenti, impenetrabili, e a me piacciono proprio per questo.