lunedì 15 novembre 2010

Una lezione d'amore ( II )

EN LEKTION I KARLEK (UNA LEZIONE D'AMORE, 1954). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Martin Bodin e Bengt Nordwall. Musica: Dag Wirén. Scenografia: P. A. Lundgren. Interpreti: Gunnar Björnstrand (dottor David Erneman), Eva Dahlbeck (Marianne), Harriet Andersson (Nix), Yvonne Lombard (Suzanne), Ake Grönberg (Carl-Adam, lo scultore), Olof Winnerstrand (il nonno), Renée Björling (la nonna), John Elfstroem (Sam ), Birgitte Reimer (Lisa), Dagmar Ebbesen (suor Lisa), Sigge Fúrst (il pastore), Helge Hagerman (il viaggiatore). Produzione: Helge Hagerman per la Svenskfilmindustri.. Durata: 96 minuti

Al minuto 66, dai nonni, la “partenza in macchina” stile Stanlio e Ollio (l' “arrivederci!” prolungato all'infinito, in un famoso cortometraggio) con tante piccole gag. Poi la nonna manda suo marito “a mettersi le mutande con le maniche lunghe”, e lui va, obbediente, seguito dalla nipotina Nix (spedita dalla nonna) che ha il compito di “evitargli di mettere tutto in disordine cercando nei cassetti”: e così succede.
Mentre il nonno si mette le scarpe, finita l’incombenza, questo dialogo:
- Beh, stai volentieri coi nonni?
- La nonna mi dice sempre che devo imparare ad essere una signorina.
- Oh, non te la prendere: la nonna cerca sempre di riformare la gente su vasta scala. A proposito, tu cosa vuoi essere?
- Un’esploratrice polare.
- Oh, pensa un po’.
- Laggiù non c’è nessuno.
- Ce l’hai col prossimo, dunque.
- Vogliono tutti sopraffarmi.
- Questa è una legge di natura.
- (cambiando tono) Nonno, tu che sei così vecchio, non hai paura della morte?
- (ride) No, niente affatto.
- Credi in Dio?
- Sì, se per Dio intendi tutto ciò che è vita, allora credo in Dio. Credo in questa vita, nella vita eterna e in ogni tipo di vita.
- E la morte, allora?
- La morte è solo una frazione della vita. Pensa che noia se ogni cosa fosse sempre la stessa! E’ per questo che c’è la morte, che rinnova la vita per l’eternità. Pensa che cosa spaventosa sarebbe per me se dovessi andare in giro per milioni di anni con le mutande lunghe...
- Sembra così semplice quando ne parli tu...ma quando ci penso da sola, diventa tutto orribile e complicato!
- E’ comprensibile che i ragazzi siano agitati e tormentati, è solo quando si diventa vecchi come me che si riescono a seguire le istruzioni per la vita.
- Ma perché dev’essere così?
- Tutto ha un principio, uno sviluppo e un completamento. Forse questa nostra vita è solo un inizio. Su, torniamo dagli altri!
Di seguito, al minuto 74, nel bosco: Eva dice al marito che vorrebbe che tutto restasse così com’è; vorrebbe solo un altro bambino ancora, uno piccolo. “Fosse per te ne avremmo avuti dieci” sorride lui, e lei gli risponde: “Cosa c’è di male? E’ così bello stare con i bambini piccoli...” “Ma allora che fine avrebbe fatto la mia amante?” sorridono insieme.
Di seguito, lui dice che vorrebbe avere uno scafandro, scendere nel mare (lo dice ridendo, a sua moglie che gli aveva chiesto che cosa volesse fare: è come per l’esploratrice polare, bisogno di star da soli)
Il finale avviene con musica che sembra presa da Richard Strauss: del resto il film somiglia molto ad una sua commedia, come Arabella o Intermezzo o Capriccio. E poi il carillon come all’inizio.
Tra gli interpreti, vanno segnalati anche l’amorino, due buffi baristi a 1h24, e il bassotto Tax.
Carl Adam è interpretato dallo stesso attore di “Sera del saltimbanco” (Una vampata d’amore), Ake Grönberg. Eva Dahlbeck nella scena in flashback dove è vestita da ragazza anni ’50 (come la Susi di “La settimana enigmistica) non è molto credibile ma riesce ugualmente a cavarsela bene; e c’è anche un accenno alla lobotomia, forse qualche idea nel soggetto originario che non è poi stata sviluppata: il pacifico ed efficientissimo autista Sam dice infatti di essere stato lobotomizzato dopo aver ucciso la fidanzata (!!!). Un dettaglio che stride molto con l’andamento del film, direi che è una frase che si poteva eliminare dalla sceneggiatura, forse Bergman aveva le sue ragioni per tenerla ma sono ragioni che mi sfuggono.
Un’ultima curiosità: in “Una lezione d’amore” Bergman fa un’apparizione di pochi minuti, alla Hitchcock, forse l’unica della sua carriera; succede all’inizio, quando viene disturbato da Gunnar Björnstrand (salito da poco) mentre sta leggendo il giornale nel corridoio del treno da Malmoe a Copenhagen.
Tino Ranieri, dal volume su Bergman del CastoroCinema:
(...) In teatro, Bergman inscena nel 1954 una nuova versione di Sonata di fantasmi, ponendole accanto una Vedova allegra di Lehar e un balletto, da lui stesso scritto insieme a Carl-Gustav Kruuse, intitolato Giochi crepuscolari. Spettri o operetta? Tutto, risponde Bergman. E infatti il suo nuovo film è Una lezione d'amore, che tiene dell'una e dell'altra cosa. Filologicamente è un prototipo, perché qui per la prima volta - salvo certi squarci di Donne in attesa - il regista affronta la commedia, o piuttosto quel personale tipo di commedia drammatica, forse di provenienza stilleriana, che poi troverà maggiore respiro in Sorrisi di una notte d'estate. Tuttavia sarà piú esatto dire che Bergman non fa che continuare il discorso che gli sta a cuore da sempre, quello della logica figlia della solitudine e della inestricabilità di rapporti fra amore, sofferenza e comportamento. Alleggerisce i concetti, ma anticipa Il posto delle fragole. Anzi Una lezione d'amore è Il posto delle fragole, visto dal figlio anziché dal padre. Solo che le constatazioni piú acri sono sostituite da epigrammi e dagli intermezzi mordaci del vaudeville. C'è perfino - per chi non si scandalizza - questo scambio di battute: « Ma se, come voi dite, il padreterno ha fatto prima la donna con cura e poi l'uomo alla meglio, come la mettiamo con la costola mancante? » « Già, è vero, ma a noi uomini l'ha fatta spuntare un poco piú sotto ».
Niente nel soggetto di Una lezione d'amore è particolarmente originale. Una coppia, marito e moglie, si trova sull'orlo del divorzio dopo quindici anni di matrimonio. Entrambi tentano di «rinnovarsi» e di giustificare la mutua scontentezza in una labile avventura. La figlia adolescente segue il conflitto con l'ansietà di chi sta per avvicinarsi a sua volta e per la prima volta all'amore, e ne confronta con curiosità le premesse, i tempi, le reazioni. La «lezione d'amore» che riceve indirettamente dai genitori le lascia la bocca amara, ma le fa intendere anche che uno dei piú grigi segreti della vita in comune è nel contempo uno dei più indistruttibili: ovvero l'abitudine, l'amore per gli stessi ricordi, l'egoismo sentimentale, generalmente piú tenaci d'ogni velleità di ribellione. Papà e mamma infatti si riconciliano, il mondo non diverrà né piú bello né piú brutto di prima, e in amore - una volta ancora - l'esperienza non sarà servita a niente. Il film si chiude su un Cupido ammiccante, allegoria che ha fatto gridare di ribrezzo la critica abituata da Bergman ad altre finezze. Ma è l'allegoria giusta. La riconciliazione nel segno delle piccole cose di pessimo gusto, il trionfo della convenzione, la rassegnazione dei bric-à-brac immutabili che si ammantano di polvere.
Questo Bergman degli anni Cinquanta, che può dire le cose piú triste sulla donna e sull'amore ed essere bravo lo stesso. A volte si crederebbe che non sia mai andato al cinema. Guai se pensasse a tutti i film fatti prima, dagli altri, sugli stessi argomenti. Ma non se ne cura. Mette uno sciocco dialogo tra coniugi in campo lunghissimo, in penombra, sopra un canale di Copenaghen, e tutto pare nuovo.
(Tino Ranieri, dal volume su Bergman del CastoroCinema)

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