giovedì 18 novembre 2010

Le radici del cielo ( I )

THE ROOTS OF HEAVEN (LE RADICI DEL CIELO, 1958) Regia: John Huston; sceneggiatura: Romain Gary, Patrick Leigh-Fermor (dal romanzo di Romain Gary); fotografia: Oswald Morris; musica: Malcolm Arnold; interpreti: Trevor Howard (Morel), Juliette Gréco (Minna), Orson Welles (Cy Sedgewick), Friedrich Ledebur (Peer Qvist), Errol Flynn (Forsythe), Paul Lukas (SaintDenis), Herbert Lom (Orsini), Gregoire Aslan (Habib), Bachir Touré (Yusef), André Luguet (il governatore), Olivier Hussenot (il barone), Eddie Albert (il fotografo Abe Fields), Edric Connor (Waitari), Pierre Dudan (maggiore Scholschner), Francis De Wolff (padre Fargue), Marc Doelnitz (De Vries), Dan Jackson (Madjumba), Maurice Cannon (Haas), Jacques Marin (Cerisot), Habib Benglia, Alain Saury, Roscoe Stallworth, Assane Fall; produzione: Darryl F. Zanuck per la 20th Century Fox; distribuzione: 20th Century Fox; origine: USA; durata: 125'.

“Le radici del cielo”, uscito nel 1958, è un altro dei “capolavori mancati” di John Huston. E’ un film per molti versi datato, datatissimo; e per molti altri versi ancora di enorme attualità. Il punto di partenza è un romanzo di Romain Gary, che parla dell’Africa e della devastazione dell’ambiente che sta per arrivare; protagonisti sono soprattutto gli elefanti.
E’ importante ragionare sulle date: nel 1958 c’erano ancora le colonie, ma subito dopo – dal 1960 in avanti – quasi tutti gli Stati Africani ottennero l’indipendenza. Se si va a vedere (basta una piccola ricerca) quasi tutti gli attuali Stati dell’Africa, sia quella mediterranea che quella centrale, hanno la loro indipendenza in quel periodo, cioè agli inizi degli anni ’60.
Ma qui la politica ha una parte secondaria, anche se è ben presente; il vero soggetto del film è la devastazione ambientale, la pretesa che sia moderno e auspicabile soltanto tutto ciò che è motorizzato e tecnologico, e che la costruzione di strade ed aeroporti sia l’unica forma di civiltà possibile. Un tema che è fondamentale nel cinema di John Huston: basterà ricordare non solo Moby Dick (1956) ma anche “Il tesoro della Sierra Madre”, dove l’oro faticosamente scavato tornerà, alla fine, là dove era stato prelevato: una beffa quasi di mano divina, perpetrata dal vento. E’ anche il tema di “Cacciatore bianco, cuore nero”, il magnifico film che Clint Eastwood dedicò proprio a John Huston e che trae origine dai suoi film africani: “La regina d’Africa” (con Bogart e Katharine Hepburn) e appunto questo, “Le radici del cielo”.
La grande attualità di “Le radici del cielo” sta appunto in questo: che molta gente, soprattutto i politici e gli imprenditori, sono ancora convinti (convintissimi) di vivere negli anni ’50, di poter continuare a fare strade, aeroporti, oleodotti, centrali elettriche, dighe; e di aver davanti enormi spazi incontaminati per poterlo fare. Forse era vero negli anni ’50, forse negli anni ’50 c’era davvero bisogno di nuove vie di comunicazione e di centrali elettriche e di dighe; ma oggi quello spazio non c’è più, soprattutto qui al Nord (il Nord Italia, intendo) ogni nuova strada o costruzione o aeroporto è un attentato alla vita delle future generazioni. Penso ogni giorno di più che le generazioni future ci malediranno per quello che stiamo facendo e che abbiamo già fatto; ma il discorso a questo punto si farebbe grande, troppo grande per un film come questo.
E’ il momento quindi di tornare al film, che si svolge tutto nell’Africa equatoriale e che inizia con questo dialogo tra il protagonista (che si chiama Morel ed è interpretato da Leslie Howard) e una bella barista (la cantante francese Juliette Gréco). Siamo al minuto 4, Leslie Howard ha già avuto il suo da fare con un bracconiere, ed è stato un po’ scortese; la ragazza a cui ha appena ordinato una birra è molto gentile e perplessa, forse è il caso di dare qualche spiegazione.
- Mi scusi...ma ho vissuto così tanto tempo tra gli elefanti che ho disimparato a trattare con la gente.
- Con gli elefanti? Duqnue lei è un cacciatore?
- No! no, io vivo con loro, mi piacciono. Mi piace guardarli, sentirli barrire...anzi, non so cosa darei per diventare un elefante anch’io (...) In Africa vengono uccisi diecimila elefanti all’anno, di media. L’anno scorso ne uccisero trentamila: se continua così non ne resterà uno. (...) Chiunque abbia visto le grandi mandrie in marcia verso gli ultimi spazi residui di terra libera capisce che sono qualcosa che gli uomini non possono permettersi di perdere. Ma no, loro devono uccidere, distruggere, tutto ciò che è bello deve sparire, tutto ciò che è libero! Presto su questa Terra non resterà da distruggere che noi stessi. (...) Siamo a un punto, su questa Terra, che l’uomo ha bisogno di rieducarsi alla Terra. Non possiamo pretendere pietà da Dio quando facciamo scempio del Creato! (...)
La politica entra presto in scena, con due personaggi fondamentali: il governatore coloniale e l’attivista dei neri africani, che lotta per l’indipendenza. Il protagonista del film è un uomo isolato, quasi un eroe romantico, che ha come scopo di propagandare l’idea di proteggere la Natura. Il suo primo obiettivo è appunto quello di far vietare la caccia agli elefanti.
Al minuto 47, su un’automobile guidata da un autista africano (che si chiama Yusef e avrà una parte importante nel finale), si trova la strada sbarrata da un piccolo corteo di elefanti che la attraversano. L’automobile è costretta a fermarsi e l’autista (nero africano) sbotta:
- Come si può costruire un Paese moderno con queste bestie in mezzo?
- Perché diavolo sei venuto con me? – gli chiede seccatissimo Morel (Leslie Howard).
- Ordini di Waitari. – risponde Yusef; cioè, ordini del suo capo politico: Emile Waitari (nella finzione cinematografica) è il leader del movimento indipendentista. Ma è significativo che sia proprio un nativo africano a spazientirsi per la presenza degli elefanti, della Natura ancora incontaminata.
Nel finale, Yusef avrà l’ordine di uccidere Morel senza dare nell’occhio, restando con lui anche dopo la fine della sua avventura; prima ancora farà un discorso violentissimo davanti a Waitari, gridando “uccideteli tutti!” al minuto 78. Ma poi, alla fine, Yusef si unirà definitivamente al movimento di Morel: che ha avuto grande eco in tutto il mondo.

C’è infatti un personaggio importante che ha dato risonanza mondiale al “manifesto” di Morel: un giornalista televisivo, interpretato da Orson Welles. E, dato che c’è in mezzo Orson Welles, a questo punto bisogna fermarsi e dargli il giusto spazio. Magari, già che ci siamo, ordiniamo qualcosa da bere e da mangiare: una pausa con Orson Welles non è un’occasione che capiti tutti i giorni.
(continua)

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