martedì 16 novembre 2010

Le radici del cielo ( III )

THE ROOTS OF HEAVEN (LE RADICI DEL CIELO, 1958) Regia: John Huston; sceneggiatura: Romain Gary, Patrick Leigh-Fermor (dal romanzo di Romain Gary); fotografia: Oswald Morris; musica: Malcolm Arnold; interpreti: Trevor Howard (Morel), Juliette Gréco (Minna), Orson Welles (Cy Sedgewick), Friedrich Ledebur (Peer Qvist), Errol Flynn (Forsythe), Paul Lukas (SaintDenis), Herbert Lom (Orsini), Gregoire Aslan (Habib), Bachir Touré (Yusef), André Luguet (il governatore), Olivier Hussenot (il barone), Eddie Albert (il fotografo Abe Fields), Edric Connor (Waitari), Pierre Dudan (maggiore Scholschner), Francis De Wolff (padre Fargue), Marc Doelnitz (De Vries), Dan Jackson (Madjumba), Maurice Cannon (Haas), Jacques Marin (Cerisot), Habib Benglia, Alain Saury, Roscoe Stallworth, Assane Fall; produzione: Darryl F. Zanuck per la 20th Century Fox; distribuzione: 20th Century Fox; origine: USA; durata: 125'.

I difetti di “Le radici del cielo” sono molti, e molto evidenti fin dal principio. Troppi attori sono fuori posto, o poco convincenti; il tema trattato è importante, ma la narrazione oscilla troppo tra il film d’avventura hollywoodiano “di genere” e il film d’autore, senza mai decidersi bene in che direzione andare; e tutto l’insieme appare fatto senza troppa convinzione, anche se con molto impegno da parte di tutti.
Il difetto principale è probabilmente nella scelta del protagonista: risulta difficile identificarsi con Leslie Howard, un attore importante ma troppo rigido e sicuramente più adatto ad altri ruoli. Che lo spettatore non riesca a identificarsi con chi porta avanti una nobile causa è forse la peggior cosa, per un soggetto come questo; Howard finisce spesso per sembrare esagitato, e lo fa con le migliori intenzioni, ma il personaggio non era sicuramente nelle sue corde. Un identico discorso si potrebbe fare per Juliette Gréco, sicuramente imposta dalla produzione: era una cantante francese di notevole successo, oltretutto di canzoni d’autore: qui si cerca di farla passare per tedesca (molti i rimandi a Berlino e al tempo di guerra) ed è francamente un po’ troppo. La Gréco è molto graziosa, e la sua recitazione è decisamente migliore di quello che dicono le stroncature del film, ma qui ci vorrebbe un’attrice di maggior peso. Per una volta non sono d’accordo con Morandini, che la definisce pessima attrice: ma va detto che io sto guardando il film oggi, e che Morandini mentre scriveva non aveva ancora visto “Lost” e “Desperate housewives”, per tacer del resto. Per dirla tutta, oggi passano per star (come attrici) giovani donne che sono molto meno brave della Gréco: non ho grandi pretese e non chiedo di ritrovare una Katharine Hepburn o una Marlene Dietrich - ma averne, oggi, di attrici come questa Juliette Gréco...
Tra i personaggi del film metterei anche il fagiolo messicano di Errol Flynn, qui in una parte di ufficiale alcolizzato che viene redento dalla nobile causa; sul fagiolo danzante avevo molto almanaccato da piccolo (si tratta di un parassita al suo interno, che lo fa saltellare) e mi ha divertito ritrovarlo dopo tanti anni. Errol Flynn, leggendario attore di film d’azione negli anni ’40, si presenta ancora molto bene, ed è uno dei migliori del cast; sul piano mio personale, trovo che somiglia molto alle foto di mio zio Siro, che purtroppo non è arrivato a quest’età, perché il buce Benito lo mandò a morire in Russia.
Molto in parte Friedrich Ledebur (il professor Qvist) e in gran forma Orson Welles, molto divertito dal suo ruolo. Con Ledebur, a completare la piccola pattuglia dei fedelissimi del protagonista, c’è sempre un altro scienziato, (interpretato da Olivier Hussenot, che si rifà a Erich von Stroheim) un barone col monocolo che conosce molte lingue ma sta sempre zitto “per protesta contro la mancanza di dignità del genere umano”
Herbert Lom, che negli anni ’60 diventerà famoso come capo e nemico dell’ispettore Clouseau nel ciclo della “Pantera Rosa” è Orsini; Edric Connor, che fu uno dei ramponieri sul “Pequod”, è il leader indipendentista nero Emile Waitari; un altro attore importante è Paul Lukas (l’esploratore che va cercare Morel e i suoi). Gli altri attori non sono nomi famosi, per esempio non mi dice nulla il nome dell’attrice che interpreta la miglie di Orsini, protagonista al minuto 50 della memorabile sculacciata ricevuta da Friedrich “Queequeg” Ledebur. Il film nella versione italiana è molto ben doppiato, soprattutto la Gréco.
Al minuto 57, c’è il pigmeo (vicino al lago) che si lamenta con Morel dei disastri provocati ai raccolti dagli elefanti; al minuto 58 un lungo monologo di Morel sugli elefanti: l’elefante non ha nemici, l’uomo è il suo unico nemico, è l’uomo che trasforma la sua mitezza in odio, e poi li chiama feroci
Al minuto 60 arriva in volo il fotografo e reporter (Eddie Albert), che è un personaggio importante: “Non si può spiegare niente a un uomo uccidendolo”, gli spiega Morel, respingendo le accuse di terrorismo.
Dopo la fine dell’avventura, a 1h20, con la morte di Flynn e dello scienziato col monocolo (e del bracconiere, questo qui sopra: è il primo personaggio ad apparire nel film), il mercante Habib spiega a Morel l’importanza degli affari. Habib (l’attore si chiama Gregoire Arslan) è un altro personaggio importante, che appare fin dall’inizio e che mercanteggia con chiunque, l’importante è fare soldi. Alla fine del suo discorso, Morel rimane con la Gréco e con Ledebur e dice:
Morel:  Ha ragione. Tutti gli Habib del mondo hanno ragione. Hanno sempre avuto ragione...(...) Loro sanno dove vanno, loro vedono il mondo così come è. Il vero male lo fa la gente come me. Si guardi, guardi a cosa vi ho condotto...ecco dove ci hanno condotto tutte le mie belle idee! (...)
professor Qvist: Io la comprendo, Morel. Ha dei buoni motivi per la sua amarezza. Ma io prego Iddio che la sua amarezza si limiti a scuotere la sua fede, e che non la distrugga. Io ho vissuto molto e so come si muove il mondo: si muove lentamente. Oh, così lentamente, ma verso la comprensione; con molte fermate e spesso a tastoni.
La Gréco gli ricorda che c’è molta gente che crede in lui, che adesso grazie a lui sa cosa succede.
- Tu devi continuare.
- Continueremo, continueremo verso Biondi.
I luoghi: la città è Fort Lamy, nel finale vediamo Biondi, ai piedi di una grande roccia, “impossibile non vederla” (siamo in Africa Equatoriale).
Le musiche sono di Malcolm Arnold (1921-2006), compositore e direttore d’orchestra, autore anche delle musiche per “Il ponte fiume Kway”, del 1957, di David Lean; c’è anche spazio per una canzone della Grèco al minuto 42 (evocazione della “casa di bambole” a Berlino, un bordello nazista).
«Non è quando si sfilano le uniformi che gli uomini diventano peggiori, è quando se le mettono» dice la Gréco al termine del suo racconto autobiografico, al minuto 22


Gli elefanti sono d’intralcio al progresso, travolgono telegrafi e telefoni, invadono le strade: ma sono “il più importante simbolo di se stesso che Dio ha lasciato sulla Terra”, simbolo di libertà e di amicizia leale. La proposta di Morel è quella di abolire subito la caccia più ignobile, quella per i trofei.
Non ho mai letto il romanzo originale di Romain Gary, e devo ammettere che“Le radici del cielo” è un film che confondo spesso nel ricordo con “Mogambo” e altri simili; ma in Mogambo e in “Le miniere del re Salomone” queste battute non ci sono, e non c’è nemmeno la battuta che a 1h25 il prof. Qvist dice al fotografo, facendo presente che lui è ormai molto vecchio: “ Sarei contento di morire in Africa, perché è qui che ebbe inizio il genere umano”. Negli anni ’50 questa era solo un’ipotesi, ma è un’intuizione che le scoperte della genetica hanno confermato in questi ultimi anni.
Morando Morandini, Huston, Castoro Cinema:
per “Il barbaro e la geisha” Era stato Huston a proporre John Wayne per la parte del protagonista. (...). Sta di fatto che durante le riprese la prevedibile incompatibilità di carattere e di idee tra regista e attore provocò attriti e bisticci. Partito Huston, John Wayne assunse il controllo della produzione e, col beneplacito dell’esecutivo della Fox, rigirò alcune sequenze per dare maggiore risalto al suo personaggio (...) e impose le sue esigenze di star al montaggio (“John Wayne è un uomo che non stimo...il pensiero del massacro che stavano commettendo al di là dell’Atlantico non era tale da stimolarmi nel lavoro su Le radici del cielo. Così, invece di un fiasco solo, ne ebbi due, e di grossa taglia».
S'era ripetuta la storia di La prova del fuoco (1951) dando ragione a chi rimprovera a Huston una forma di dilettantismo che si traduce in incostanza, pigrizia, indifferenza. « Forse Huston manca di una precisa coscienza del proprio lavoro - scrive Tullio Kezich nel 1962 – come mestierante ha troppe riserve mentali di carattere culturale, come intellettuale è troppo incline ai compromessi che gli suggerisce la sua vocazione di bon vivant. Non sa scegliere tra il personaggio del ribelle, che si costruì negli anni giovanili con vitalistica esuberanza, e il personaggio dello showman perfetto, che gli viene dalla sua condizione di figlio d'arte e dalla routine cinematografica... Il fatto è che i due Huston, il ribelle e l'artigiano, quello che dice andate tutti all'inferno e quello che dice lo spettacolo deve continuare, non si spartiscono solo i film, ma addirittura le sequenze, le inquadrature, le battute. Nel suo geniale dilettantismo Huston non ha afferrato l'aurea regola che distingue la caccia dalla letteratura, i kudù dallo scrivere ».
Sembrerebbero pochi i temi che possono avere attratto Huston nel romanzo Les racines du ciel del russo-francese Romain Zachew, in arte Gary. Il tema centrale, intanto: un'impresa nobilmente grandiosa destinata allo scacco. Questo Morel, eroe della storia, è il contraltare del capitano Achab o, se si preferisce, l'altra faccia dello stesso personaggio: un mistico forsennato che intravvede la salvezza del mondo nella difesa degli elefanti. Questi nobili, possenti e intelligenti bestioni sono per Morel il simbolo della libertà, della dignità, dei grandi spazi della Natura, della, forza non contaminata dalla violenza tecnologica.
Perché gli uomini continuano a massacrare ogni anno migliaia di elefanti? Perché macchiarsi di un genocidio? Perché condannare alla scomparsa questo gigantesco splendore della natura? Per fabbricare palle da biliardo, tagliacarte, ninnoli, monili cioè per la maledetta legge del profitto. «L'uomo - dice un personaggio del film - sta distruggendo le piante, gli animali, tutte le viventi radici che il cielo ha piantato nella terra. L'uomo sta distruggendo queste radici, sta avvelenando l'aria con le esplosioni nucleari; a poco a poco le radici del cielo moriranno avvelenate, e allora anche le stelle spariranno e non ci sarà più cielo per la terra, per gli uomini ». Insomma: il messaggio di Le radici del cielo, uno dei due film a tesi nella carriera di Huston, dice che, se l'uomo cominciasse a salvare gli elefanti, finirebbe, forse, col salvare anche se stesso. Oppure, in termini evangelici, non fare agli elefanti quel che non vuoi che gli elefanti facciano a te. Non a caso i primi seguaci di questo Morel degli Elefanti sono una Maria Maddalena e un ubriacone; non a caso molti dei suoi discepoli sono deboli e non manca tra loro il Giuda che tradisce il Messia per sordidi motivi politici. Figura che nel romanzo non esiste, c'è persino un Paolo, cinico fotografo americano, che, folgorato sulla via di Damasco, si converte e s'aggrega alla brigata.
Oltre al fatto che questa latente struttura simbolica non s'addice a un regista poco incline al romance metaforico (tanto più quando la metafora è di grana grossa come nel romanzo di Gary), come poteva Huston, cacciatore impenitente al cospetto di Dio, credere fino in fondo in un crociato invasato come Morel, in questo cavaliere della Società per la Protezione degli Animali? Il personaggio lo stimolava per la sua "follia", per la dimensione larger than the life, ma non poteva condividerne le idee, pur se la denuncia non è rivolta tanto verso i cacciatori d'elefanti quanto verso i trafficanti d'avorio.
Huston ha sempre negato di avere ucciso elefanti durante le riprese di Le radici del cielo, ma ha ammesso di averli cacciati (« Ho tentato... ma la faccenda non ha funzionato. Non ne ho mai trovato uno che fosse in grado di difendersi in modo tale da giustificare il peccato ». Per il Wilson di “Cacciatore bianco, cuore nero” in cui Peter Viertel ha adombrato Huston « uccidere un elefante non è un delitto, ma qualcosa di peggio: quel che voglio commettere è un peccato », un atto blasfemo contro la Natura).
Il motivo più congeniale che Huston trova nel romanzo di Gary è quello dell'eteroclita compagnia che si raccoglie intorno al protagonista, una delle più pittoresche e scombinate nella carriera del regista. Gli è complementare il tema, anch'esso tipicamente hustoniano, dell'impresa comune, della partecipazione, del superamento dell'estraneità: non conta tanto quel che si fa, ma il farlo insieme e, nel caso, fallire insieme. La dignità dolorosa dell'uomo è nella sua solitudine, come dice anche Morel, ma quella di Huston è ancora una volta una lezione di solidarietà.
Su The Roots of Heaven (1958) Huston non sollecita attenuanti: «È triste dirlo ma il film è cattivo. Poteva essere ottimo, e m'assumo l'intera responsabilità del fallimento». E ne attribuisce la causa alle manchevolezze della sceneggiatura di Gary e Patrick Leigh-Fermor sulla quale « bisognava lavorare ancora un anno almeno ». Ma le ragioni dello scacco risiedono soprattutto nel misticismo della storia e nel suo idealismo ecologico (nel 1958 la parola ecologia non era ancora di uso comune) che Huston non riesce a sentire. E’ significativo che i momenti più godibili del film siano intinti di un'ironia beffarda di cui non si ha traccia nel romanzo: le trombonate nelle terga dei cacciatori di elefanti; le sculacciate a Madame Orsini; la breve e memorabile apparizione di Orson Welles; il personaggio di Forsythe, il soldato di fortuna ubriacone (un Flynn in gran forma, alla vigilia della morte); Abe Fields (Eddie Albert), il fotoreporter rompicollo; il gigantesco naturalista svedese Peer Qvist, interpretato da Friedrich Ledebur; il barone (Oliver Hussenot) che parla quindici lingue e sta sempre zitto. Ma Juliette Greco, imposta dal suo protettore Zanuck, è un'attrice esecrabile alle prese con un personaggio di clamorosa falsità e Trevor Howard manca del magnetismo necessario per essere un Morel trascinante sebbene - andando contro l'interesse del film ma, forse, corrispondendo inconsapevolmente allo scetticismo del regista - riesca a suggerirne l'acida misantropia di fondo. È probabilmente farina del sacco di Huston la battuta che gli rivolge il missionario (Francis De Wollf): «Lei è passato dalla parte degli elefanti, signor Morel, perché è disgustato dagli uomini».
Sgangherato, affastellato e contraddittorio, Le radici del cielo manca di continuità persino a livello figurativo: pur essendo la fotografia opera del prestigioso Oswald Morris, collaboratore di Huston fin da Moulin Rouge, nemmeno il paesaggio africano offre un valido supporto figurativo e coloristico, a causa di tremendi « trasparenti » e degli esterni posticci girati nelle foreste francesi di Boulogne e Fontainebleau.
(Morando Morandini, dal volume su John Huston, ed. Castoro Cinema)

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