Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’
L’incubo scompare, finalmente Carl può dormire e riposarsi. La mattina dopo, facciamo la conoscenza con la protagonista femminile del film: è la compagna di vita (non ancora moglie) di Carl Akerblom, che nasconde sotto una frangia di capelli la ferita che Carl le ha provocato, e che ha portato al ricovero dell’uomo all’ospedale psichiatrico. Ma i due si vogliono bene, presto andranno nuovamente d’accordo e porteranno avanti un progetto in comune; a loro si uniscono il signor Vogler (Erland Josephson) e sua moglie. I quattro brinderanno insieme al nuovo progetto: si tratta di una sala cinematografica, ma diversa dalle altre. Siamo nel 1922, il sonoro arriverà solo nel 1929: quello che ha in mente Carl è una fusione tra cinema e teatro, e lo vedremo anche noi realizzato nella seconda parte di “Vanità e affanni”.
Pauline Thibault, la compagna di Carl, è interpretata da Marie Richardson, un’attrice molto bella e molto espressiva, e che è stata pettinata come una grande diva del cinema di quegli anni, Louise Brooks (le somiglia molto, va detto). Marie Richardson è svedese, quindi non ha niente a che vedere con Vanessa Redgrave come pensavo io (la Redgrave ebbe dei figli dal regista inglese Tony Richardson).
Dopo circa tre quarti d’ora dall’inizio abbandoniamo l’ospedale psichiatrico e troviamo i nostri protagonisti in un piccolo locale in una città che si chiama Grånäs. L’episodio che segue è in gran parte vero, Bergman ne accenna nei suoi libri; la sua verità va però presa con le molle, è in gran parte un’invenzione poetica e siamo dalle parti della storia del cinema, non come Wim Wenders con “I fratelli Skladanowski” ma quasi.
Il film inventato e approntato da Carl Akerblom, mi dispiace dirlo, appare come un pastrocchio che mette insieme due personaggi vissuti a cent’anni di distanza fra loro: l’incontro impossibile tra Franz Schubert (1797-1828) e una giovanissima prostituta viennese, detta Contessina Mitzi. Risparmio i dettagli, piuttosto volgari e irritanti; però il film si vede, se ne ascoltano i dialoghi, e tutto l’insieme finisce non solo con l’avere un significato ma perfino col commuovere e far pensare. Gran merito va alla musica di Franz Schubert, piccoli frammenti ma molto ben scelti dalla Sinfonia n.9 e dalla Sonata in si bemolle maggiore D 960. Come accadde a gran parte delle musiche di Schubert, queste musiche non furono mai eseguite in pubblico durante la sua vita: Schubert morì molto giovane, a 31 anni, e alla sua morte i suoi cassetti erano pieni di appunti, molte cose già finite e altre solo in abbozzo. L’episodio del critico che gli rimprovera errori di orchestrazione è autentico, anche se non so dire se si chiamasse veramente Jacobi come viene detto nel film di Bergman (Jacobi, come Vogler, è uno dei cognomi più ricorrenti nei film di Bergman).
Le prime immagini del cinema mostrano vento e tormenta, che spazzano via le locandine appese all’esterno; dentro, troviamo Pauline con la bionda attrice protagonista del film, che interpreta la Contessina Mitzi. Pauline è gelosa, e la convince con le buone a tornarsene a casa. (Devo dire che Pauline stira malissimo, questa scena si poteva girare meglio). Il proiezionista è Peter Stormare, grande attore teatrale svedese, che al cinema si è fatto un nome con ruoli di spietato assassino (vedi “Fargo” dei Coen), ma che invece ha un aspetto da persona assolutamente normale.
Di seguito, arriva il personaggio interpretato da Anita Björk: si presenta come matrigna e tutrice legale di Carl Akerblom, ed è la nonna di Ingmar Bergman. La nonna di Bergman era di pochi anni più anziana di Carl, ma ne divenne tutrice data l’instabilità mentale dichiarata dell’uomo; il passo dove ne parla Ingmar Bergman è in “Lanterna magica” e ne ho riportato degli estratti nei primi due post dedicati a “Vanità e affanni”. Alla morte della nonna di Bergman, la tutela di zio Carl fu affidata alla mamma di Ingmar, che era sorella di zio Carl. Rispetto al racconto di Ingmar Bergman, due cose non coincidono: è Karin, mamma di Bergman, ad avere il colloquio con la fidanzata di Carl; e non coincide la descrizione di Pauline così come è nel film con la vera moglie di zio Carl. Qui la realtà e l’invenzione si fondono.
Era stato assunto come sagrestano alla chiesa di Sofia. Aveva abbandonato l'attività d'inventore: non era che un'illusione, sorellina. La fidanzata aveva passato la trentina, era piccola ed esile, le spalle erano ossute, le gambe lunghe e magre. Aveva denti larghi e bianchi, capelli color del miele raccolti in una crocchia, naso lungo e ben modellato, bocca sottile e mento rotondo. Gli occhi erano scuri ma avevano una luce intensa. Guardava il fidanzato con la tenerezza che dà il possesso, come per distrazione teneva la forte mano appoggiata sul ginocchio di lui. Era insegnante di ginnastica. La tutela durata tutta una vita avrebbe avuto termine: le idee della matrigna sul mio stato mentale erano solo una delle sue illusioni. Amava il potere, doveva avere qualcuno da dominare. La sorellina non riuscirà mai a essere come la matrigna, per quanto si sforzi. È un'illusione. La fidanzata osservava la famiglia con gli occhi scuri e luminosi, e taceva.
Qualche mese più tardi il fidanzamento fu rotto. Lo zio Carl fece ritorno alle stanze della Ringvägen e lasciò il posto di sagrestano alla chiesa di Sofia. Alla mamma confidò che non poteva rinunciare a portare a termine le sue invenzioni. La fidanzata aveva cercato di impedirglielo, s'erano messi a gridare ed erano venuti alle mani, Carl aveva sulle guance i segni dei graffi: credevo di poter smettere con le invenzioni. Era un'illusione.
(Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”, pagg. 29-35, Garzanti 1992, traduzione di Fulvio Ferrari)
Karin Bergman, mamma di Ingmar, sta per entrare tra i personaggi di “Vanità e affanni” e la vedremo fra poco, tra gli spettatori paganti dello spettacolo messo in scena da Carl.
In questa scena e nella successiva possiamo vedere alcune sequenze molto interessanti dal punto di vista storico. Non so quasi niente di proiettori cinematografici, ma le scene col proiezionista sono molto interessanti, e vanno messe insieme a quelle di Wim Wenders in “Nel corso del tempo” o di “I fratelli Skladanowski”. Vediamo anche zio Carl che, tutto soddisfatto, mette due monete al posto dei fusibili del contatore dell’energia elettrica: un trucco che facevano in molti (magari con un pezzo di fil di ferro) e che spero non faccia più nessuno, i fusibili servono per evitare incendi e corto circuiti. E infatti sarà un corto circuito con principio d’incendio a interrompere la proiezione, ma di questo conviene parlare più avanti.
Il proiezionista è affidato a un attore importante (Peter Stormare), inoltre è tisico e Bergman ci mostra la sua malattia in modo dettagliato; però poi il suo personaggio non viene ulteriormente sviluppato, e questo mi ha fatto venire ulteriori dubbi sulla reale lunghezza del film: che ne esista una versione tv in più puntate, come per “Fanny e Alexander” e “Scene da un matrimonio”? Però imdb dice 119 minuti, due ore meno un minuto, che è la durata esatta del film in versione italiana, quella che sto vedendo. Il dubbio, comunque, rimane.
Dato che nel film c’è il dettaglio, molto bello, dei due carboni che danno luce al proiettore, mi sono sorte altre curiosità; nell’intervista del 2001 alla tv svedese Bergman accenna ai “proiettori Ernemann a carbone”, ma è un dettaglio troppo tecnico, così ho ripiegato su wikipedia, dove ho trovato moltissime informazioni alla voce “proiettore cinematografico”. Ne traggo un breve estratto, relativo a ciò che vediamo in “Vanità e affanni”.
da www.wikipedia.it :
Le prime lampade per proiezione utilizzavano miscele di eteri e ossigeno. Ciò, unito alla forte infiammabilità del primitivo supporto (la celluloide) era fonte di gravi pericoli per gli spettatori. E infatti nel 1897, durante una festa di beneficenza organizzata a Parigi dall'aristocrazia francese, un violento incendio, causato dall'errata manovra di riaccensione della lampada, distrusse il padiglione di legno che ospitava la festa provocando la morte di centoventuno persone. Le lampade a fiamma furono così bruscamente abbandonate.
La diffusione della rete elettrica consentì l'adozione delle prime lampade ad arco elettrico (inventato da Davy nel 1808). A questa famiglia appartengono le lampade tuttora impiegate nei proiettori professionali. L'arco è dovuto al passaggio di corrente nello spazio gassoso che separa due conduttori. Le prime lanterne ad arco contenevano due elettrodi (costituiti da lunghi cilindretti di carbone di storta ricoperti di rame) i quali, una volta avvicinati, dopo essere stati messi in tensione, provocavano una scintilla (cd. adescamento dell'arco); il successivo allontanamento dei due elettrodi determinava il formarsi dell'arco. Un apposito motorino elettrico li faceva avanzare, mantenendoli nella posizione di fuoco ottico, compensando il loro consumo (molto approssimativamente 20 cm/h). Attualmente, anche nei proiettori cinematografici di tipo digitale, la sorgente di luce è la stessa, sempre un arco elettrico, ma generato da lampade allo Xeno ad alta pressione.
Nella prima parte di “Vanità e affanni” si accenna ad un brevetto di Carl per il cinema sonorizzato, respinta dall’Ufficio Brevetti. Si tratta di un’invenzione vera? A dire il vero, quello che vediamo in “Vanità e affanni”, più che qualcosa come il brevetto del 1895 dei fratelli Skladanowski (che era molto buono, ma decisamente inferiore a quello dei Lumière), l’invenzione di zio Carl sembra la versione cinema del teatro dei burattini, con le voci dietro lo schermo... Ma a questo punto lo spettacolo non è ancora cominciato, non rimane che aspettare e vedere.
Stanno per arrivare gli spettatori, Pauline li spia quando entrano e la signora Hanna, che è del posto, le spiega chi sono, uno per uno, mentre la maschera (che è sempre il proiezionista) controlla i biglietti. Sette persone in tutto, ma fuori c’è una gran tormenta. Poteva andare peggio.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento