TÖRST (t.l.: La sete, 1949). Regia: Ingmar Bergman. Soggetto: dalle novelle di Birgit Tengroth. Sceneggiatura: Herbert Grevenius. .Fotografia: Gunnar Fischer. Musica: Erik Nordgren. Scenografia: Nils Svenwall. Montaggio: Oscar Rosander. Interpreti: Eva Henning (Rut), Birgit Tengroth (Viola), Mimi Nelson (la ballerina Valborg), Birger Malmsten (Bertil), Bengt Eklund (Raoul, l’ufficiale), Gaby Sternberg (Astrid), Hasse Ekman (lo psichiatra, dottor Rosengren), Naima Wifstrand (la signora Henriksson, maestra di ballo), Sven Eric Gamble (il vetraio), Gunnar Nielsen (assistente dello psichiatra), Estrid Hesse (paziente dello psichiatra), Helge Hagerman e Calle Flygare (i due preti sul treno), Else Merete Helberg (signora sul treno), Monika Weinzierl (la bambina sul treno) Herman Greid, Verner Arpe (il controllore), Sif Ruud (la vedova chiacchierona). Durata: 83 minuti
“La sete” (Törst, 1949) è il settimo film di Bergman da regista. Non è un suo soggetto, ma l’adattamento di un libro di racconti che ebbero un grande successo negli anni ’40 in Svezia; l’autrice di questi racconti, Birgit Tengroth, recita nel film ed è anche piuttosto brava (la si vede in primo piano nella foto qui sopra).
Per il libro della Tengroth si trattava di un successo “di scandalo”; al di là della bravura dell’autrice, i soggetti erano scabrosi e direi che in gran parte lo sono ancora oggi.
Il film è molto interessante ma un po’ compicato da seguire; i racconti tratti dalle novelle di Birgit Tenroth sono stati riuniti assieme un po’ come in “La ronde” di Ophüls, a catena: si conoscono fra di loro, hanno avuto relazioni e rapporti di amicizia, ne veniamo a sapere storie e vite. Prevale il tono di commedia, ma alcuni momenti sono molto drammatici; la comprensione completa del film, come spiega Bergman stesso in “Immagini”, il libro dove parla di tutti i suoi film uno per uno, è resa difficile anche dall’intervento della censura, che ne tagliò alcune sequenze. Forse il momento più scabroso è un tentativo di seduzione lesbica trattato con grande finezza ma anche molto esplicito (siamo pur sempre nel 1949), mentre quello più drammatico è sicuramente nel primo episodio, un aborto già di quattro mesi che renderà sterile la giovane donna che lo subisce. C’è anche un uxoricidio per fortuna solo sognato, ma molto realistico. C’è spazio anche per uno psichiatra molto laido, redarguito da un vetraio; il vetraio è un bel personaggio, peccato che abbia avuto poco spazio.
Non mancano i temi di attualità, molto drammatici anch’essi: un treno che attraversa l’Europa alla fine della guerra, e la gente nelle stazioni tedesche che chiede da mangiare ai passeggeri; inoltre, il personaggio interpretato da Birgit Tengroth (l’autrice dei racconti) dice di essere stata malata di encefalite, un’epidemia che c’è stata veramente in quegli anni e che è stata descritta anche da Oliver Sacks nel suo libro “Risvegli”.
Insomma, i temi contenuti nel film sono davvero molti, e forse è da qui che deriva la sensazione di fatica che si prova vedendolo; sensazione ben strana, dato che il film è bello e gli attori molto bravi. E’ un po’ come se Bergman volesse mettere troppe cose nell’ora e mezza del film; e in “Sete” ci sono molti dei temi che torneranno nei film di Bergman degli anni ’50, dove verranno trattati uno per uno e messi bene in ordine. “La sete” è anche sete di alcolici: tema assai ricorrente, come per un’altra scrittrice svedese importante, Selma Lagerlof (autrice di “Il carretto fantasma” di Sjöström e protagonista di “The image maker”, uno degli ultimi film di Bergman).
La prima immagine del film, prima ancora dei titoli di testa, è un vortice: un gorgo d’acqua nera, con musica drammaticissima a tutto volume, in gran pieno orchestrale. Un inizio da film horror, non del tutto giustificato perché in realtà siamo spesso dalle parti della commedia, magari dello “scherzo” musicale come in “Sorrisi di una notte d’estate” e “Una lezione d’amore”; quello che c’è di drammatico nel film viene dalla vita reale: un bambino perso al quarto mese di gravidanza, o forse al terzo...
Si parte da Basilea, nel 1946, in treno con una coppia di giovani sposi; poi si apre un flashback e veniamo a sapere qualcosa del loro passato. Un uomo in divisa, Raoul, ha una giovane amante che si chiama Ruth , è un momento di felicità; ma lui le rivela di essere sposato, con tre figli. Quando Raoul torna a casa, fischiettando “Non più andrai farfallone amoroso” (Mozart, Le nozze di Figaro), oltre alla ragazza trova però sua moglie, gelosissima e decisa a riprenderselo. Raoul non solo non si scompone, ma espone nei dettagli la sua teoria: «un uomo sano deve avere due donne». I problemi nascono quando Ruth gli rivela di essere rimasta incinta: Raoul si mette a fare qualche conteggio, tre mesi o quattro? Il figlio non è suo, e la ragazza vuole approfittare di lui?
La giovane sposa che abbiamo visto in treno è proprio Ruth (Eva Henning), molto tempo dopo; dopo l’aborto non può più avere figli, ma si è sposata con un giovane professore universitario (Birger Malmsten).
I due si sono raccontati tutto: lui ha avuto una relazione con Viola (Viola è Birgit Tengroth, l’autrice del libro), poi vediamo l’episodio che riguarda Viola, e così va avanti il film, di episodio in episodio. Nel raccontare il film ci si può anche fermare qui, basterà dire che è un film al femminile, come capita spesso con Bergman. Le tre donne protagoniste sono Ruth, Viola, e Valborg (Mimi Nelson), chiamata solo col cognome, come si fa a scuola. Valborg è amica di Ruth, hanno fatto insieme la scuola di danza.
Quello che più mi ha colpito nel film è proprio questo suo essere “al femminile”; come avverrà spesso in futuro (vedi “Una lezione d’amore”) Bergman inserisce esplicitamente dei riferimenti alla mitologia. Qui il riferimento è al mito di Arethusa, ai due sessi che si cercano ma non riescono mai a riunirsi.
Il dialogo è al minuto 27, quando Birger Malmsten nell’albergo con Ruth prende una moneta antica: sono stati in Italia, fino a Siracusa. Il loro percorso (lo apprenderemo pochi minuti dopo) è stato questo: Verona, Bologna, Firenze, Venezia, il Lido, Capri, Messina, Siracusa. Il personaggio di Malmsten è un ricercatore universitario, e questo spiega il suo interesse per le monete antiche; il mito di Arethusa è riassunto piuttosto bene nei dialoghi.
- Ero impressionato dalla somiglianza...Lo sai che l’acqua dolce sgorga dalla fonte Aretusa, e va verso il mare? Arethusa si tramutò in quella sorgente quando fuggì dal dio Alpheus. I coloni greci ne dedussero che si trattava del fiume greco Alpheus, che scorre dritto fino al mare per far confluire le sua acque con quelle della sorgente siciliana. Un bel pensiero.
- Perché? può succedere...
- Ma è una pura illusione, i due sessi non possono essere riuniti, sono separati da un mare di lacrime e incomprensioni.
(Birger Malmsten e la moglie, minuto 27 di “Sete”)
Arethusa è anche il finale del film: l’immagine della moneta viene sovrapposta dapprima a quella dei due innamorati che si baciano, riconciliati, e poi a quella del mare al tramonto.
Un altro riferimento mitologico, che però al momento mi sfugge, è sicuramente la breve sequenza del serpente appoggiato sul formicaio, all’inizio: Raoul e Ruth sbarcano sull’isola, Ruth dice di avere paura dei serpenti; Raoul ne cerca apposta uno, lo agita un po’ e poi lo lascia cadere su un formicaio. Queste sequenze, in Bergman, non sono mai messe per caso.
Altre mie note sparse: 1) la scena buffa sul treno anticipa quelle di Gunnar Björnstrand ed Eva Dahlbeck in “Una lezione d’amore”, tre anni dopo; qui le due coppie si incrociano al finestrino, Raoul e la moglie stanno andando in Italia, da dove loro due invece stanno tornando. Raoul ha già preso i biglietti per il ritorno, è come se il viaggio fosse già chiuso.. 2) Il non avere più figli, un aborto, il rapporto con i figli, maternità mancata, sterilità: temi che ricorreranno spesso in Bergman
3) La bambina sul treno anticipa “Il silenzio”, del 1963 4) il numero con le ballerine non manca mai, nei primi film di Bergman: probabilmente una concessione al film di cassetta, comunque ben realizzate e molto piacevole. 5) la citazione di una poesia di Strindberg, “Il viaggio in città” dove si parla di violette; ma Birger Malmsten corregge, non sono viole ma peonie, o forse lillà; e il titolo giusto è “La notte della Trinità” (segue citazione per esteso, minuto 33). La battuta sulle viole è dovuta alla gelosia di Ruth per Viola, che è stata in precedenza amante di suo marito.
Gli attori: Eva Henning (Ruth) appare solo qui e nel film precedente di Bergman, “Prigione”. Non sembra svedese ma piuttosto spagnola, gitana; è molto brava ed è un peccato che non abbia più lavorato con Bergman. Anche Bengt Eklund (Raoul) sembrerebbe turco, o siciliano; è un attore che appare spesso nei primi film di Bergman, sempre in parti di fianco. Birgit Tengroth, Viola, è l’autrice dei racconti da cui è tratto il film; a me piace molto anche come attrice. Bergman confessa di avere avuto da lei ottimi suggerimenti, e di doverle molto (il brano intero lo riporto qui sotto). Mimi Nelsson (Valborg) appare solo qui e nel precedente “Città portuale”; anche lei è molto brava e dispiace di non averla vista più spesso nei film di Bergman.
Naima Wifstrand, la maestra di ballo, è invece una presenza ben nota agli appassionati di Bergman: basterà citare la madre di Victor Sjöström in “Il posto delle fragole”, o magari l’anziana strega (ma forse no) di “Il volto”.
Birger Malmsten è protagonista di quasi tutti i film del primo Bergman, e suo amico personale. Le musiche sono di Erik Nordgren; la fotografia è di Gunnar Fischer, che lavorerà con Bergman per tutti gli anni ’50, fino al 1960 di “L’occhio del diavolo”; da “Come in uno specchio” in avanti (cioè dal 1961) il mago delle luci di Ingmar Bergman sarà Sven Nykvist.
Ingmar Bergman, da “Immagini”:
«Sete» era una raccolta di novelle, ritenuta a quell'epoca scandalosa, di Birgit Tengroth. La Svensk Filmindustri ne aveva acquistato i diritti cinematografici, Herbert Grevenius scrisse una bella sceneggiatura, in cui unì insieme le novelle in un coerente racconto con azioni parallele e sguardi retrospettivi. Con felice intuito, pregai Birgit Tengroth di interpretare Viola. Sentivo intensamente di aver bisogno della sua collaborazione a molti livelli. Con finezza e discrezione mi aiutò a modellare l'episodio di lesbismo. Questa era, per quel tempo, materia incandescente. La censura tagliò un'importante sequenza riguardante l'intesa tra Birgit Tengroth e Mimi Nelson, ma questo rese la fine dell'episodio alquanto incomprensibile.
Birgit Tengroth diede inoltre un contributo come regista che non ho dimenticato. Mi insegnò qualcosa di nuovo e di determinante. Le due donne siedono insieme nel crepuscolo estivo. Hanno bevuto una bottiglia di vino. Birgit è piuttosto ubriaca e prende una sigaretta da Mimi, che gliela accende. Poi, lentamente porta il fiammifero acceso verso il suo volto, tenendolo un attimo all'altezza del suo occhio destro, prima che si spenga. Questa fu un'idea di Birgit Tengroth. Lo ricordo bene, dal momento che io non ho mai fatto qualcosa di simile. Costruire su dei piccoli dettagli, appena avvertibili, eventi suggestivi, fu da allora una particolare componente dei miei film.
Gran parte del film doveva essere girata durante un viaggio in treno attraverso la Germania in guerra. In “Prigione” avevo cominciato a sperimentare riprese più lunghe. Per poter sviluppare quella tecnica, facemmo costruire una mostruosa carrozza ferroviaria. La si poteva rompere in diverse sezioni. In tal modo l'impacciata cinepresa di allora poteva muoversi liberamente negli scompartimenti, nei corridoi e in altri spazi. In “Prigione” si erano realizzate scene lunghe soprattutto per motivi economici. Qui mi sforzavo di raggiungere un'altra semplificazione: i complicati movimenti della cinepresa sarebbero dovuti diventare impercettibili. Il treno-studio risultò ben lontano dalla perfezione: se si guarda bene si notano le giunture. Inoltre io volevo che le rovine delle case, che si vedono dal finestrino del treno, fossero veramente filmate in Germania. Ma per motivi economici la cosa non si poté fare. Il risultato casalingo fu un compromesso poco convincente.
A parte ciò, “Sete” dimostra una rispettabile vitalità cinematografica. Cominciavo a trovare un modo tutto mio di fare film. Mi ero reso padrone di quella stupida macchina. Sostanzialmente, riuscivo a farla funzionare come volevo. E ogni volta era un trionfo.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti 1992)
Nel libro è riportata questa bel montaggio di immagini, che riporto con la didascalia originale:
A sinistra, in alto, il contributo alla regia di Birgit Tengroth, in «Sete» (con Mimi Nelson), poi sfruttato anche ne «L'ora del lupo», con Liv Ullmann e Max von Sydow
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