La classe operaia va in paradiso (1971) Regia di Elio Petri. Scritto da Elio Petri ed Ugo Pirro. Fotografia di Luigi Kuveiller. Musiche di Ennio Morricone. Interpreti: Gian Maria Volontè, Salvo Randone, Mariangela Melato, Mietta Albertini, Renata Zamengo, Flavio Bucci, Gino Pernice, Luigi Diberti, Donato Castellaneta, Ezio Marano Durata: 1h50’
Nel film di Petri le donne hanno una parte importante.
Innanzitutto, la condizione familiare del protagonista era abbastanza strana, per l’epoca in cui fu girato il film: oggi è invece abbastanza normale. Massa è separato dalla moglie, sua moglie e suo figlio vivono con un altro (un operaio suo amico), lui si è messo con un’altra, una parrucchiera che ha un figlio della stessa età del suo. Insomma, difficile da capire se lo si spiega, più facile capire guardando il film; ma il figlio che non è suo gli vuol bene più che il suo vero figlio, quantomeno si parlano e si capiscono. Va ricordato che siamo nel 1971, si discuteva molto di una legge sul divorzio in quegli anni; non ricordo le date precise, ricordo però che non appena fu approvata la legge si raccolsero le firme per abrogarla, e il referendum si tenne nel 1974. Gli italiani furono favorevoli al divorzio, e da quel 1974 è diventato normale che un padre passi dei soldi a un’altra famiglia per mantenere suo figlio, come vediamo nel film.
La nuova compagna di vita di Volonté (ma all’inizio è normale pensare che sia sua moglie) è interpretata da Mariangela Melato, che nel 1971 cominciava a farsi conoscere; in seguito sarebbero venuti i grandi successi al botteghino con i film di Lina Wertmüller, decisamente ispirati ai personaggi di Petri, ma rivoltati in chiave di vignetta umoristica. Il mio ricordo personale di Mariangela Melato è in teatro, El nost Milàn di Bertolazzi al Piccolo di Milano, regia di Strehler, con Tino Carraro. Oltre a capire che era una grande attrice, mi ero subito reso conto (stagione 1979-80) che la Melato di persona era decisamente bella, nei film tende invece a imbruttirsi. Qui, ogni tanto ricorda Shelley Duvall; se fosse stata inglese o americana, probabilmente Stanley Kubrick avrebbe scelto Mariangela Melato per “Shining”, chissà.
In “La classe operaia” Mariangela Melato impersona un altro stereotipo: dopo l’operaio, la parrucchiera. Devo dire che nel film la pronuncia milanese della Melato mi sembra meno perfetta di quella di Volontè (che però esagera, a tratti); ma la prima domanda che viene è: “come ha fatto a mettersi con uno così, magari a sposarlo?”. Volontè nei panni di Lulù Massa appare infatti poco attraente, scostante, facile immaginare che per una donna giovane, sia pure con un figlio grande, possa trovare qualcuno migliore di lui. Oltretutto, nel finale lei ritorna da lui: quindi deve volergli bene. Anche il bambino gli vuole bene, e Petri ce lo fa notare un paio di volte nel corso del film. La risposta è semplice, Lulù Massa non è sempre stato come lo vediamo nel film: così si diventa, è lo stress sul lavoro, i turni, la ripetitività dei gesti, la stanchezza, tutto si ripercuote sulla nostra vita.
Il personaggio della Melato è interessante anche per un’altra cosa: quando ritorna a casa e si trova l’appartamento invaso dai colleghi “clandestini” di Lulù, la parrucchiera si lascia andare a uno sfogo dicendo che tutto quello che hanno lo devono al padrone, che lei col padrone sta bene, che non capisce perché si debba contestare, scioperare. Dice che si trova bene col padrone, che è il padrone che dà il benessere: è la posizione di molti, non solo delle parrucchiere. E c’è una parte grande di verità in questa frase, in questa scena: il nostro benessere non è nostro, viene dal padrone, da chi ci dà il lavoro. E’ la presa di coscienza di questa situazione che rende a molti antipatico il socialismo, il comunismo, l’anarchia, e in generale tutte le idee anticapitaliste: in effetti, non essere padroni del proprio destino non è piacevole, così come non è piacevole doverne prendere atto, prendere coscienza, magari abbassarsi, inchinarsi, dire “sissignore” o magari “sì padrone”. A molti questo mondo di servi e di padroni piace, molti non si pongono il problema o non vogliono porselo, e in effetti finché va tutto bene in questo modo si vive bene, senza troppi problemi. I problemi tornano a farsi sentire quando le cose smettono di andare bene, quando c’è crisi, come oggi: quando il padrone licenzia, delocalizza, chiude. Elio Petri mette dunque davanti a noi le due posizioni; e rende piuttosto sgradevoli gli studenti-operai, i rivoluzionari. Poi, sta a noi spettatori decidere, pensare.
Anche nel finale, sembra non voler dare un’indicazione precisa su quale sia la via migliore: quindi un film politico, decisamente di sinistra, ma molto aperto. Qualcosa su cui ragionare, qualcosa su cui pensare. Anche a sinistra, va ricordato, “La classe operaia va in Paradiso” subì critiche e dissensi molto pesanti, che Petri non si aspettava.
Dopo questo sfogo, dopo aver trovato la sua casa invasa da estranei, Mariangela Melato se ne va: prende il figlio, e lascia Lulù nell’appartamento con i suoi nuovi amici. Il tempo di aprire e chiudere la porta, e i “clandestini” se ne vanno anche loro: dopo gli scontri in fabbrica temono di essere arrestati, se la moglie di Lulù non l’ha presa bene potrebbe andare in giro a raccontare tutto, meglio cercare un posto più sicuro dove nascondersi. E così, Lulù Massa rimane da solo nell’appartamento.
Alla fine del film, quando nemmeno noi spettatori ci credevamo più e si pensava ad un finale tragico, invece la Melato ritorna, col figlio. Gli vuol davvero bene, a Lulù; e anche il bambino gli si è affezionato.
Il posto “dove lavoravo prima”, la fabbrica di vernici ormai dismessa dove Lulù Massa ha preso un’intossicazione, la vediamo al minuto 61. Il padrone “è dentro per bancarotta”; il capannone è vuoto e Lulù vi si apparta con l’Adalgisa, che è molto giovane: per lei è la prima volta, ma non sarà una esperienza bella e ne rimarrà molto delusa.
«La realtà è la realtà, c’è mica altro», conclude Lulù: la prima volta per le donne è così, spiega. Ed è sincero, per lui il sesso è quella roba lì, “c’è mica altro”. Lulù è molto gentile con le donne, ma un po’ rozzo e sbrigativo; fanno l’amore in macchina, una Fiat 850 targata Novara (la fabbrica vera che ha ispirato il film è a Novara), ed è una cosa da contorsionisti, anche dolorosa, normale che la ragazza si aspettasse di più. Molti uomini la pensano ancora così, nonostante il tempo che è passato.
La giovane attrice che interpreta Adalgisa, una ragazza che lavora in fabbrica con Lulù (abbreviazione di Ludovico), è Mietta Albertini, che ha girato in seguito pochissimi film; un’altra donna nel film è la moglie di Lulù (probabilmente Renata Zamengo, ma le indicazioni su questo film sono molto stringate), che però vediamo poco, in una scena in famiglia piuttosto movimentata. E’ andata a vivere con un altro, con un collega sindacalizzato di Lulù (l’attore è Luigi Diberti), suo amico; il figlio di Lulù li chiama papà tutti e due, a Lulù la cosa non piace.
(continua)
4 commenti:
Non pensavo si potessero tirare fuori aspetti così diversi da uno stesso film. Dovresti concentrarti su una cosa e scriverne un libro, tipo i post dedicati all'Opera nel cinema.
sono soltanto i miei appunti, le mie riflessioni. Non è detto che abbiano davvero a che fare con i film, e ogni tanto mi immagino gli autori che mi corrono dietro col bastone
:-)
Aggiungo il mio plauso a quello, forse implicito, di Gegio: sei sempre un grande "analista", caro Giuliano. :)
analista chimico? ero bravino, il Direttore Supremo mi diceva spesso "lei è quello che non sbaglia mai"; invece il "Direttore di Produzione ancora dopo 15 anni di lavoro insieme mi stava sempre dietro il q perché mi riteneva perfido e incapace (un'evidente dicotomia, che è la parola più gentile che mi è venuta in mente).
Il parere che conta, per me, è quello degli operai del reparto.
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