A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
Tra gli attori, spicca il nome di Luigi Pistilli: ottimo attore di lungo corso, in teatro e in tv e non solo al cinema. Pistilli (che qui interpreta il farmacista) negli anni ’60 ha girato numerosi film western, anche con Sergio Leone; forse è per questo che gli viene così bene la scena in cui viene ucciso. Suo compagno nella tragica scena della caccia è Franco Tranchina (Roscio).
Un altro nome importante è quello di Leopoldo Trieste, il deputato del PCI al quale si era rivolto Roscio prima di essere ammazzato; un altro attore molto presente nel cinema italiano, amico e collaboratore di Fellini (era nel gruppo dei Vitelloni). Di Mario Scaccia ho già parlato nella puntata precedente, anche lui un’ottima scelta.
Laura Nucci, la madre di Laurana, è molto più giovane della “donna anziana” che viene descritta nel libro; una piccola infedeltà a Sciascia, che però dà più spessore al personaggio.
Completano il cast Gianni Pallavicino (Raganà), Luciana Scalise (Rosina, la giovanissima amante del farmacista) Anna Rivero (la moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (l’ispettore polizia) e Carmelo Olivero (l’arciprete che dà l’Osservatore Romano a Laurana: nel libro ha più spazio). Tutti attori eccellenti e ben scelti, ma con Elio Petri l’alta qualità della recitazione è una cifra distintiva.
Irene Papas e Gabriele Ferzetti, oltre a Volonté e a Randone, fanno parte del gruppo dei più grandi attori di quegli anni, e li darei per scontati. Si può aggiungere che l’anno dopo Irene Papas sarebbe stata Penelope in tv, al fianco di Bekim Fehmiu: l’Odissea di Franco Rossi, uno degli sceneggiati più belli di tutta la storia della tv, un film vero, ancora oggi molto bello.
La sceneggiatura è di Elio Petri e Ugo Pirro, che faranno insieme “La classe operaia va in Paradiso”, insieme a Jean Curtelin. La fotografia, bellissima e quasi miracolosa, limpida, è di Luigi Kuveiller. La musica, molto appropriata, è di Luis Enrique Bacalov, e non ancora di Morricone, che avrebbe poi fatto tutti i film successivi di Elio Petri; ai funerali di Roscio e del farmacista, all’inizio, la musica viene dal Nabucco di Giuseppe Verdi: nell’opera è solamente una marcia solenne che accompagna il risveglio del protagonista (in carcere, momentaneamente accecato dal Signore), ma già dall’Ottocento le bande di paese presero a usarla come marcia funebre (in effetti, si presta molto bene).
Altre mie note sparse: 1) come in molti film di Bertolucci, un’esplicita citazione da “La regola del gioco” di Jean Renoir: la caccia e la violenza delle morti. 2) una piccola farfalla notturna al minuto 41, sullo stipite della porta dello studio quando Irene Papas e Volonté escono dalla studio dell’ucciso, che è sicuramente una comparsa involontaria ma che finisce col fare rima con l’insetticida Faust usato da Volonté quando riceve la visita del commissario (uno sponsor, forse, come le sigarette in bella vista per Mastroianni e Manfredi?) 3) la consegna del libro, del fascicolo (un quaderno) rimanda a “Porte aperte” di Gianni Amelio, sempre da un libro di Sciascia, dove c’è una scena simile, ma il contesto è diverso e Volontè è ormai anziano. 4) nel finale c’è un matrimonio, e non il funerale di Laurana come ricordavo io.
Il Patò citato nel finale da Sciascia è protagonista di una storia di una cronaca rimasta famosa, che è stata raccontata di recente anche in un libro di Camilleri, “La scomparsa di Patò”; ma questo dettaglio nel film non c’è, c’è comunque il “ditino da mordere” che è un’usanza che io ho visto solo in questo film, ma probabilmente si tratta di un modo di dire molto comune in Sicilia.
Il richiamo a Patò suscitò perciò l'ilarità di don Luigi e del notaro; ma subito si ricomposero, fecero una faccia seria, ignara, preoccupata; ed evitando lo sguardo di Zerillo domandarono
- E che c'entra Laurana?
- Poveri innocenti - vezzeggiò con ironia il commendatore - poveri innocenti che non sanno niente, che non capiscono niente... Tenete, mordete questo ditino, mordetelo - e accostò prima alla bocca del notaro e poi a quella di don Luigi il mignolo che usciva dal pugno chiuso, così come in tempi meno asettici dei nostri le mamme usavano fare coi bambini cui stavano per spuntare i denti.
Risero tutti e tre. Poi Zerillo disse - Ho saputo una cosa, una cosa che deve restare tra me e voi: mi raccomando... Riguarda il povero Laurana...
- Era un cretino - disse don Luigi.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, il finale)
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