giovedì 5 luglio 2012

La classe operaia va in Paradiso ( I )

La classe operaia va in paradiso (1971) Regia di Elio Petri. Scritto da Elio Petri ed Ugo Pirro. Fotografia di Luigi Kuveiller. Musiche di Ennio Morricone. Interpreti: Gian Maria Volontè, Salvo Randone, Mariangela Melato, Mietta Albertini, Renata Zamengo, Flavio Bucci, Gino Pernice, Luigi Diberti, Donato Castellaneta, Ezio Marano Durata: 1h50’

La perdita di un dito, di una falange, è stata per i lavoratori un evento molto comune. In Brianza si diceva, e forse si dice ancora, che un buon falegname non poteva avere tutte le dita sane: nel senso che chi lavora sodo prima o poi gli capita, è solo ai fannulloni, agli scansafatiche che può succedere di arrivare alla pensione senza mai farsi male. La perdita di un dito, o di una falange, è un evento traumatico e terribile, ma al quale si sopravvive e che consente una vita tutto sommato normale, accettabile: è l’evento che è al centro di “La classe operaia va in Paradiso”, la sua chiave di svolta, il cambio di registro. Di persone a cui mancava un dito, o una falange, ne ho conosciute parecchie anch’io.
Per fortuna, io ho ancora tutte le mie dita; anche mio padre, operaio, meccanico manutentore in un’industria tessile, le aveva conservate tutte. Ma due suoi coetanei, che anch’io ho conosciuto e frequentato, su quelle stesse linee di tessitura e di filatura ci avevano lasciato un braccio, un braccio intero fino alla spalla. Sto parlando di persone che nel periodo in cui fu girato il film avevano trenta o quarant’anni, quindi avrebbero potuto tranquillamente fare parte del cast. Altri operai più giovani, miei colleghi che ho conosciuto e frequentato, mancavano di un dito o di una falange; qualcuno aveva la mano intera ma paralizzata in seguito a un incidente sul lavoro; altri ancora mi hanno raccontato di aver avuto intossicazioni da prodotti usati in fabbrica, come racconta il personaggio interpretato da Volonté in questo film (intossicazione da vernici, nel caso di Lulù Massa). La lista sarebbe lunga, non sto scrivendo un trattato sugli infortuni e dunque mi fermo qui, non senza aver segnalato che l’aver messo proprio questo evento come snodo del film è segnale di grande attenzione da parte di Elio Petri, e di grande intuito narrativo.
La seconda svolta del film, il secondo punto importante, è l’incontro con l’ex operaio Militina: che è ricoverato in manicomio, perché in fabbrica si poteva anche diventare pazzi. E io aggiungerei che ancora oggi è possibile; anzi, avviene addirittura di peggio e di questo peggio sono purtroppo piene le cronache dei giornali, non passa giorno senza che una di queste pazzie arrivi come notizia, quasi tutti abbiamo paura di parlarne. E’ di questa cosa, della follia e dell’alienazione derivante dal lavoro, che ci sta parlando invece Elio Petri: ed è l’aver messo al centro del film proprio queste due cose, l’infortunio sul lavoro e la follia derivante dal lavoro, che rende ancora attualissimo un film come “La classe operaia va in Paradiso”, anche dopo quarant’anni.
Militina è interpretato da Salvo Randone; Volonté nei panni di Lulù Massa va a trovarlo subito dopo l’incidente in cui ha perso un dito, mentre è in convalescenza. In convalescenza, si sa, hai il tempo di fermarti e di pensare. Siamo al minuto 34 dall’inizio del film.
Militina legge un libro, ne strappa alcune pagine e le mette in tasca: è una biografia di Spartaco, lo schiavo che si ribellò ai suoi padroni, al tempo degli antichi romani. Massa, che è rimasto suo amico, gli chiede come sta, come si trova.
- Qui è tutto uguale, come alla fabbrica, solo che non mi lasciano uscire.
Chiede se parlano ancora di lui, se si ricordano di lui, in fabbrica; Massa gli dice di sì, lui aggiunge “certo, si ricordano, parlano, ma poi aggiungono un però...”.
Massa ha una cosa da chiedere al Militina, prima gli dice di non arrabbiarsi, poi con fatica e con cautela fa la domanda che lo preoccupa:
- Com’è che...insomma, come hai capito che stavi diventando matto?
- Sono gli altri che lo decidono, quando uno deve diventare matto; però a dirti la verità io sono arrivato prima, io li ho fregati (...)
Pirandello, verrebbe da dire; ma poi Militina spiega come è finito in manicomio: ha preso per il collo uno dei capi, l’ingegnere, e gli ha chiesto che cosa si produce in quella fabbrica, non lo sapeva e voleva saperlo.
- ...ma mi dice che cazzo si fabbrica, in questa fabbrica, a che servono tutti questi congegni? (si scalda, ripensandoci; Massa gli dice di stare calmo, di ragionare) Sì, io ragiono, però se non me lo levavano di sotto lo strozzavo davvero.
Un altro momento di verità, una scena che è successa spesso: me l’hanno raccontata persone di età molto diversa, e qualcosa ho vissuto anch’io. Non è da leggersi in chiave politica, ma proprio di rapporti umani; è la disciplina di stampo militare, ben descritta da Georg Büchner nel Woyzeck (inizi 800). L’ufficiale deve essere obbedito, e basta. Esistono servi e padroni; c’è chi sta sopra e chi sta sotto, gli ordini non si discutono, i regolamenti non si discutono, non si deve mai chiedere “perché mi fai fare questa cosa”. Ho constatato che a molti questo mondo piace, ma è origine di follia e di violenza. Il più delle volte, questo “senso della disciplina” fuori dal campo militare è del tutto insensato, le fabbriche che funzionano meglio sono quelle dove i capi e gli operai collaborano (ce ne sono, e molti).
Militina prosegue così:
- Ma questa, Lulù, non è pazzia: perché un uomo ha il diritto di sapere quello che fa, a che cosa serve. Sì o no? Ho ragione?
E volge lo sguardo sugli altri ricoverati:
- Li vedi? Li vedi tutti quelli là? Quelli erano operai, contadini, manovali, muratori, poliziotti, impiegati del catasto, beccamorti, ragionieri, uscieri, autisti, operai di prima, di seconda, di terza categoria; e anche di sesta, ottava, sedicesima...Ma i matti ricchi non li tengono qui, quelli stanno nascosti nelle cliniche private. Si capisce, guai se i poveracci sapessero che pure i ricchi diventano matti, eh, gli verrebbe da piangere. Lulù, è il danaro, comincia tutto di là. Noi facciamo parte dello stesso giro, padroni e schiavi, dello stesso gioco, “l’argent”, i soldi...Noi diventiamo matti perché ce ne abbiamo pochi, e loro diventano matti perché ce ne hanno troppi. E così, in quest’inferno, su questo pianeta pieno di ospedali e di manicomi, di cimiteri e di fabbriche, di caserme e di autobus, il cervello a poco a poco se ne scappa.
Petri conclude la scena con una piccola gag: Militina saluta Lulù e si dirige verso l’uscita.
Militina si alza e se ne va, incitando Lulù alla ribellione, allo sciopero immediato:
- ...eh, sciopero, sciopero...Va, ti saluto, Buona permanenza.
Massa rimane seduto, ci mette un attimo a realizzare.
- Ehi, ma dove vai?
- Via.
- Veramente, sono io che devo andare via.
- Ah, scusa, mi sbaglio sempre.
Nell’uscire, Militina si rivolge all’amico con un sorriso folle, d’intesa:
- Lulù, quando ti ricoverano, porta le armi!
Rivedremo Militina soltanto verso la fine del film, in quello che è forse un incubo, mentre vuole buttare giù il muro che gli sta alle spalle: è il sogno che Massa racconterà nel finale, ormai tornato alla linea di produzione.
(continua)

2 commenti:

A Gegio film ha detto...

Il lavoro dovrebbe essere migliorato da quel periodo, ma le condizioni in cui opero io sono al limite dell'estremo. Per farti un esempio, dove lavoro io, all'aria aperta nelle ore più calde, nei giorni più caldi, si pretende che il rendimento (e non parlo di salute o sicurezza) sia lo stesso di una tipica giornata estiva, quando la temperatura non supera i 30 gradi. L'operaio del film direbbe: ma siamo pagati bene!!! Mavalà in quel posto...

Giuliano ha detto...

Ne parlo oggi, mi mancano ancora un paio di post. Questi lavori oggi da noi non ci sono quasi più, sono stati automatizzati oppure importano dalla Cina...
Hai presente cosa grida nel megafono lo studente? "Più soldi, meno lavoro". A Melfi e a Pomigliano, e poi a Mirafiori, si sono messi tutti in coda chiedendo l'esatto contrario.