sabato 5 giugno 2010

Mahabharata: Un mondo diverso dal nostro

Peter Brook, The Mahabharata (1989). Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

Quando ho visto il Mahabharata di Peter Brook al cinema, nel 1989, ero rimasto affascinato e sconcertato. Penso che sia una reazione comune, in chi non conosce la cultura indiana o la conosce molto superficialmente. La storia del Mahabharata è piena di eventi che per noi sono decisamente strani, spesso sconcertanti; però poi basta ripensare alla nostra mitologia per sentirsi almeno un po’ rassicurati: eventi “strani” ne troviamo anche con Giove e Minerva, e Ulisse non è meno doppio di Krishna o di Shakuni.
L’effetto che fece a me fu di farmi vedere con occhi diversi la nostra religione e il nostro mondo, e di rendermi conto di quanto sia grande l’ignoranza riguardo a cose che diamo per scontate. Per esempio, la Bibbia contiene cose ben più strane di queste che abbiamo visto nel Mahabharata, o dei bassorilievi dei templi indiani: chi ha avuto la pazienza di leggersi il libro di Ezechiele sa di cosa parlo. Ma la storia di Abramo e di Isacco, o quella di Sara che partorisce a novant’anni, non sono meno strane di quella di Amba e di Bhishma: se così non ci sembra è solo perché siamo abituati a leggerle fin dal catechismo. E strana, stranissima, è la nostra celebrazione della Pasqua: Gesù Cristo ci insegna che la nostra vita non finisce qui, e che al nostro corpo fisico non dobbiamo fare caso più di quel tanto. Siamo tutti eredi di San Tommaso, in fin dei conti; ma qui il discorso si fa troppo complicato e mi fermo, non senza aver ricordato che l’India e il Tibet hanno culture affascinanti, ma le “Confessioni” di Sant’Agostino sono belle come la vita di Milarepa, e davanti al “Laudato si’ mi’ Signore” di Francesco d’Assisi non c’è paragone che tenga, e tutto sommato mi dispiace un po’ meno di non conoscere il sanscrito, se ho avuto in cambio la fortuna di poter leggere Jacopone in italiano.
Un po’ di questi eventi “strani” li avete visti nelle puntate precedenti; ne segnalo altri due molto belli: la storia di Gandhari e quella di Dràupadi, due storie al femminile. Ci sono molte donne, nel Mahabharata, e hanno ruoli tutt’altro che secondari o scontati.
Gandhari va sposa ad un principe: non lo conosce, ma è felicissima. Quando le dicono che sta per sposare un cieco, si dispera. Ma è solo un momento: “Dato che il mio sposo non potrà vedermi, anch’io voglio condividere la sua sorte.” Gandhari si fa portare una benda e se la mette sugli occhi: non la toglierà mai più.
Questa storia del regno retto da due ciechi è una metafora meravigliosa, ma a questo punto non posso più rimandare la storia di Dràupadi. Ci spostiamo nell’altra metà della famiglia, i Pandava: Arjuna vince un torneo e corre felice da sua madre Kunti: “Madre, guarda che cosa ho vinto.” La madre non alza la testa dal suo lavoro: “Qualunque cosa sia, la devi dividere con i tuoi fratelli.” Arjuna è perplesso: quello che ha vinto nel torneo è la sua futura moglie, Dràupadi. Ma quel che è stato detto non può essere cambiato, e così sarà: ora Dràupadi ha cinque mariti, i cinque fratelli Pandava. Per la società indiana, una donna che ha più di un uomo è una prostituta: ma così non sarà per Dràupadi, esempio di fedeltà coniugale e di forza femminile.
Superato lo sconcerto iniziale, si rivela una storia meravigliosa; ed è l’interprete di Dràupadi, l’indiana Mallika Sarabhai, a spiegare alcune cose fondamentali sul suo personaggio: le troviamo in una bella intervista che si trova alla fine dei due dvd della Dolmen Home Video, ed è uno dei motivi per cui vale la pena di procurarseli. Dràupadi è il palmo della mano, che dà forza alle dita e permette di lavorare o di combattere, o di fare carezze. E i cinque mariti esprimono qualità diverse: la saggezza, la dolcezza, la forza, la fedeltà, l’abilità. Cinque uomini che, messi insieme, fanno il marito ideale: forse il personaggio di Dràupadi è stato concepito da una donna, conclude sorridendo Mallika Sarabhai. E Dràupadi è davvero un personaggio bellissimo.
Per raccontare la storia, Brook e Carrière sono ricorsi ad un piccolo trucco molto classico: hanno portato sulla scena Vyasa, il narratore della storia. Vyasa, vissuto intorno al terzo secolo dopo Cristo, è stato un santo asceta; sembra che sia stato lui a mettere per iscritto il poema, che esisteva da tempo immemorabile. Il professor Giuliano Boccali, esperto di cose indiane, spiega che per la cultura indiana saper scrivere è stato per lungo tempo considerato una minorazione: aveva bisogno di scrivere chi non era capace di ricordare (gli articoli di Boccali sono, oltre che nei suoi libri, nell’archivio di Golem, la storica rivista on line fondata da Umberto Eco: www.golemindispensabile.it ).
Ma Vyasa ha bisogno di un aiuto per scrivere il poema, e da lui arriva Ganesh che trascriverà velocemente tutto. Ganesh (o Ganesha, secondo altre trascrizioni) è il dio con la testa di elefante che siamo soliti associare all’induismo, uno dei più famosi anche da noi (secondo solo alla dea Kalì). Ganesh è un dio-bambino, un dio felice, il dio che viene invocato quando si deve cominciare qualcosa. Non è quindi un caso che sia proprio lui ad aiutare Vyasa.
Troveremo Vyasa (l’attore inglese Robert Langdon-Lloyd) in molte scene del film: agisce come uno dei personaggi ed a lui si rivolgono spesso gli altri attori. Ganesh è interpretato dallo stesso attore che interpreta Krishna: Brook gli mette in testa una buffa maschera da elefante, una maschera visibilmente di cartapesta, a significare che non è l’apparenza delle cose quella di cui stiamo parlando. A loro è affiancato un ragazzo sui 10-12 anni: che rappresenta un po’ tutti noi, che pone le domande e che riceve le risposte quando è possibile darle.
Anche la musica, come gli interpreti, viene da tutte le parti del pianeta: ma quasi non ci si fa caso, perché acquista una sua unità tutt’altro che casuale. La musica nel “Mahabharata” meriterebbe un discorso a parte; per ora mi limito a ricordare la bellissima voce di Sarmila Roy, una cantante della quale so pochissimo e che ascoltiamo in due occasioni (è lei che canta sui titoli di coda).
Rimane da parlare di Krishna, che è il personaggio più sconcertante di tutti. Krishna gioca con i nostri destini, gioca come fanno i bambini con i soldatini o con le marionette. Fa quel che vuole, fa morire i suoi pur di giungere alla vittoria, mente e fa mentire, e tutto questo per un fine che, forse, conosce solo lui; e, in ogni caso, “una scintilla di luce però è stata salvata” – è questo che spiega a Gandhari che gli rimprovera il suo atteggiamento dopo la vittoria finale. Perché Krishna gioisce per la vittoria come un calciatore dopo un gol, nonostante la vittoria sia scontata fin dall’inizio e abbia usato i suoi trucchi per vincere; ma così facendo ha salvato dalla distruzione una scintilla di luce. (E’ da qui che è partito Bergman per “Il settimo sigillo”?). Ma anche Krishna è destinato a morire, morirà come noi, vittima di un banale incidente di caccia: lo vediamo addormentarsi per sempre in una delle ultime scene del film.

2 commenti:

Marisa ha detto...

La scrittura! Non solo in India, ma dappertutto la scrittura è comparsa dopo la "fase orale", il lunghissimo periodo dove le vere storie, quelle che contano e su cui si basa la tradizione e la memoria, erano cantate e tramandate da generazione e generazione ( Orfeo?). Già Omero ha solo trascritto quello che gli Aedi itineranti di allora andavano narrando di corte in corte... La scrittura è nata per ragione burocratiche e di controllo delle merci e delle armi e gli scribi di corte erano semplici ragionieri e burocrati... Vedi come cambiano continuamente le cose e ad una conquista segne sempre una perdita: abbiamo imparato a scrivere ed abbiamo indebolita la memoria (anche per andare a fare la spesa, se non scriviamo, non ci ricordiamo cosa abbiamo bisogno di comprare...). Abbiamo i calcolatori e non sappiamo più fare le moltiplicazioni e le divisioni...
Questo non è un rimpianto per il passato, tanto meno per quello in cui la scrittura non esisteva (per quanto ci siano ancora poche tribù di indigeni che preferiscono fidarsi delle loro tradizioni orali piuttosto che dei trattati di pace scritti e firmati dai potenti di turno...), ma la semplice constatazione che ogni conquista comporta necessariamente la perdita o per lo meno l'indebolimento di qualcosa, della funzione precedente. E' così. Ci piaccia o no, non si può avere il nuovo senza la perdita, parziale quando va bene, del "vecchio". Almeno prendiamone coscienza!

Le donne del Mahabharata. Gaudhari che si benda per condividere la sorte del marito è un esempio non di simbiosi, ma di reale capacità di andare oltre la propria visione limitata, quella legata alle impressioni personali che i nostri sensi rinforzano e condizionano. Nelle mitologie e leggende i grandi "veggenti"(da Omero a Tiresia) erano ciechi proprio ad indicare come la vista esterna ci confonda e ci svii rendendoci superficiali e,solo rinunciando ad essa, si veda "il vero volto della realtà". Così si è accecato Edipo dopo l'errore e S.Paolo ha perso, anche se momentaneamente, la vista dopo la vera visione del Cristo.
Dràupadi. La metafora della mano indica molto bene la sua funzione. Lei non è una semplice donna che "appartiene" ad un uomo. E' una funzione animica che subentra alla madre nel "tenere insieme" i fratelli e, come tale, viene designata dalla madre stessa a succederle; non sono più bambini e il ruolo animico della Madre deve passare ad una giovane donna.

Giuliano ha detto...

I numeri di telefono a memoria: una volta ce ne ricordavamo tutti facilmente una decina, ma adesso? Ormai siamo maturi per quel racconto di Asimov degli anni '50, dove un uomo stupiva tutti perchè sapeva fare le moltiplicazioni...

E' un film bellissimo, pieno di cose belle e sorprendenti; non so se farò altri post, perché sono molto impegnativi. Nel caso ti capitasse di guardare il dvd, l'intervista con Mallika Sarabhai è da non perdere. In effetti, è vero: la storia di Draupadi la può aver inventata solo una donna - ed è una storia bellissima, ma dal punto di vista maschile è una storia che non sta in piedi.