martedì 23 febbraio 2010

Il testamento del mostro

Le testament du Docteur Cordelier (Il testamento del mostro, 1959). Regia: Jean Renoir. Tratto da “Dr Jekyll and Mr Hyde” di Robert Louis Stevenson. Sceneggiatura di Jean Renoir. Fotografia: Georges Leclerc. Musica: Joseph Kosma. Interpreti: Jean-Louis Barrault (Cordelier e Opale), Teddy Billis (Joly), Michel Vitold (dottor Séverin), Jean Topart (Désiré, il maggiordomo), Micheline Gary (Marguerite), Jacques Dannoville (commissario Lardout), André Certes (ispettore Salbris), Jean-Pierre Granval (il padrone dell'albergo), Jacqueline Morane (Alberte), Ghislaine Dumont (Suzy), Madelaine Marion (Juliette), Didier d'Yd (Georges), Primerose Perret (Mary), Gaston Modot (Blaise), Raymond Jourdan (l'infermo), Sylvianne Margolle (la bambina), Jaque Catelain (l'ambasciatore). Durata: 95 minuti

“Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” fu pubblicato nel 1886: Siegmund Freud aveva trent’anni, Jung era un bambino di undici anni. Robert Louis Stevenson, inventore di questa storia, ne aveva trentasei: al suo attivo aveva già capolavori come “L’isola del tesoro” (1883), “Il ragazzo rapito”, “Catriona”, “La freccia nera”: tutti scritti nel giro di pochissimo tempo. Coetaneo del “Jekyll” è un altro romanzo magnifico, “Il signore di Ballantrae”, che tocca gli stessi temi ma spostando l’ambientazione in ambito storico e psicologico.
La storia del dottor Jekyll è inquietante perché si svolge in ambito moderno, e verrebbe da dire che si svolge ai nostri giorni, perché appena si inizia a leggere ci si dimentica che sono passati quasi centotrent’anni. Ci sono persone che non sanno ancora quanto sia grande Stevenson, e a loro dedico questo mio inizio: quando mi si dice “quello è un grande scrittore”, la mia pietra di paragone è proprio Stevenson. E il “Jekyll” è scritto in maniera perfetta, come quasi tutto Stevenson: chiarissimo nello stile, inquietante e profondissimo nei contenuti.
Se Jekyll e Hyde nascono nel 1886, il cinema nasce nel 1895: e il romanzo di Stevenson è da subito uno dei preferiti del cinema. Le versioni di questa storia sono innumerevoli, quasi tutte trascurabili anche se piacevoli da vedere; quella di Jean Renoir non è particolarmente riuscita, ma è la versione che più si avvicina allo spirito del romanzo e anche alla sua lettera.
Renoir mantiene quasi intatta la struttura del romanzo di Stevenson, spostando l’azione a Parigi negli anni ’50 e francesizzando i nomi dei protagonisti. Il film di Renoir non si può dire perfettamente riuscito, ed è anche molto invecchiato (si sa che se si vuole fare invecchiare presto un film bisogna legarlo all’attualità); ma è sempre notevolissimo e fonte di meraviglia.
Innanzitutto per la scelta dell’attore protagonista, Jean-Louis Barrault, uno dei mostri sacri del teatro e del cinema francese. Barrault divenne famoso con “Les enfants du Paradis” (1941, regia di Marcel Carné) dove interpretava un mimo, un grande attore del teatro francese dei secoli passati; e qui, più anziano, quel lavoro di studio sui movimenti del corpo, e la padronanza del corpo che una volta era bagaglio indispensabile degli attori, diventa fondamentale.
Ed è difficile, senza aver visto il film, spiegare cosa si prova vedendo Barrault trasformarsi in Opale, cioè nel “mostro” a cui siamo abituati a pensare dopo aver visto infinite volte trasformare la storia di Jekyll in un film dell’orrore. E’ una sensazione sottopelle, di disgusto, che va ben oltre il trucco di scena o l’effetto speciale; e che per uno spettatore di cinema attento riserva più di una sorpresa. Per esempio, guardando Barrault camminare e quasi danzare come Hyde (pardon, “Opale”), mi veniva in mente qualcosa, ma non capivo cosa. Poi il bastone da passeggio mi ha aiutato: Malcolm McDowell in “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick, girato dodici anni dopo. Una volta notata, la somiglianza è impressionante, e conoscendo Kubrick è da escludere che sia casuale.

Il film inizia in uno studio tv, con Renoir stesso che dà inizio alla storia come se fosse un fatto di cronaca da raccontare in diretta: ed è quanto di più simile all’inizio di Stevenson abbia mai visto, pur essendo così diverso da quello che è scritto sulla pagina. Questo film e “Le dejeneur sur l’herbe”suo contemporaneo «sono girati secondo un “metodo televisivo” come lo ha definito l'autore: ogni scena è ripresa da diverse macchine da presa (fino a otto) per consentire la scelta in sede di montaggio dei «piani » più adatti. La principale conseguenza di questa tecnica particolare è stata, secondo Renoir, quella di rompere il rapporto dialettico, la sottomissione dell'attore alla macchina da presa. Il fatto che gli attori non sappiano da quale parte sarà poi “ vista” la loro azione, li obbliga “a dimenticare che c'è una macchina da presa”: “non possono più recitare per la macchina da presa, sono obbligati a recitare per se stessi, o meglio per la situazione della scena”. (...) » (C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).

In sostanza, se l’attore non recita in funzione della cinepresa è come se si tornasse al teatro; la situazione ideale per Jean Louis Barrault. Anche questa tecnica di ripresa contribuisce a spiazzare lo spettatore, che si trova spesso a disagio: al di là dell’apparente semplicità della messa in scena, “Il testamento del mostro” è davvero qualcosa di fuori dal comune, e questa diversità dalle cose che siamo abituati a vedere non è sempre piacevole ma funziona, perché questa di Jekyll & Hyde non è una storia rassicurante, è anzi la storia ideale per mettere a disagio lo spettatore.
Di solito, al cinema, il disagio verso il personaggio di Hyde viene superato trasformando Hyde in un mostro da cinema horror, una specie di licantropo peloso e scimmiesco – poco umano e quindi distante da noi, molto rassicurante al di là dell’aspetto mostruoso. Sulla pelosità (scimmiesca, o da belva feroce) di Hyde al cinema si potrebbe scrivere un saggio o una tesi di laurea: anche Barrault ne approfitta, ed è un peccato, io avrei preferito che avesse risolto tutto con l’interpretazione, senza trucco; e il grande attore francese era già a buon punto per completare l’opera. Ma per il gusto del tempo (gli anni ’50) forse un Hyde non peloso – non scimmiesco - era impossibile. Riuscirà nell’impresa, qui da noi, l’ottimo Jekyll televisivo di Giorgio Albertazzi, dieci anni dopo.
Sullo scimmiesco in Hyde pesa anche, nel finale in flashback, il rapporto con il sesso visto come cosa indegna, animale, da reprimere; Renoir vi infila anche il disprezzo per le classi inferiori, le battute di Cordelier sugli “amori ancillari”, la segretaria bella e innamorata mandata via perché “indegna” della sua posizione di dottore laureato. Si può però notare che nel finale in flashback Barrault-Cordelier, truccato da giovane con i capelli neri, sembra più vecchio. Questi flashback con Cordelier da giovane, va detto, sono forse la parte del film che più è invecchiata.
Notevolissimo infine il collegamento tra Hyde e Kafka (“La metamorfosi”) nella scena in cui Cordelier si risveglia nel suo letto dopo la prima metamorfosi non controllata. Però Hyde-Opale è cosciente della sua natura alata (come direbbe Nabokov) ed esce effettivamente dalla finestra, saltando con agilità e sottraendo la vista della sua metamorfosi a chi non l’avrebbe mai capita – nel caso, il fedele maggiordomo Desiré.
Opale è anagramma di Paleo, chissà se è questo il significato.
« (...) In Opale si ritrova, in una versione incattivita, lo spirito di Boudu, l'insofferenza anarchica per le convenzioni. Per la prima volta il regista suggerisce che questo personaggio non vive nella realtà sociale ma nella realtà psicologica di ognuno di noi. È vero che Boudu era la proiezione in cui il libraio Lestingois si identificava, ma allora si trattava di una identificazione in un'alternativa esterna. Il lungo itinerario percorso da Renoir in tanti anni e lungo tre continenti lo ha alla fine condotto a scoprire che tali antinomie esistono all'interno di ciascun personaggio.» (C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).
Venegoni paragona quindi la coppia Opale-Cordelier con quella formata da Boudu e dal libraio Lestingois (“Boudu salvato dalle acque”, regia di Jean Renoir, anno 1932): non ci avevo pensato ed è vero; e l’idea del buon Michel Simon che fa Opale mi apre scenari molto divertenti. Peccato che Simon fosse ormai troppo vecchio per rendere un credibile Mr. Hyde! Però ci ha pensato René Clair, con “La bellezza del diavolo”, a dargli una parte adeguata in questo campo.
Renoir mette molto fumo nello studio dello psichiatra “nemico” di Cordelier, gran fumatore, e forse oggi è un dettaglio che colpisce perché non siamo più abituati a veder fumare nei film, ma vedendo questi grandi sbuffi di fumo, perfino esagerati, penso che anche questo non sia un caso ma un segnale allo spettatore, anche perché oltre alla metafora del fumo che impedisce di vedere c’è una evidente citazione come stile del “Dottor Mabuse” di Lang. Ed al cinema muto, e a Lang in particolare, rimandano molte sequenze e molte inquadrature, arredi, eccetera; penso anche alla bambina all’inizio, e a “M – il mostro di Düsseldorf” sempre di Fritz Lang. Dato che Renoir aveva dimostrato grande padronanza del colore e della tecnica moderna, viene da sorridere: anche questo aspetto va considerato come chiara indicazione stilistica.
Lo stile di Lang, quello del “Mabuse”, comporta anche il fatto di non prendersi troppo sul serio, sia pure parlando di argomenti drammatici; e in questo ambito è importante notare che razza di sagoma sia l’attore Michel Vitold, che interpreta il dottor Severin rivale di Cordelier rendendolo sempre sghignazzante, goliardico, e costantemente avvolto nel fumo dei sigari. Notevole anche il fatto che le mani di Opale-Barrault vadano sempre, decise e prensili, verso il sesso e le natiche delle infermiere e delle assistenti... Vivendo nel fumo, il dottor Severin non riesce a cogliere nemmeno le verità più evidenti e quotidiane: forse è questo il senso delle scene in cui appare questo personaggio, ed il messaggio è rivolto anche a noi non fumatori.
Vi è poi, tipica di Renoir, la simpatia per tutti i personaggi “piccoli” che fa di “Il testamento del mostro” quasi un film corale, dove Barrault, pur grandissimo, non è mai il vero centro della narrazione. Sono personaggi amabili, il che li rende talvolta poco credibili: la dolcezza di Joly, l’amico fraterno di Cordelier, si addice poco ad un notaio ma l’attore che lo impersona (Teddy Billis) è perfetto, sia pure con i suoi cappottoni e la sua antiquata veste da camera: e diventa quindi normale che, avendo a che fare con lui, nel finale, in Opale torni a spuntare Cordelier.
Tra questi piccoli personaggi vediamo molti caratteristi del cinema francese, tra i quali Gaston Modot, il giardiniere: si tratta del caro vecchio Schumacher di “La regola del gioco”, molto invecchiato, che ben si merita molte inquadrature. E c’è ancora un presagio di Jacques Tati, che di certo guardava e prendeva appunti, nelle figurine ben disegnate del taxista, delle segretarie, degli innamorati, eccetera.
La storia del dottor Jekyll, infine, ha dei significati che a molti sfuggono. Una storia inquietante, che spesso si cerca di banalizzare volgendola all’horror o parlando di droghe e di farmaci; ma così non è, Stevenson va sempre a scavare in profondità anche quando non sembra, anche in “L’isola del tesoro”: figuriamoci con una storia come questa. Ne era ben cosciente Jean Renoir, e mostra di averlo capito Venegoni nel suo libro, mettendo in mezzo alla sua recensione di “Dejeuner sur l’herbe” e di “Il testamento del mostro” questo brano dalle memorie di Renoir:
« Il fascismo, come il comunismo, crede al progresso. I loro adepti preconizzano l'avvento di una società basata sulla tecnologia. A Mosca, come a New York, il dio onnipotente è questa tecnologia. Pertanto alla resa dei conti si deve pur prendere posizione. Quanto a me, se fosse assolutamente necessario, messo con le spalle al muro, io sceglierei il comunismo, perché mi sembra che i custodi di questa dottrina abbiano una concezione più dignitosa dell'essere umano. Ma per me, come l'ho già proclamato, lo proclamo e continuerò a proclamarlo, il vero nemico è il progresso, non perché non funziona, ma proprio perché funziona... Il progresso è pericoloso perché si basa su una tecnologia perfetta. È il suo successo che sconvolge le norme della nostra vita e costringe l'uomo a vivere in dimensioni che non sono quelle per le quali è stato creato ». (Jean Renoir, Ma vie et mes films, cit., pag. 112) (citato da C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).

10 commenti:

Ermione ha detto...

Ehi, stai parlando del mio ATTORE preferito dopo JLT...e di un film assolutamente sublime! Non ho letto il tuo articolo, mi riprometto di farlo stasera, questo commento non serve a niente ed è solo per dirti il piacere di trovare qui il dott Cordelier e Monsieur Opale. A poi.

Giuliano ha detto...

Ti dirò, ho sempre avuto qualche difficoltà nel riconoscere "al volo" Barrault: penso proprio che sia perché è bravissimo, ogni volta è diverso, un vero Attore con la A maiuscola.
Aspetto, e sono curioso come un gatto.
:-)

Ermione ha detto...

Amo Barrault come attore sublime, e devo dire che lo amo proprio perché è così perfettamente francese. Ha un viso sensibile ed è di una brabura assoluta. Come fai a dire che ti riesce difficile riconoscerlo, non ci credo.
Su Stevenson hai ragione, è uno scrittore grandissimo e grandioso, una bellissima prosa chiara, uinsomma uno dei miei scrittori preferiti: e qui noto con piacere che la lista delle cose che condividiamo, io e te, si allunga.
Sul film in questione, invece, mi permetto di dissentire su alcuni aspetti: innanzi tutto suk "mostro" Opale. A me sembra che il personaggio che ne viene fuori sia giustissimo, un uomo a tutti gli effetti, peloso ma non troppo, con la fronte bassa, l'aria cattiva e subdola, i vestiti stazzonati e quella camminata dondolante. E' un uomo e non un mostro, e l'attore si dimostra 'davvero superlativo.Apprezzo molto anche la lettura che Renoir doffre del dott. Cordelier, fine ed elegante, apparentemente irreprensibile, ma con un passato colpevole e represso nel presente. Barrault è meraviglioso nel'interpretare le due parti.
I comprimari -hai ragione- sono figure gentili ed amati dal regista. A me sembra tuttora un film riuscitissimo e per niente invecchiato.

Giuliano ha detto...

Mi sono espresso male...Non avevo nessuna intenzione di essere negativo, facevo solo qualche osservazione. Avrei preferito un Opale fatto senza trucco, di certo Barrault ne avrebbe tratto un capolavoro, e il film sarebbe stato ancora più grande. Penso che ti ricorderai il Jekyll di Albertazzi, realizzato solo con le lenti a contatto...

Ci sono attori e attrici che faccio fatica a riconoscere, ma non è da pensare come cosa negativa: ognuno ha il suo modo di essere, ci sono attori che sono sempre se stessi, come Tognazzi e Gassman, e altri che cambiano in maniera stupefacente. Pensa a Volonté: se non fosse per la voce, alle volte sarebbe difficile riconoscerlo ( e Barrault io l'ho sempre visto doppiato...)

Ermione ha detto...

Ora effettivamente sei più chiaro, ed ho capito meglio cosa volevi dire. Comunque Opale mi piace così com'è; non ricordo il dottor Jeckyll di Albertazzi, sono curiosa di vederlo e spero di trovarlo da qualche parte. Ed io, da parte mia, ti raccomando di cercare il dott Cordelier in versione originale!

Giuliano ha detto...

Un'editoria seria e professionale...ahinoi, ormai ci è rimasto quasi soltanto internet.
Mi piacerebbe molto trovare i Renoir in originale, temo che bisognerà andare a cercarli a Parigi (ma ormai sarà una Parigi paninara, che tristezza)

Ermione ha detto...

Naturalmente ce l'ho in francese!!. Quanto a Parigi...è sempre Parig, e anche coi panini è magica.

Giuliano ha detto...

Ti confesso una cosa: va bene che io non faccio testo, ma per me i più belli sono: 1) Jean Renoir, con la sua bella faccia da omino di neve; 2) Michel Simon, vecchio gatto di strada. Quando li vedo mi mettono sempre di buon umore...

(vorrei poter dire la stessa cosa di Como e di Milano! qui, ciellini-leghisti-expaninariquarantenni, di sfracelli ne hanno fatti e ne stanno facendo in enormità. Toccare angoli centenari di Como e di Milano, costruire un muro nel lago, cose da pazzi - e poi appena si prova a grattare qualcosa salta subito fuori il marcio, ma sembra non interessare a nessuno).
(commento molto in tema con quello che dice Renoir...)

Marisa ha detto...

Sono perfettamente d'accordo con Giuliano. Non ho visto Cordelier e non dovrei intromettermi, ma da ammiratrice di Stevenson ho sempre pensato che la sua grandezza (oltre ovviamente alle grandi doti letterarie)sia dovuta proprio all'intuizione che l'uomo virtuoso e il mostro siano in realtà la stessa persona. Basterebbe solo un guizzo negli occhi, o, che so, una luce particolare ,per evidenziare la trasformazione. Ma l'uomo in genere ha paura della sua "parte mostro" e preferisce pensare che i "mostri" vadano in giro "pelosi" e vestiti da mostri. Così ci guardiamo nello specchio e intorno a noi e ci rassicuriamo che "non ci sono mostri"...Forse gli extracomunitari, che sono sporchi e neri...

Giuliano ha detto...

Il tema è interessante, ma nel post ho tagliato corto perché volevo parlare solo del film. Non so se qualcuno se ne sia mai occupato sul serio (molto probabile) in ogni caso sarebbe bello vedere una bella tesi di laurea su questo argomento.
Metto qui due mie impressioni, così come vengono: la prima è l'ossessione per la depilazione maschile, recentissima (un maschio che non si depila diventa impresentabile, anche al mare: spaventoso, quasi quasi mi batterei per non far depilare più nemmeno le donne).
La seconda è un ricordo cinematografico, Oliver Hardy che cade nella vasca dove lo scienziato pazzo ha versato in gran quantità il siero della giovinezza. chi si ricorda come va a finire?