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I documentari di Orson Welles sono ancora oggi stupefacenti, una lezione di giornalismo. E’ vero che sono passati tanti anni, ma rivederli non ha il significato di fare un’operazione archeologica o nostalgica, caso mai il contrario: la serietà e la professionalità di Welles, e insieme la sua voglia di divertirsi e la sua passione, dovrebbero essere di esempio per le nuove generazioni di reporters – o almeno avrebbero dovuto esserlo. Così non è andata, sono davvero rimasti in pochi, oggi, ad aver voglia di girare e “far fatica” e incontrare la gente, farla parlare: vale a dire farsi da parte, magari nascondersi, e non mettersi in mostra davanti all’obiettivo.
Perché i documentari di Welles hanno questo di stupefacente: pur essendo stati realizzati da una star, un attore famosissimo e addirittura leggendario, i protagonisti sono i luoghi, le persone, i fatti.
E’ la caratteristica dei grandi giornalisti e documentaristi: mettere al primo posto l’oggetto dell’osservazione, e non il proprio ego. In questi documentari Orson Welles c’è, è ben presente, la sua voce magnetica e spaventosamente bella incombe sempre su di noi, ma quasi sempre Welles si ritrae con cordialità, lascia parlare, lascia scorrere le immagini. Sembra una contraddizione, ma è proprio così.
Se posso fare un nome, e un paragone, in Italia c’era Enzo Biagi: persona diversissima, un omino quieto e fisicamente quasi insignificante rispetto all’enorme Welles, ma lo stile – e la dolcezza, la curiosità e l’amore verso il prossimo – sono le stesse.
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A Parigi, a St Germain, il quartiere degli artisti, Welles incontra un anziano artista americano, Raymond Duncan, e ha con lui una lunga e divertita conversazione. Duncan è un bel tipo. Fa tutto da solo: ha tessuto l’abito che indossa, e ha perfino costruito il telaio per fabbricare il tessuto; fabbrica sandali e li vende in un negozio gestito dal figlio, dove gli affari vanno a gonfie vele. Welles si fa mostrare la sua tipografia: i caratteri di stampa sono stati fabbricati uno per uno da Duncan, che si dispiace però di aver dovuto comperare la carta, e anche la macchina tipografica. Dirige una Accademia in apparenza simile a tante altre, dove si fanno bassorilievi, ma dice che è solo per insegnare ad avere il contatto con la materia, per lavorare fisicamente, e non per il profitto o per l’idea di fare chissà quali opere d’arte. Poi si discute dell’America e degli americani, e i due concordano sul fatto che “gli americani sono tutti un po’ predicatori”, si sottolineano le origini scozzesi di Duncan e il suo rapporto con il puritanesimo.
“Non fare quello che fanno tutti gli altri”, disse la madre a Duncan: che ha preso questa frase come il suo personale Vangelo. Questa lunga e sorridente intervista è un inno all’indipendenza personale e all’originalità artistica.
Lasciato Duncan, vediamo velocemente Jean Cocteau, Simone de Beauvoir, il politico Ferdinand Lop, e Juliette Greco. Poi Welles si sofferma con tre giovani in una libreria: i tre hanno inventato un nuovo alfabeto e nuovi suoni, dei quali danno ampia dimostrazione. Welles li riprende divertito, senza intervenire. Poi si fa un giro per i locali notturni, dove si vede Eddie Constantine, divo americano del cinema francese, e si chiude con un discorso di Welles che è un inno ai viaggi lenti e scomodi, quelli dove però dove si vedono meglio i luoghi attraverso cui stiamo passando.
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Per capire bene questo documentario, che ha dei dialoghi molto divertenti e mi ha fatto ridere più di una volta, bisogna pensare che Orson Welles è americano: Welles sta parlando ai suoi concittadini del sistema di welfare che c’è in Europa (o meglio, che c’era prima della Thatcher e del liberismo: ma il film è del 1955, vent’anni prima della catastrofe). La chiave del pensiero di Welles a questo proposito è quando racconta delle sue vecchie zie e prozie, che erano davvero tante: di una si diceva “che stava invecchiando con grazia”, e lo si diceva solo di quella. Come mai? Semplice: era l’unica zia ricca. Invecchiare bene essendo senza problemi economici, è decisamente più facile.
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Siamo a Ciboure, nei paesi baschi, in Francia: qui vicino c’è il confine tra la Navarra, in Spagna, e la parte basca della Francia. I baschi parlano la stessa lingua e hanno la stessa cultura, che siano in Francia o in Spagna; il problema (grande) è che c’era ancora il franchismo, e per il dittatore Francisco Franco parlare in basco era reato, vietatissimo. Una situazione oggi per fortuna superata, ma che durò per vent’anni ancora, fino alla morte del dittatore.
Welles accenna a un dato che in seguito, quasi trent’anni dopo che fu girato il documentario,è stato confermato dalle ricerche genetiche: i baschi sono il popolo più antico d’Europa, e la loro lingua ha caratteristiche uniche, autoctone, differenti dalle altre lingue parlate in Europa.
Come negli altri documentari, Welles va a cercare abitanti del luogo che parlino inglese: e ci presenta un uomo dal sorriso simpatico che ha trascorso molti anni in Colorado, come pastore di pecore (è il suo mestiere anche qui); adesso è tornato perché sta per sposarsi. La futura moglie è molto bella ed è anche un tipo tosto; si capisce subito perché il nostro pastore se la tenga stretta e si sia fermato qui invece di tornare in America.
Welles indugia molto sulla zona di confine, dice che le persone vengono divise dai confini, dei quali farebbero volentieri a meno; e che i confini cambiano perché sono gli Stati a volerlo, ma alla gente non piace essere divisa e preferirebbe che i confini venissero aboliti. Questo accade ogni anno per un giorno, a Pentecoste: dove il confine viene abolito per tutta la giornata festiva e i baschi possono mescolarsi tranquillamente senza controlli, come accade oggi dopo l’ingresso della Spagna nella Comunità Europea..
Vediamo e ascoltiamo il famoso urlo basco, quasi una melodia, e la caccia al piccione con le reti, come se si stesse pescando: è assolutamente illegale, ma si fa una volta all’anno, quando è il momento. Ne vediamo la tecnica particolarissima: i piccioni in volo vengono spaventati e diretti verso le reti, tramite l’urlo, mentre dischi di legno lanciati in aria simulando i falchi, e gli spari sono simulati facendo roteare un drappo: non si spara un solo colpo, tutta la caccia si fa con le reti.
Welles aggiunge che anche la caccia alla balena, in mare aperto, pare che sia un’invenzione basca.
E non può mancare una sequenza dedicata al basco inteso come copricapo: ognuno lo porta in maniera diversa, ogni uomo declina il basco (il cappello) a modo suo, ed è anche questo un simbolo d’indipendenza personale.
Welles (protestante) ci mostra anche la chiesa del paese, e si stupisce di alcune usanze cattoliche come la separazione tra donne e uomini, che fin qui aveva visto solo fra gli ebrei, nelle sinagoghe. Anche per noi cattolici questo è ormai un ricordo lontano, ma così si faceva.
Ampio spazio è dedicato al fandango, danza popolarissima che qui ballano tutti, vecchi e giovani, donne e uomini, sulla piazza del paese.
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Si inizia dalla “Grand Chistera”, che sembra interessantissima ed elegante, ma Chris storce il naso: è roba per turisti. I baschi, tra di loro, giocano lo Yoki Garbi “il gioco puro”: la cesta è più corta e il gioco è più veloce. La versione più antica è il Rebot, che si gioca con la chistera e un guanto, e c’è in mezzo al campo un palo che si chiama Bopari, sul quale viene fatta rimbalzare la pallina prima di lanciarla. Infine, la variante che i baschi francesi chiamano “main nue”, la mano nuda: quasi barbarica, appassionante, richiede mani di ferro (c’è chi dice che i baschi abbiano un osso in più nel palmo della mano...). I punti si contano come a tennis e vengono segnati cantando; vediamo e ascoltiamo questo canto, ed è una melodia davvero sorprendente.
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Tutta la parte dedicata alla pelota è altamente spettacolare e ben raccontata, e la parte più bella è sicuramente l’intervista a Robert, grande campione di cinque anni: Orson Welles sa sempre dove andare a colpire, e chissà se Robert è davvero diventato un campione.
Sui baschi, Welles fa un discorso che anticipa Pasolini: “la civiltà, il progresso, viene sempre declinata come urbana e cittadina. Nella civiltà contadina non esiste il concetto di progresso così come lo intendiamo oggi.” Nella prima parte del documentario c’è una lunga conversazione con Lael Tucker, scrittrice americana, autrice di “Lamento per quattro vergini”, che fu un bestseller nei primi anni ’50. Lael Tucker è la madre di Chris, il bambino che accompagna Welles e gli fa da guida; madre e figlio sono entrambi ben scelti e molto piacevoli, e i discorsi che fanno non sono mai banali. Charles Wertenbaker, marito di Lael e padre di Chris, anche lui scrittore e amico di Welles, è morto da poco tempo.
Lael Tucker dice che qui le scuole sono più difficili che in Usa, ma che c’è più libertà per un bambino, ed è bello che un bambino possa correre e giocare senza costrizioni, come accade (accadeva...) in un piccolo paese.
Welles: « ... io penso che il progresso tecnologico e la civiltà non vadano molto d’accordo. So che è una cosa pericolosa da dire, ma la penso davvero così. Probabilmente scatenerò delle polemiche, ma penso che progredendo tecnologicamente è poco probabile essere allo stesso tempo civilizzati. I paesi più civili sono probabilmente quelli in cui il progresso (to move forward) non viene considerato molto importante. (...) Penso che nessuno, bambino o adulto, debba essere sospinto nel corso della vita senza avere la possibilità di esaminare le cose che i nostri padri e i nostri nonni conoscevano e apprezzavano, e che hanno contribuito a costruire la nostra civiltà.»
Lael Tucker: «E conservarle, e aggiungerle a quelle che realizziamo noi.»
Welles: «Esatto.»Il progresso tecnologico rende più facile la vita, ci dice Orson Welles: ma non è questo l’importante, e ce lo dimentichiamo troppo spesso. Purtroppo per noi, e per le generazioni future, il mondo è andato e sta andando sempre più nella direzione opposta.
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