.jpg)
Per ragioni mie personali, risoltesi felicemente, a metà degli anni ’90 mi sono trovato ad avere residenza a Milano per circa un mese, in via Venezian. Praticamente non avevo esperienza d’ospedali: non come inquilino. Sull’ingresso della mia stanza (una stanza da quattro letti, molto ben tenuta e molto confortevole) ho trovato un signore dall’aspetto simpatico che somigliava molto, nel fisico, a Nicholas Ray come lo vediamo in questo film. Gli somigliava così tanto che aveva anche un difetto in comune: fumava dopo aver fatto la chemio, quasi a voler ribadire che lui rimaneva se stesso, nonostante tutto.

E devo dire che ho incontrato resistenze molto forti, dentro di me, prima di mettermi seduto a vedere “Nick’s movie”: perché si tratta di assistere alla malattia, agli ultimi stadi, del grande regista americano. Ma poi non c’è niente di morboso o di strano, o di sgradevole, in questo film: anzi, è un atto d’amore e di amicizia. Wenders racconta che per Ray, molto malato e sottoposto a molte operazioni, poter progettare un film era una ragione di vita; a un certo punto furono addirittura i medici dell’ospedale a dire a Wenders di continuare. “Lampi sull’acqua”, il film di Nick, era ormai l’unico motivo che teneva Ray attaccato a questa vita.
.jpg)
Però ci sono periodi in cui Ray sta abbastanza bene, e lo vediamo tenere conferenze sul cinema, viaggiare, lavorare in teatro (una regia per Kafka, con l’attore Gerry Bamman). Nel finale, per un ricovero in un lettino d’ospedale, le conversazioni sulla malattia si mescolano a un’ipotetica prova per il “Re Lear” di Shakespeare, abbracciato alla sua Susan (“siamo proprietari di mezza Inghilterra...”).

Il finale del film, con la giunca voluta da Nicholas Ray per il suo “lento viaggio verso la Cina” viene paragonata dalla troupe a quella che si vede in “55 giorni a Pechino”, un film del quale non ho conservato memoria.
Molte belle le musiche (poche) scelte da Ronée Blakley, allora compagna di Wim Wenders (molto bella, la si vede accanto a Wenders nella scena in teatro). Al minuto 24 c’è anche una canzone di Benjamin Britten, appena accennata.
.jpg)
.jpg)
(...) Dopo L'amico americano eravamo rimasti in contatto. Nick, ammalato di cancro, aveva subito da poco la sua terza operazione. Era uscito dall'ospedale ma continuava il trattamento ai raggi. Ogni volta che capitavo a New York, andavo a trovarlo e lui mi diceva sempre: "Se solo potessi lavorare un po', anche per fare un piccolo film con un budget minimo". Così al telefono gli ho anche detto che era sicuramente possibile trovare i mezzi per fare qualcosa insieme. Allora lui ha risposto: "In questo caso devi venire a New York per girare un film". Partire da qualche sceneggiatura che aveva già scritto non se ne parlava neanche, in quanto ci sarebbe voluto un periodo di preparazione troppo lungo. Perciò Nick ha cominciato a scrivere un trattamento, basandosi sul personaggio del pittore interpretato ne “L'amico americano”: (...) A un certo punto, si mette a dipingere "falsi" dei propri quadri esposti in un Museo. Poi decide di svaligiare il Museo, per sostituire agli originali le copie. Con il denaro ricavato compra insieme al suo vecchio amico cinese, una giunca e parte per la Cina. In America, per dire morire, c'è un'espressione idiomatica, "To take a slow boat to China". Questa era l'idea di Nick. Nel film si vede mentre ne parliamo insieme: perché non sostituire al pittore un regista, cioè lui stesso, che si introduce di nascosto in un laboratorio per "fregare" i negativi del suo film? In effetti “We can't go home again” (Non possiamo tornare a casa, 1971/73) era bloccato in uno stabilimento di New York e non gli apparteneva più. Quando ho proposto a Nick di interpretare la sua parte, mi ha detto: "Va bene, ma a condizione che reciti anche tu. You have to expose yourself, too.” Questo era l'inizio del film: io arrivo da lui per decidere insieme cosa fare. Poi è diventato più difficile, perché il punto di partenza della fiction ha retto solo qualche giorno. Nick era spesso dietro la macchina da presa ma riusciva a dirigere per poco, gli mancavano le forze. Andava quotidianamente in ospedale e, verso la fine, vi rimaneva anche di notte. Abbiamo continuato fino all'ultimo, girando con il video persino in ospedale e poi di nuovo nel suo "loft", una scena tra me e Tom Farrell, quando Nick era già morto.(...)»
( Wim Wenders, da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo”, ed. Ubulibri.)
.jpg)
2 commenti:
Il coraggio di Wenders nel coinvolgere Nicholas Ray in questo lungometraggio è eccezionale ed altrettanto straordinaria è la risposta e l'accettazione dell'anziano regista così malato e prossimo alla morte.
Solo un grande rispetto ed una altrettanto grande lucidità possono reggere una situazione così "vera". Per fortuna "l'Angelo" di Wenders si è attivato.
Ammiro anche il tuo coraggio.
Non pensavo di reggere questo film, invece ho scoperto subito che si lascia vedere, e quando ho visto Ray mi è venuto subito questo ricordo personale che mi ha fatto capire tante cose.
Da parte mia, non ho nemmeno avuto bisogno del coraggio: è andato tutto bene e non ho nemmeno fatto terapie. E poi quell'anno ho messo giù 10-12 chili, come essere andati alla beauty farm...(dopo li ho ripresi tutti, un chilo alla volta). Però in quel mese ho girato, ho visto, ho parlato con tanta gente, quasi mi vergognavo di stare bene.
Posta un commento