sabato 6 febbraio 2010

Tre donne

Tre donne (Three women, 1977) Scritto e diretto da Robert Altman. Fotografia: Chuck Rosher. Art director: James D. Vance Editor: Dennis Hill. Musica di Gerald Busby . Dipinti: Bodhi Wind. Con Shelley Duvall (Millie), Sissy Spacek (Pinky Rose), Janice Rule (Willie Hart), Robert Fortier (Edgar Hart), Ruth Nelson e John Cromwell (genitori di Rose). Durata: 124 minuti

Guardando “Tre donne” di Altman pensavo a quanti film sull’alienazione e sull’incomunicabilità sono stati fatti in quegli anni (50-80) e a quanto poco se ne parli oggi.
Oggi, cioè nel periodo in cui siamo ridotti a parlare e a dialogare con le segreterie telefoniche (digiti uno digiti due digiti tre), con i bancomat, con le obliteratrici e le emettitrici di biglietti; oggi che la follia e l’incapacità di comunicare sono arrivate a livelli vertiginosi, e anche il consumo di alcol e di droghe è ormai fuori controllo, soprattutto nei giovanissimi – e parlo di qui da noi, mica dell’America. Da noi, negli anni 70 e 80, la droga era ancora un fenomeno riservato a una minoranza esigua e il drogato lo si riconosceva a colpo d’occhio, anche per via dei lividi e degli ematomi intorno alle vene. Oggi molti circolano con l’ipod, le cuffiette nelle orecchie; altri sembrano parlare da soli e invece sono al telefono, ma gesticolano come matti ed è difficilissimo distinguerli da un matto vero. Le cuffiette nelle orecchie, il pc sulle ginocchia, il giochino sul cellulare, la playstation a casa, comunque sia ogni scusa è buona per infilarsi un auricolare nel condotto uditivo e per tagliar fuori il resto del mondo – a buona ragione, del resto (farei così anch’io se solo le cuffiette non mi procurassero fastidio al timpano dell’orecchio). Ma i film sull’incomunicabilità si facevano solo negli anni ’60 e ’80, oggi che servirebbero sono passati di moda. A quei tempi servivano sì e no, ma se ne parlava ed erano di gran moda.
Una volta si poteva dialogare con esseri umani, magari maleducati o incompetenti ma pur sempre umani e fisicamente presenti; oggi se hai un guasto ti tocca il digiti uno digiti due digiti tre, e se vuoi avere un contratto con una compagnia telefonica (o del gas) ti arrivano solo comunicati commerciali (“dai sfogo alla tua voglia di sms!”). Gli esseri umani, da quei posti, sono stati licenziati: costavano troppo – la nostra vita non è che sia migliorata di molto, ma in compenso i produttori di Ferrari e di yacht e di jet privati ed elicotteri se la passano molto bene.
Di queste cose parlava già Robert Altman in “Tre donne”: per esempio, a un certo punto del film c’è una ragazza in coma, ricoverata dopo una grave caduta; alla sua amica e collega arriva una telefonata dei genitori dal Texas, e il suo capo (una donna anche lei) la sgrida perché si è fatta arrivare una telefonata sul lavoro. Anche se il soggetto principale del film non è questo, vediamo bene anche il mobbing, costante fissa e irrinunciabile del nuovo mondo senza ideologie, e l’antipatia e l’indifferenza fra colleghi e vicini di casa. Siamo nel deserto della California, in un posto chiamato Desert Springs: noi il deserto non ce l’avevamo ma ce lo siamo costruiti con infinita pazienza e abnegazione, tra una TAV, una quarta corsia, un polo fieristico, una pedemontana o una statale “che risolverà tutti i problemi del traffico”, e una speculazione edilizia più o meno riuscita in termini economici.
E’ questo il mondo che sognavamo: Altman ce lo mostra con trent’anni di anticipo e adesso è finalmente qui, godiamocelo. Que viva dunque el liberismo, e abbasso l’assistenzialismo che ci rese schiavi ed infelici.

Millie (Shelley Duvall) si è costruita un mondo a sua misura, un mondo dove lei è simpatica e piace. La realtà non è questa, e l’arrivo sul suo posto di lavoro di Pinky (Sissy Spacek) la mette a nudo: Millie parla con tutti, ma nessuno la ascolta. Non è che sia simpatica o antipatica: non esiste, gli altri non la vedono quasi più, la considerano come un accessorio o come un’inutile rompiscatole. Si siede al tavolo della mensa, parla, i medici e gli infermieri del centro dove lavora la sopportano in silenzio; al residence dove abita, saluta tutti cordialmente ma nessuno le risponde. Appena volta l’angolo, nasce su di lei un’occhiata o una battuta maligna. Ma lei si è convinta del contrario, e del resto è giovane, d’aspetto piacevole e ordinatissima, ma il mondo è girato così.
L’altra ragazza (Sissy Spacek) è quasi una bambina e la prende subito in simpatia, come una sorella maggiore; approfitta subito di un suo annuncio in bacheca per condividere con lei l’appartamente dove vive.
Le due lavorano in un centro di riabilitazione per anziani ricchi, a Desert Springs, quasi una caserma, dove Millie è apprezzata perché sa rendersi utile ed è sempre molto precisa. La più giovane si presenta per iniziare a lavorare, viene assunta in prova e messa accanto a Millie, che le dà le prime istruzioni: un lavoro noioso ma piuttosto facile.
L’unica persona che dà retta a Millie e la tratta con simpatia è Edgar Hart, un maturo cowboy che gestisce un bar con annessi tiro a segno e parco divertimenti a tema sul vecchio West, e che è anche il padrone del residence.
Più defilato il ruolo della terza delle “tre donne”, Janice Rule. E’ la moglie di Edgar, incinta, molto chiusa in se stessa, e la vediamo quasi sempre assorta mentre dipinge e decora le pareti della piscina del residence. Sono disegni belli ma inquietanti, uomini lucertola aggressivi, donne anch’esse dipinte come tigri o lucertole: nei titoli di coda sono attribuiti a Bodhi Wind, un nome abbastanza misterioso. Ho fatto una piccola ricerca su internet e l’ho trovato: non sono disegni di una donna ma di un uomo, un giovane biondo dall’aspetto di surfista californiano (o almeno così appariva nel 1977). Il film si apre proprio con una panoramica su questi dipinti, uomini e donne visti come scimmie o come rettili, con denti e artigli affilatissimi.
Altman sembra sempre molto vicino all’horror e al thriller, qui come in Quintet e in Images; ma questi film non sono horror, né thriller. Si può dire che il grande regista americano usa le atmosfere dell’horror per costruire una storia che è invece molto quotidiana: storia di alcol, di solitudine, di lavoro alienante. In USA hanno cominciato prima di noi, a sparare addosso ai familiari e ai datori di lavoro: forse è per questo che li abbiamo imitati nelle norme sul lavoro, per far tirare di più il mercato delle armi anche in Italia.
Il film contiene molte scene divertenti e potrebbe essere volto facilmente al comico: per esempio le bambinate di Sissy Spacek (nemmeno John Belushi, dieci anni dopo, riuscirà a bere una birra in quel modo), Shelley Duvall che si pettina con lo spazzolino da denti, il lembo della gonna di Millie costantemente fuori dalla portiera dell’auto, il cartello “Clean is sexy” nella casa di Millie (“pulito è sexy”), e la tragicomica scena con i due vecchietti che giungono apposta da lontano. Forse viene da qui anche “Thelma e Louise” di Ridley Scott (1990), che essendo più facile e più banale ebbe gran successo di pubblico; però in Altman c’è un lieto fine, che in Thelma e Louise manca. Ma il finale non si racconta: “Tre donne” è un film di quelli che non vanno raccontati, non più di quel tanto. Dirò solo (è una curiosità) che è un cocktail di gamberi (“shrimp”) quello che si rovescia addosso Sissy Spacek, e non pomodoro; e che è davvero strana l’immagine di chiusura del film, un mucchio di pneumatici usati abbandonati in un cortile.
Ancora una volta, un film basato più sulle immagini che sui dialoghi, Grande attenzione agli interni e agli esterni, alla luce naturale e agli oggetti: il rimando a Hopper è d’obbligo.

Mi ha molto colpito la precisione e il realismo con cui Altman gira le scene riguardanti il lavoro, i rapporti con le colleghe e con i superiori: la timbratura del cartellino, la scena del licenziamento. Non so se Altman abbia mai lavorato in fabbrica o in un ufficio, come dipendente, ma queste scene sono di un realismo impressionante, è così che funziona. Notevole il comportamento dei colleghi e dei superiori in queste circostanze: l’atteggiamento di chi volta la faccia e dice, più o meno apertamente, che è un problema tuo, soltanto tuo. Sia ben inteso: loro non c’entrano. Poi si sa come vanno le cose, non sempre voltare le spalle ai colleghi in difficoltà serve a tutelare la propria posizione: ma sono cose che si scoprono solo vivendo. Tra l’altro, essendo questo film girato pochi anni prima del mio ingresso sul lavoro, orologi simili a questo e cartellini simili a questi li ho usati per davvero, e per molti anni: i primi badge magnetici o con il chip sono abbastanza recenti, non più di una quindicina d’anni. Forse in alcune ditte questi orologi e cartellini ci sono ancora, compreso il cartello con la scritta che si timbra in ingresso solo dopo essersi messi gli abiti di lavoro: è la prima cosa che dice il capo alla nuova assunta, e lo dice con una faccia severissima – si sa quanto sono lazzaroni e fannulloni gli impiegati e gli operai...

Molto brava la Duvall, che avrà grandi successi ancora con Altman e con “Shining” di Stanley Kubrick. Con Altman, Shelley Duvall sarà anche l’Olivia di Braccio di Ferro (Popeye è Robin Williams), il che la rende decisamente simpatica, ancora più di quello che è al suo primo apparire. La cosa che colpisce di più è che Shelley Duvall è decisamente sexy, piace molto nonostante i suoi difetti (le cosce magrissime, gli occhi e la bocca da cartone animato), ma poi la cosa non è così strana, la Duvall ha un’eleganza innata, è alta e ben proporzionata.
Notevolissima la Spacek, che sembra due donne diverse. E’ impressionante la trasformazione, anche fisica, tra la Sissy Spacek della prima parte del film e la seconda parte: si passa dalla bambina alla donna, in poche sequenze; ma non c’è trucco e non c’è inganno, quando si è bravi attori queste cose si fanno. Recitazione: quando si dice “grande attore, grande attrice” è a prestazioni come queste che bisogna guardare, e non alla simpatia o alla bellezza fisica. Sissy Spacek e Shelley Duvall sono due grandissime attrici, e lo hanno dimostrato con molti film e ogni volta con registi diversi: mi prostro in ammirazione.
Janice Rule, che io non ricordavo, ha al suo attivo moltissimi film e telefilm; è molto bella ma non è facilmente riconoscibile. Qui ha un ruolo particolare, silenzioso e molto drammatico, che ricopre alla perfezione. Ottimi tutti gli altri attori, con menzione per le due gemelle identiche (che recitano solo in questo film) e per i due divertiti poliziotti che accompagnano Millie a recuperare la sua auto.
Come per “Images”, ho trovato stranissima la scelta del formato per questo film: un Panavision enorme, esagerato, da grandissimo schermo. Chissà che effetto faceva, al cinema: forse a quei tempi non ci si faceva caso, ma di solito i grandi formati Panavision e Cinemascope erano per film di guerra, battaglie spettacolari, Cleopatre e gladiatori, non per le nostre storie quotidiane ma per i nostri sogni e le nostre fantasie.

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