mercoledì 12 gennaio 2011

L'immagine allo specchio

L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (Ansikte mot ansikte (t.l. Faccia a faccia, 1975). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist - Musiche: Wolfgang A. Mozart - Scenografia: Anne Hagegard, Peter Kropenin - Montaggio: Siv Lundgren - Con: Liv Ullmann (dottoressa Jenny Isaksson), Erland Josephson (dottor Tomas Jacobi), Aino Taube (la nonna), Gunnar Björnstrand (il nonno), Sif Ruud (Elisabeth Wankel), Sven Lindberg (marito di Jenny), Tore Segelcke (la signora), Kari Sylwan (Maria), Ulf Johanson (Helmuth Wankel), Gösta Ekman (Mikael Strömberg), Kristina Adolphson (l'infermiera Veronica), Marianne Aminoff (madre di Jenny), Gösta Prüzelius (padre di Jenny), Birger Malmsten & Göran Stangertz (violentatori), Rebecca Pawlo & Lena Olin (ragazze del negozio). - Parte 1: La partenza - Prima: 28/4/1976 TV - Parte 2: Il confine - Prima: 5/5/1976 TV - Parte 3: Il paese del crepuscolo - Prima: 12/5/1976 TV - Parte 4: Il ritorno - Prima: 19/5/1976 TV - Durata: 50 minuti per ogni parte (E’ stata messa insieme una versione cinematografica unica della durata di 135 minuti per gli USA e altre parti del mondo)

“L’immagine allo specchio” viene subito dopo «Il flauto magico», e dopo il grande successo televisivo (mondiale) di “Scene da un matrimonio”. Il titolo originale del film si può tradurre con “Faccia a faccia”: la parola svedese usata nel titolo è “Ansikte”, la stessa che viene tradotta con “Il volto” nel film del 1959.
E’ un film sgradevole e duro, soprattutto all’inizio; e risente molto dei dialoghi “spinti” da film americano anni ’70, il periodo in cui si cominciava a parlare apertamente di sesso e di orgasmi (e che ispirerà molto Woody Allen, nel bene e nel male, ma quasi tutte le commedie e i film drammatici di questi anni). Questo parlare di sesso e di vita di coppia, nei dettagli, è iniziato apertamente negli anni ’70: prima non si faceva. Non ricordo la parola “orgasmo”, soprattutto se riferita ad una donna, pronunciata prima del 1970: in ogni caso, non con la frequenza con cui la si ascolta nei film di questi anni. Forse in Svezia era normale, da noi molto meno: erano gli anni di riviste come “Duepiù”, con gli “inserti chiusi sulla sessualità” (chiusi nel senso che per leggerli bisognava tagliare le pagine a metà, come si faceva nei libri antichi), e cose di questo tipo: può far sorridere, visto da oggi, ma queste riviste (ce ne erano altre, e se ne occupavano molto anche L’Espresso, Panorama, e i settimanali in genere) hanno avuto il merito di informare e di eliminare molta parte di ignoranza anche in materia di semplice anatomia; ogni tanto penso che ce ne sarebbe bisogno ancora oggi, anche se di “preliminari” ormai non se ne parla più e li si danno tranquillamente per scontati (sarà così?).
Tutto questo messo in un film genera disagio, soprattutto visto da oggi, perchè è forte l’impressione che Bergman stia facendo un film “alla moda”, cioè secondo gli stilemi anni ’70, non un suo film ma un mix di “cose che servono per vincere l’oscar” (è una sua battuta, che riporto qui sotto per esteso). Il film è più sincero nelle scene dei sogni e delle visioni (quasi tutta la seconda parte, dai 60’ in poi), ma anche qui si tratta di cose già viste e già affrontate da Bergman; siamo al di sotto anche di “Fanny e Alexander” che verrà dopo. Da questo 1975, come spiega bene lo stesso Bergman nel suo libro “Lanterna magica” (anche con eccesso di particolari, a dire il vero), cominciano i guai del regista svedese con il fisco, che si dilungheranno per molto tempo e che avranno serie ripercussioni anche sulla sua salute, per fortuna poi superate.
E’ dunque un periodo di transizione, da qui in avanti comincia per Bergman un periodo di transizione con film magari non brutti ma poco chiari, con scene di violenza abbastanza gratuite (fuori stile, che sembrano girate per esigenze di mercato più che per vera volontà) e girati non in Svezia ma fra la Germania e gli USA, con produttori come De Laurentiis e non i suoi soliti, eccetera. Sono di questo periodo film come “L’uovo del serpente” e “Un mondo di marionette”; “L’immagine allo specchio viene subito prima, e sembra anticipare la piccola crisi personale di Bergman anche se non mancano momenti interessanti. Curiosamente, è anche uno dei film su cui Bergman più si dilunga in “Immagini”: visto da fuori, da semplice spettatore, si direbbe un film ricco di idee e che gli ha dato molto da pensare, ma che non è riuscito a inquadrare bene
Liv Ullmann vi appare molto bella, quasi radiosa; fa invece tristezza la presenza di Gunnar Björnstrand malato che fa il nonno di Liv: in “Persona”, solo una decina di anni prima, ne era il marito. Anche da malato, e con difficoltà di parola, Björnstrand si conferma comunque un magnifico attore, duettando alla grande con l’anziana e altrettanto brava Aino Taube. Protagonista, a fianco di Liv Ullmann, è ancora una volta Erland Josephson: questa volta in una parte lievemente ambigua, di seduttore vagamente faunesco. Tra le curiosità, nel cast ci sono anche Birger Malmsten, che è uno dei violentatori e che fu protagonista nei primi film di Bergman, la bambina Nina Harte che si vede nell’ouverture del Flauto Magico e che qui è la figlia di Liv Ullmann. Käbi Laretei, la pianista che suona Mozart al concerto, è stata una delle tante mogli e compagne di vita di Ingmar Bergman. Kari Sylwan interpreta Maria, la giovane handicappata assistita dalla protagonista: la vediamo subito nelle primissime sequenze. Ha una piccola parte anche Lena Olin, all’epoca sedicenne (è alla festa dove si conoscono Liv Ullmann ed Erland Josephson).
"E’ sufficiente uno sforzo di volontà perché tutta rimanga come al solito” dice Liv Ullmann al minuto 41, dopo il tentato stupro: uno stupro vero o una fantasia? Qui si rimanda ancora a “Persona” , o magari ad “Images” di Robert Altman (1972), che con Bergman ha molto in comune, in questi anni. Ma la sequenza dello stupro è una delle peggiori del film, girata con poca convinzione e con uno stile da telefilm poliziesco, e non si direbbe girata da Bergman e da Nykvyst.
Notevolissime invece, soprattutto nella seconda parte, le sequenze delle visioni e dei sogni: l’apparizione del fantasma della vecchia, all’inizio, e le molte visioni “sulla soglia” della protagonista quando rimane fra la vita e la morte. In particolare, è qui che Bergman ci mostra nel dettaglio (per due volte) la visione raccontata da Harriet Andersson in “Come in uno specchio”: i “fantasmi” in attesa al di là del muro, un muro permeabile che si può oltrepassare, in attesa di Qualcuno che li verrà a riscattare o a condannare. Ma è un’attesa lenta, grigia, noiosa, implacabile.
Ingmar Bergman, da “Immagini”:
Scrivo anche che non vedo l'ora di incominciare le riprese del Flauto magico, che sono imminenti. «Vediamo se sarò dello stesso parere a luglio».
Dal punto di vista puramente tecnico c'è dunque la piacevole idea di costruire un'unica e singolare stanza nello studio a Dämba e in tal modo, attraverso diverse trasformazioni di persone che si muovono là dentro, rappresentare il passato. C'è, poi, la persona misteriosa situata dietro la tappezzeria dell'altra stanza. E’ lei che influenza lo sviluppo e ciò che succede in quel momento. Lei, che si trova là e che, tuttavia, non c'è! Era un pensiero che mi portavo dentro da tempo: dietro la parete o la tappezzeria avrebbe dovuto trovarsi una potente creatura bisessuale che avrebbe dovuto dirigere ciò che succedeva nella stanza magica.
A quel tempo c'era ancora il piccolo studio a Dämba, dove avevamo girato Scene da un matrimonio. Era proprio bello e pratico. Abitammo e lavorammo a Farö. E minimizzare, semplificare, è sempre stato per me uno stimolo. Così mi immaginai che avremmo dovuto realizzare tutto il film dentro lo spazio estremamente limitato dello studio.
Poi nell'agenda di lavoro non c'è scritto più niente fino al 1 ° luglio: «Ora le riprese del Flauto magico sono terminate. E stato un periodo della mia vita piuttosto particolare. Allegria e vicinanza alla musica ogni giorno! Ho incontrato tanto affetto e tenerezza.»
Era come se non sentissi quanto tutto ciò fosse pesante e complicato, a parte un raffreddore che mi ero preso; anzi, esso era diventato per me una nevrosi. Incupì la mia esistenza, e talvolta credevo di non essere del tutto sano di mente.
Di ritorno a Farö comincio cautamente ad abbozzare “L’immagine allo specchio” (...)
In seguito ho la sensazione improvvisa che tutto sia una mascherata. Scrivo il 25 settembre:
«E’ questa un'incertezza e una confusione più grande di qualsiasi altra, oppure ho dimenticato soltanto come in genere vanno le cose? È chiaro che ci sono moltissimi punti di vista che non c'entrano, che si mescolano nel ragionamento, punti di vista di cui non voglio fare neppure il resoconto, perché sono imbarazzanti.
Comincio lentamente a capire che, grazie a questo film, la cui sceneggiatura mi oppone una cocciuta resistenza, finisco per imbattermi in difficili complicazioni del mio io. La mia avversione a “L'immagine allo specchio” dipende probabilmente dal fatto che tocco in modo superficiale una quantità di complicazioni intime senza coglierle o metterle a nudo. Nello stesso tempo ho liquidato qualcosa di importante, fallendo. Ci sono andato vicino in una maniera dolorosa. Ho compiuto uno sforzo gigantesco per portare alla luce del giorno una complicazione. Una cosa è sedersi alle prese con una sceneggiatura, da soli, con carta, penna, e tempo; è completamente un'altra, quando si sta là con tutto quanto il grande macchinario.
All'improvviso viene il film così come avrebbe dovuto essere (...)
Se avessi avuto l'esperienza che ho oggi, ma con l'energia di allora, avrei tradotto quel materiale in soluzioni praticamente realizzabili e non avrei avuto un attimo di dubbio. Ne avrei tratto un componimento cinematografico impeccabile.
Per me non si tratta di una continuazione sulla linea di “Sussurri e grida”. E’ lontanissimo da “Sussurri e grida”. Qui, finalmente, tutte le forme di narrazione vengono dissolte. Là, invece, il treno delle sceneggiature procede sbuffando e il racconto si realizza. La prima metà si presenta più o meno cementata. L'unica cosa che rimane è la donna cieca da un occhio.
5 ottobre: «Potevo lamentarmi in eterno della voglia, della malavoglia, delle difficoltà, delle contrarietà, della noia, ma non l'ho fatto. Credo di non essere mai stato così svogliato e incerto come questa volta! Forse sono a contatto con un dolore che vuole uscire. Da dove viene e in che cosa consiste? C'è un solo uomo al mondo che stia bene come me?»
La noia e il disgusto dipendono naturalmente dal fatto che ho tradito la mia idea e vado saltellando su pericolosi lastroni di ghiaccio. (...)
Poi venne il periodo della rappresentazione della Dodicesima notte al teatro Dramaten. 1° marzo 1975: «Sono tornato a Farö il venerdì. La prima della Dodicesima notte è andata molto bene, e la critica ha avuto parole grandiose. Il periodo delle prove è passato molto in fretta. È stata come una vera festa. Con L'immagine allo specchio non mi sono impegnato sempre con lo zelo dovuto, all'infuori della cosa più necessaria. Scriverò soprattutto dei sogni.»
Lunedì 21 aprile: «Oggi è l'ultimo giorno a Farö. Domani partiamo per Stoccolma e il prossimo lunedì cominceremo a girare. Ci si sente bene, a parte la solita ansia. Si ha la sensazione che ne verrà persino qualcosa di divertente, e di un po' provocatorio. Voglia, dunque. Quella terribile depressione seguita alla sceneggiatura se n'è completamente andata. Era come una malattia. Il viaggio negli Stati Uniti è stato stimolante. Inoltre era opportuno per le nostre finanze. Possiamo attendere il futuro con sicurezza.»
1 ° luglio: «Sono ritornato or ora a Farö, dopo aver finito di girare il film. In realtà tutto è andato terribilmente in fretta. All'improvviso eravamo a mezza strada, all'improvviso mancavano ancora cinque giorni, all'improvviso era finito e ce ne stavamo tutti insieme, al Stallmästaregarden, a una festa, con discorsi, sigari, malinconia e sentimenti confusi. Non so molto bene come sia andata. Con Il flauto magico sapevamo tutti che era andata bene. Non so niente. Alla fine ero molto stanco. Ora comunque tutto è passato. Liv mi ha domandato cosa ne pensassi. Ho risposto che non era poco, quel che era avvenuto.»
Quando eravamo negli Stati Uniti, Dino De Laurentiis mi domandò: « Perché non fai qualcosa che potrebbe interessarmi? ». Allora mi uscì di dire: «Faccio un thriller psicologico sul crollo di un individuo e sui suoi sogni». «Sembra magnifico», disse lui. Così stipulammo il contratto.
Dovrebbe essere un periodo felice della mia vita. Alle mie spalle, avevo Il flauto magico, Scene da un matrimonio e Sussurri e grida. Anche in teatro avevo successo. La nostra piccola azienda produceva film di altri registi e i soldi arrivavano. Era proprio il momento giusto per impegnarsi in un'impresa difficile. La fiducia in me stesso come artista era al culmine. Potevo fare ciò che volevo e chiunque era pronto a finanziare le mie fatiche. Durante le riprese di L'immagine allo specchio erano tutti entusiasti, e questo era molto importante. Nessuno si preoccupava del fatto che io continuassi a rimescolare dei sogni, che li cambiassi e li spostassi. Misi in scena persino la mia vecchia «incisione» del Fridell con la neve sui mobili e la ragazzina che stava con la candela a illuminare il terribile Clown.
Oggi trovo ancora apprezzabili due brevi sequenze di sogno. La prima è quella in cui la Signora senza un occhio si avvicina a Jenny e le accarezza i capelli. L'altra, che perlomeno è ben pensata, è quella del breve incontro di Jenny con i genitori, ai quali è capitato un incidente di macchina. Questa è abbastanza buona dal punto di vista della messinscena. I due vecchi si trascinano carponi dietro la stufa di maiolica, e cominciano a piangere quando Jenny li rimprovera. Tuttavia la scena è errata dal punto di vista della regia per questa ragione: Jenny avrebbe dovuto star calma, invece di comportarsi alla stessa stregua dei genitori. Allora non lo capii. Qui c'è un'atmosfera di sogno molto concreta.
Tutto il resto è faticoso. Continuo a vagolare proprio in ciò da cui, nell'introduzione della sceneggiatura, dico che occorre stare in guardia, un paesaggio da cliché. (...)
Eppure, in questo stesso sforzo c'è una base di verità. La nonna può aver avuto due facce.
Della mia prima infanzia ricordo una conversazione piena d'odio tra la nonna e mio padre, che ascoltai da un'altra stanza. Loro sedevano a tavola bevendo del tè, e all'improvviso la nonna parlò con un tono che non avevo mai udito. Ricordo che mi spaventai: la nonna aveva un'altra voce.
Di questo ho un vago ricordo. La nonna di Jenny doveva apparire all'improvviso nei giorni terribili e poi, al rientro a casa, diventare una piccola e triste vecchina.
Dino De Laurentiis era entusiasta del film, che in America ebbe buone recensioni. Si può dire che esso mise in mostra qualcosa di nuovo, mai tentato prima.
Quando ora rivedo “L'immagine allo specchio”, mi viene in mente una vecchia farsa con Bob Hope, Bing Crosby e Dorothy Lamour, dal titolo Avventura in Marocco. Sono dei naufraghi che giungono, mantenendosi a galla su una zattera, davanti a una New York proiettata sullo sfondo. Nella scena finale Bob Hope si lascia improvvisamente cadere in acqua, cominciando a gridare e a riempirsi la bocca di schiuma. Gli altri lo guardano stupiti e gli domandano che cosa stia facendo. Lui si calma subito e dice: « È così che si deve fare per avere l'Oscar». Ogni volta che vedo L'immagine allo specchio e la fantastica e sincera esibizione di Liv, non posso fare a meno di pensare ad Avventura in Marocco.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti, pag.58 e seguenti)
(le immagini vengono dal sito "bergmanorama" e dal libro di Bergman "Immagini" ed.Garzanti)



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