martedì 20 marzo 2012

Strategia del ragno ( II )

Strategia del ragno (1970). Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un racconto di Jorge Luis Borges. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Marilù Parolini, Edoardo De Gregorio. Fotografia di Vittorio Storaro e Franco Di Giacomo. Scene e costumi di Maria Paola Maino. Musiche di Giuseppe Verdi (Attila, Un ballo in maschera, Trovatore, Rigoletto), canzoni, musiche da ballo. Interpreti: Giulio Brogi, Alida Valli, Pippo Campanini, Tino Scotti, Franco Giovannelli, e brevi apparizioni di Allen Midgette e Giuseppe Bertolucci. Durata: 90'

Per quanto mi riguarda, non riesco a guardare “Strategia del ragno” senza diventare sentimentale, senza provare nostalgia. Nel 1970 ero già abbastanza grande per ricordare, di questo film sono contemporaneo, a Parma e dintorni c’ero anch’io, nel 1970. E’ la nostalgia dei nonni e degli zii, della gente, dei vecchi e della campagna di Parma: conosco anch’io quel caldo, quella luce particolare. Questi sono dettagli che sfuggono a chi è cresciuto altrove, e so che spesso si rimprovera a chi è di Parma di parlare troppo di queste cose, ma penso che sia come per chi è cresciuto sul mare, o in montagna: sono cose che ti rimangono dentro.
Per esempio, la luce che si vede in “Strategia del ragno” è luce naturale: se ci si fa caso, non c’è asfalto e nemmeno cemento, le case sono di pietra e di mattoni, i muretti sono fatti di sassi e malta, tutto intorno ci sono campi coltivati. Ma ormai, nel 2012, anche Parma è diventata come Milano, i vecchi (belli e un po’ matti) che si vedono nel film sono una specie in estinzione, e non so quanti bambini perdano il loro tempo a giocare con i conigli, come il bambino che si vede nel film: per me era una scena comune, i miei cugini e i loro vicini di casa avevano molta confidenza con gli animali da cortile.
Potrei continuare: il bicchiere di vino bianco (che si vedrà bene anche in “La tragedia di un uomo ridicolo”), un vino bianco leggermente torbido, vino novello di bassa gradazione alcolica, l’ho bevuto anch’io e me lo ricordo ancora: un ricordo meraviglioso, quel vino lo faceva uno zio di mia mamma, 'l zio Giovanòn (la “z” è una via di mezzo con la “s”, impossibile riprodurla se non si è di quelle parti), lo facevano un po’ tutti ed era buona abitudine offrirne un bicchiere a chi capitava in casa, magari con qualche fetta di salame.
Ma qui mi conviene fare una pausa, tirare un sospiro e tornare al film, dire qualcosa di asettico del tipo “è un preludio a Novecento”, e poi tirare diritto fino alla fine, mettendo in fila ordinata gli appunti che mi sono preso in questi anni.
Come si è detto nel primo post, Bertolucci è fedelissimo al racconto di Borges: le due variazioni principali sono lo spostamento nella campagna emiliana e l’ambientazione ai tempi del fascismo. Bertolucci mantiene l’origine irlandese della storia raccontata utilizzando il toponimo Tara, molto frequente in Irlanda (“The harp that once / through Tara's Hall / the soul of music shed...”è il primo verso di una delle canzoni più amate dagli irlandesi, e non solo).
Il fatto all’origine del racconto viene spostato al 1936, ed è l’uccisione da parte dei fascisti di Athos Magnani. Quando il figlio, nel 1970, torna al paese del padre, trova che tutto è stato intestato alla memoria di Athos Magnani: piazze, scuole, circoli, perfino un monumento. Ma c’è qualcosa che non torna nella storia dell’omicidio, non si è mai saputo chi abbia effettivamente ucciso suo padre, troppi particolari sembrano di origine letteraria, per uno che ha studiato ascoltando quei racconti celebrativi, ripetuti infinite volte e da tutti presi per veri, è inevitabile pensare al Giulio Cesare, al Macbeth, al Ballo in maschera di Verdi... Troppi dettagli suonano strani, a uno che ha studiato e che viene da fuori; in paese invece questa storia piace, ed è stata sempre presa per vera.
E dunque il film comincia con l’arrivo in paese, in treno, di Athos Magnani, stesso nome padre e figlio, “uguale uguale a suo padre” come gli dicono tutti in paese. Nel film si dice brevemente che il giovane Magnani (un cognome molto comune in Emilia) è un personaggio noto, visto in tv, non viene specificato se attore o giornalista. E’ stato lontano dal paese, ora ritorna per una celebrazione di suo padre, chiamato dalla sua antica innamorata: non la moglie e la madre dei suoi figli, ma “amante ufficiale” come dice lei stessa, quasi un titolo di merito. In paese glielo dicono ancora, con ammirazione: “per loro è come se fosse ieri”.
Il giovane Athos è interpretato da Giulio Brogi, un attore che ha fatto molti film importanti in quegli anni e che poi si è dedicato quasi soltanto al teatro: si possono ricordare i film con i fratelli Taviani (“San Michele aveva un gallo”), il grande successo popolare con l’Eneide in tv, e molto altro ancora. La donna è interpretata da Alida Valli, ancora molto bella, grande attrice, perfetta per il ruolo; il suo personaggio si chiama Dràifa (dal nome dell’ufficiale francese Dreyfuss, come ricorda lei stessa), un nome che può sembrare strano ma che certamente è reale perché tra l’Emilia e la Romagna i nomi di battesimo strani abbondano. Alida Valli è stata un’attrice importante per tutta la sua carriera, dagli anni ’30 fino ai suoi ottant’anni, lavorando sempre e sempre con ottimi risultati: un monito per tutte quelle attrici che si lamentano perché dopo i quaranta non le chiama più nessuno. Alida Valli è stata una donna bellissima, ma si è resa conto (come Katharine Hepburn, come Meryl Streep, e come molte altre) che sulla bellezza non si può basare una carriera cinematografica; bisogna saper accettare ruoli adatti in ogni momento della vita. Questo di Draifa è un ruolo molto bello, ed è magnificamente interpretato.
L’altra cosa importante da dire su “Strategia del ragno” è che la storia raccontata è solo una parte del film, altrettanto importante è il non detto. Quando uscì il film, così come per “Allonsanfan” dei Taviani, ci furono diverse polemiche: il ruolo dell’antifascismo, per esempio, così come i discorsi dei congiurati del Risorgimento in Allonsanfan, furono visti come molto riduttivi, e anche offensivi. C’è qualcosa di vero, ma qui si tratta di storie personali e, soprattutto, non solo non è affatto in questione l’antifascismo (da Bertolucci, figuriamoci!) ma qui si tratta di tutt’altra questione, e non bisogna limitarsi alla superficie delle cose.
Per esempio, la questione del Tempo. Il protagonista arriva in paese e vorrebbe starci poco, deve partire subito, vuole partire subito, invece resta o è costretto a restare, “ho un treno adesso” ho un treno domani alle 9.35”, ma poi a partire non ci riesce proprio, è come se il tempo fosse diventato immobile, come se tutto fosse fermo a quel 1936 in cui morì suo padre. E’ particolarmente inquietante il finale, un binario arrugginito e coperto d’erba che non porta a niente, il treno per Parma in ritardo, niente giornali di oggi, non sono arrivati, “a volte si dimenticano di noi, come se non esistessimo”; è un paese dove ci sono solo vecchi e bambini, dove il Tempo è immobile, dove non è possibile andare via, dove il figlio è “uguale uguale al padre”, così uguale che lo si vorrebbe vedere come se fosse la stessa persona, come se rendersi conto che si tratta di un altro comportasse il dover ammettere che invece il Tempo è passato davvero, che si è mosso, e che qui sono diventati tutti vecchi. A me personalmente dà un brivido l’immagine finale dei tre uomini in canottiera che spingono con dei pali un carrello sulla ferrovia, come se fossero una via di mezzo fra Caronte e le Parche.
Nel finale, dopo i binari, tra l’erba, l’ultima inquadratura è per la tana di qualche animale; un finale che rimanda alla talpa di “Novecento”.
Per capire il discorso che ho fatto (è solo un abbozzo, di più non so fare) bisognerebbe rileggersi Borges (non solo questo racconto, ma anche altri, magari “Il giardino dei sentieri che si biforcano”),
o magari il tè dal Cappellaio Matto di Lewis Carroll (capitolo 7 da “Alice nel Paese delle Meraviglie”), o ancora Joseph Conrad, “Al limite estremo”, un’altra storia di stallo e di rapporti col padre (col capitano che l’aveva preceduto nel comando...). In “Strategia del ragno” c’è anche qualcosa di Raul Ruiz, che però nel 1970 faceva film diversi e abitava ancora in Cile.
(continua)

Strategia del ragno ( III )

Strategia del ragno (1970). Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un racconto di Jorge Luis Borges. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Marilù Parolini, Edoardo De Gregorio. Fotografia di Vittorio Storaro e Franco Di Giacomo. Scene e costumi di Maria Paola Maino. Musiche di Giuseppe Verdi (Attila, Un ballo in maschera, Trovatore, Rigoletto), canzoni, musiche da ballo. Interpreti: Giulio Brogi, Alida Valli, Pippo Campanini, Tino Scotti, Franco Giovannelli, e brevi apparizioni di Allen Midgette e Giuseppe Bertolucci. Durata: 90'

Il film si apre con i dipinti di Antonio Ligabue (1899-1965), che si può definire “pittore naif”: ma è una definizione molto sbrigativa e riduttiva. I dipinti di Ligabue colpiscono subito, non si dimenticano; e colpisce anche la storia personale del pittore, un “matto” innocuo di quelli di una volta, il matto del paese, sul tipo di quelli descritti da Fellini nei “Clowns”, e nel contempo un grande pittore, personalissimo, che non viene da nessuna scuola. La presenza degli animali, e delle bestie feroci, è per Ligabue una costante; nel film, la presenza del leone è parte della storia, un leone fuggito da un circo che si dice sia stato cotto e mangiato, ma anche questa forse è solo una leggenda. Personalmente (sono tutti pareri miei personali) trovo che iniziare il film con i dipinti di Ligabue sia un’ottima idea, che Ligabue sia molto meglio del Bacon di Ultimo tango, e che il film ha una decisa attinenza con i quadri di Ligabue, che cosa di preciso non saprei dire ma la somiglianza (una “tinta” verdiana) c’è di sicuro. E poi c’è la musica, che parte subito, fin dai titoli di testa, e che rivendica subito la sua importanza.
Come sempre in Bertolucci, anche per “Strategia del ragno” la musica ha una parte importante; e nel finale, è in teatro, sulle note del Rigoletto, che si compie il dramma. I titoli di coda sono però un po’ troppo sbrigativi, e non c’è l’elenco completo delle musiche che si ascoltano e mi sono dovuto un po’ arrangiare.
Gran parte delle musiche che si ascoltano sono di Verdi: il preludio dall’opera “Attila”(1846) accompagna la prima parte del film; nel finale, molti brani dal Rigoletto (1851), il preludio, “Questa o quella”, il finale. L’incisione del Rigoletto è probabilmente quella con protagonisti il baritono Riccardo Stracciari e il tenore Dino Borgioli, molto bella, del 1930; però nel finale non è indicato con precisione, c’è scritto solo che è un disco EMI, quindi “La voce del padrone”, il che concorda con la mia ipotesi. Altre musiche verdiane del film: il “Miserere” dal Trovatore, un po’ cantato e un po’ storpiato da Pippo Campanini, introduce e accompagna il leone da mangiare (detto en passant, Carmelo Bene mangiò veramente un leone, anzi due, in “Storie dell’anno mille”, sceneggiato tv più o meno contemporaneo di “Strategia del ragno”: e senza nemmeno cuocerli). Molte citazioni da “Un ballo in maschera”, fin dall’inizio, per i congiurati, e per l’atmosfera complessiva che ricorda molto l’opera verdiana. Si ascolta brevemente anche l’aria del baritono, “Eri tu”, come al solito intonata da Pippo Campanini che non è propriamente un cantante ma che “ha studiato da manzuolo”, come specifica lui stesso ridendo in una scena del film.
In alcuni momenti si ascolta una musica che mi sembra Mahler o Bruckner, come in Visconti, come in “Senso”, ma bisognerebbe riascoltare con calma. Molte sono le canzoni contadine e partigiane, mentre “Come un fior /sfiorirò /senza te”, la canta Mina, non è una canzone degli anni ’30 ma – come spiegano bene i titoli di coda, stavolta precisi - è firmata da Mina e da Augusto Martelli e si intitola (guarda caso) “Il conformista”. Le musiche per banda sono eseguite dal Concerto Cantoni di Colorno, che tornerà ancora in Novecento e in altri film di Bertolucci; qui vengono suonate Usignolo, Germana e Giovinezza, quest’ultima solo per obbligo e virata al valzer da ballo liscio.
Devo dire che queste musiche per banda non mi lasciano mai indifferente, forse è l’uso che ne fa Bertolucci, ma sia nei titoli di testa che nel finale (per tacere delle scene di ballo in Novecento) mi fanno veramente venire i brividi, come se anch’esse andassero ad attingere a qualcosa di subliminale.
Gli attori: oltre a Brogi e ad Alida Valli, si tratta quasi sempre di attori occasionali, non professionisti, con l’eccezione di Tino Scotti, grande caratterista, comico molto divertente e molto popolare in quegli anni, un volto che rivedo sempre con grande piacere. Scotti fa parte del “trio dei congiurati”: gli altri due sono Franco Giovannelli e Pippo Campanini. Di Giovannelli non so molto, ma so che Pippo Campanini è un amico di famiglia dei Bertolucci, e comparirà ancora in altri due film successivi: in Novecento sarà un prete, in “La Luna” sarà un oste. A me piace molto la scena del culatello (e successiva busecca) perché anche qui si va a pescare nei miei ricordi personali: quello che si vede maneggiare dal Campanini è un osso appuntito, che non è parente di quello di “L’ultima onda” (gli aborigeni di Peter Weir) ma serve invece per sondare i prosciutti e i salumi in genere. L’osso (di cavallo, se non ricordo male: un osso particolare) va inserito in una venatura e poi annusato, proprio come si vede nel film, per verificare che la stagionatura proceda bene. Anche il fatto che i salumi siano appesi al soffitto (con le pareti lisce, che non ci si arrampichino i topi) è un altro dei miei ricordi personali: in questo modo rimangono asciutti e non prendono muffe. Vedendo questa sequenza, per me è inevitabile pensare ai miei zii, uno in particolare, che a Pippo Campanini non somigliavano molto, ma che avevano lo stesso modo di maneggiare i salumi, con affetto e con competenza. Il sorghén che viene nominato da Pippo Campanini è il topo, il sorcio (e il cattivo odore in generale, odore di roba che sta andando a male); la busecca che si mangiano dopo è ovviamente la trippa. Mi è molto familiare anche quel che segue, quando Giulio Brogi è costretto a mangiare anche dopo aver già mangiato: non valgono scuse, anche se scuse non sono quando ti invitano devi mangiare, “guarda che se non mangi mi offendo” (un bel ricordo anche questo).
In locandina manca il nome dell’interprete del proprietario terriero che fu nemico di Athos Magnani senior, e non l’ho trovato da nessuna parte; ho però scoperto che il marinaio che si intravede all’inizio è Allen Midgette, già visto in “La commare secca” e in “Prima della rivoluzione”, e che sarà poi il vagabondo in “Novecento”; e che il futuro regista Giuseppe Bertolucci è uno dei portatori del vassoio con il leone.
Sempre dai titoli di testa apprendo che al film ha partecipato anche Giuseppe Lanci, “operatore di macchina”: una dozzina d’anni dopo sarà l’artefice del miracolo della fotografia di “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij. Nei titoli di coda c’è anche il nome di Cesare Zavattini, ma solo come autore dei testi del libro su Ligabue edito da FM Ricci nel 1967 (quindi appena pubblicato).
Sarebbe interessante anche sapere qualcosa sui due bambini del film, quello che recita la Cavallina storna di Pascoli e la ragazzina col cappello a tesa larga che viene sorpresa da Brogi mentre si tinge le unghie: “ma che razza di bambino sei?”.
Molti i film che vengono in mente guardando “Strategia del ragno”, spesso citazioni vere e proprie: lo sguardo di Alida Valli nel viale, nella scena in cui ha l’ombrello bianco, rimanda direttamente al finale di “Il terzo uomo” dove lei era la protagonista con Orson Welles e Joseph Cotten; il precedente film di Bertolucci, “Partner”, per i colori e per le sequenze di sogno o visione, e infine “L’uomo che sapeva troppo” di Alfred Hitchcock, con Doris Day, per il colpo di pistola da tirare durante gli applausi o un pieno orchestrale: qui è “la maledizione” dal Rigoletto di Verdi, il finale dell’opera.
Il teatro non sembra essere quello di Sabbioneta (foto in alto), somiglia piuttosto a quello di Casalmaggiore (foto qui sopra), ma anche qui non ho trovato indicazioni precise. Sabbioneta è un luogo monteverdiano, il teatro è seicentesco e tutta la città è da vedere; si tratta di un luogo molto vicino al paese di mia mamma e dei miei nonni, basta solo attraversare un ponte. Sabbioneta è infatti burocraticamente in provincia di Mantova, ma dal paese di mia mamma è davvero un tiro di schioppo, e lì è provincia di Parma; ma che sia Mantova o Parma, di là o di qua dal Po, o magari Cremona, che importa, qui non è mica Lombardia, i confini se li sono inventati i burocrati, Milano è lontana, un po’ dopo Piacenza, come si dice nel film.
Mi segnerei ancora queste cose: la stazione, perché oggi non si potrebbe più girare una scena come questa (le stazioni piccole sono state tutte chiuse da una dirigenza ferroviaria ottusa e perversa), la meraviglia della presa diretta (raramente così bella e ben fatta), e il fatto che si tratti di una coproduzione RAI: la RAI è stata davvero una grande risorsa per l’Italia, almeno fino alla metà degli anni ’90. Poi, anche qui, è cambiato il vento, sono stati cambiati i dirigenti.
Ed infine, non ho capito bene il senso del titolo, ma mi sembra comunque molto appropriato (il perché sia appropriato, però, non chiedetelo a me).

Strategia del ragno ( I )

Strategia del ragno (1970). Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un racconto di Jorge Luis Borges. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Marilù Parolini, Edoardo De Gregorio. Fotografia di Vittorio Storaro e Franco Di Giacomo. Scene e costumi di Maria Paola Maino. Musiche di Giuseppe Verdi (Attila, Un ballo in maschera, Trovatore, Rigoletto), canzoni, musiche da ballo. Interpreti: Giulio Brogi, Alida Valli, Pippo Campanini, Tino Scotti, Franco Giovannelli, e brevi apparizioni di Allen Midgette e Giuseppe Bertolucci. Durata: 90 minuti

“Strategia del ragno” è tratto da un racconto di Borges, questo:
Jorge Luis Borges (da “Finzioni”)
TEMA DEL TRADITORE E DELL'EROE
So the Platonic Year
whirls out new right and wrong.
Whirls in the old instead;
all men are dancers and their tread
goes to the barbarous clangour of a gong.
(W. B. Yeats, the tower).
Sotto la nota influenza di Chesterton (inventore ed esornatore di eleganti misteri) e del consigliere aulico Leibniz (che inventò l'armonia prestabilita), ho immaginato questo tema, che forse scriverò e che già in qualche modo mi giustifica, nei pomeriggi inutili. Mancano dettagli, rettifiche, messe a punto; vi sono zone di questa storia che non mi sono state ancora rivelate; oggi, 3 gennaio 1944, l'intravedo cosí. L'azione si svolge in un paese oppresso e tenace: Polonia, Irlanda, la repubblica di Venezia, un qualche stato sudamericano o balcanico... O meglio: l'azione si svolse; poiché, sebbene il narratore sia contemporaneo, il tempo della sua storia è la metà o il principio del secolo XIX.
Diciamo (per comodità narrativa) l'Irlanda. Diciamo il 1824. Il narratore si chiama Ryan. È bisnipote del giovane, dell'eroico, del bello, dell'assassinato Fergus Kilpatrick, la cui tomba fu misteriosamente violata, il cui nome illustra i versi di Browning e di Hugo, la cui statua domina una collina grigia tra rosse paludi. Kilpatrick fu un cospiratore; un segreto e glorioso capitano di cospiratori; come Mosè, che dalla terra di Moab avvistò la terra promessa, e non poté calcarla, Kilpatrick perí alla vigilia della rivolta vittoriosa che aveva premeditata e sognata.
S'avvicina la data del primo centenario della sua morte; le circostanze del delitto sono enigmatiche; Ryan, che sta lavorando a una biografia dell'eroe, scopre che l'enigma non è puramente poliziesco. Kilpatrick fu assassinato in un teatro; la polizia britannica non trovò mai l'uccisore; gli storici affermano che questo insuccesso non intacca la buona reputazione della polizia, poiché fu questa stessa, probabilmente, a farlo uccidere.
Altri aspetti dell'enigma inquietano Ryan. Sono di carattere ciclico: sembrano ripetere o combinare fatti di regioni remote, di remote età. Si sa, per esempio, che gli sbirri che esaminarono il cadavere dell'eroe, trovarono una lettera chiusa che avvertiva Kilpatrick del pericolo che avrebbe corso andando a teatro quella sera; anche Giulio Cesare, mentre stava avviandosi al luogo dove l'attendevano i pugnali dei suoi amici, ricevette un biglietto, che non poté leggere, in cui gli si scopriva il tradimento, con i nomi dei traditori. La moglie di Cesare, Calpurnia, vide rovinare in sogno una torre che il Senato aveva decretato al marito; voci false e anonime, la vigilia della morte di Kilpatrick, annunciarono a tutto il paese l'incendio della torre circolare di Kilgarvan, ciò che poté sembrare un presagio, poiché colui era nato a Kilgarvan.
Questi parallelismi (e altri) della storia di Cesare con quella di un cospiratore irlandese, inducono Ryan a supporre una segreta forma del tempo, un disegno le cui linee si ripetono. Pensa alla storia decimale che ideò Condorcet; alle morfologie che proposero Hegel, Spengler e Vico; agli uomini di Esiodo, che degenerano dall'oro al ferro. Pensa alla trasmigrazione delle anime, dottrina che fa l'orrore della letteratura celtica e che lo stesso Cesare attribuí ai druidi britannici; pensa che prima d'essere Fergus Kilpatrick, Fergus Kilpatrick fu Giulio Cesare. Da questi labirinti circolari lo salva una curiosa scoperta, una scoperta che poi l'inabissa in altri labirinti ancor piú inestricabili ed eterogenei: certe parole che un mendicante scambiò con Fergus Kilpatrick il giorno della morte di quest'ultimo, furono prefigurate da Shakespeare nella tragedia di Macbeth.
Che la storia avesse copiato la storia era già abbastanza stupefacente; che la storia copi la letteratura, è inconcepibile... Ryan accerta che nel 1814 James Alexander Nolan, il piú antico dei compagni dell'eroe, aveva tradotto in gaelico i principali drammi di Shakespeare, tra cui il Giulio Cesare. Scopre anche negli archivi un articolo manoscritto di Nolan sui Festspiele svizzeri: vaste ed erranti rappresentazioni teatrali che richiedono migliaia di attori e che reiterano episodi storici nelle stesse città e montagne in cui occorsero. Un altro documento inedito gli rivela che, pochi giorni prima della fine, Kilpatrick, presiedendo l'ultimo consiglio, aveva firmato la sentenza di morte d'un traditore il cui nome è stato cancellato.
Una simile condanna non è nelle abitudini compassionevoli di Kilpatrick. Ryan ne indaga le ragioni (questa indagine è una delle lacune della storia) e riesce a decifrare l'enigma. Kilpatrick fu ucciso in un teatro, ma di teatro gli serví anche l'intera città, e gli attori furono legione, e il dramma coronato dalla sua morte occupò molti giorni e molte notti. Ecco che cosa avvenne:
Il 2 agosto 1824 i cospiratori si riunirono. Il paese era maturo per la rivolta; qualcosa, tuttavia, mancava sempre; c'era un traditore nel consiglio. Fergus Kilpatrick aveva incaricato James Nolan di scoprire questo traditore. Nolan eseguí il compito: annunciò in pieno consiglio che il traditore era lo stesso Kilpatrick. Dimostrò con prove irrefutabili la verità dell'accusa; i congiurati condannarono a morte il loro presidente. Questi firmò la sua propria condanna, ma implorò che il suo castigo non pregiudicasse la patria.
Allora Nolan concepí uno strano progetto. L'Irlanda idolatrava Kilpatrick; il piú tenue sospetto della sua viltà avrebbe compromesso la rivolta; Nolan propose un piano che fece dell'esecuzione del traditore uno strumento per l’emancipazione della patria. Suggerí che il condannato morisse per mano di un assassino sconosciuto, in circostanze particolarmente drammatiche, che si scolpissero nell'immaginazíone popolare e affrettassero la rivolta. Kilpatrick giurò di collaborare a questo progetto, che gli offriva l'occasione di redimersi e che avrebbe sigillato la sua vita.
Nolan, pressato dal tempo, non seppe inventare interamente le circostanze di quell'esecuzione dai molti aspetti; dovette plagiare un altro drammaturgo, il nemico inglese William Shakespeare. Ripeté scene del Macbeth, del Giulio Cesare. La pubblica e segreta rappresentazione occupò vari giorni. Il condannato entrò a Dublino, discusse, operò, pregò, riprovò, pronunciò parole patetiche, e ciascuno di questi atti, che ne avrebbe aumentato la gloria, era stato prefissato da Nolan.
Centinaia di attori collaborarono con il protagonista; la parte di alcuni fu complessa; quella di altri, momentanea. Le cose che dissero e che fecero durano nei libri di storia, nella memoria appassionata dell'Irlanda. Kilpatrick, animato da questo minuzioso destino che lo redimeva e che lo perdeva, piú d'una volta arricchì con atti e parole improvvisate il testo del suo giudice.
Cosí venne dispiegandosi nel tempo il popoloso dramma, finché il 6 agosto 1824, in un palco dalle funeree cortine che prefigurava quello di Lincoln, una pallottola desiderata entrò nel petto del traditore e dell'eroe, che appena poté articolare, tra due sbocchi di sangue improvviso, alcune parole previste.
Nell'opera di Nolan, i passi imitati da Shakespeare sono i meno drammatici; Ryan sospetta che l'autore li intercalasse affinché qualcuno, piú tardi, potesse scoprire la verità. Sospetta di far parte egli stesso della trama di Nolan... Dopo tenace cavillare, risolve di tener segreta la scoperta. Pubblica un libro dedicato alla memoria dell'eroe; e anche questo, forse, era previsto.
(Jorge Luis Borges, Tema del traditore e dell’eroe, da “Finzioni”, scritto nel 1944, ed. Einaudi 1978, trad. Franco Lucentini)
Come si è visto, non è propriamente un racconto, ma piuttosto (nello stile caratteristico di Borges) una riflessione sul rapporto fra verità e finzione, fra la realtà e l’arte. Bertolucci gli rimane in ogni caso molto fedele, le differenze principali sono due: l’ambientazione emiliana e lo spostamento dell’azione al tempo del fascismo.
(continua)

mercoledì 14 marzo 2012

Luigi Comencini ( I )

«I bambini giocano mentre girano un film. Sono pazzi quegli americani che ingaggiano psicologi per farli recitare o per riparare eventuali danni causati dal lavoro nel cinema. Bisogna solo lasciarli giocare, e non è vero che recitando si guastano. (...) Un regista deve sapere che un bambino non è un bravo attore: un bambino esiste, e basta.» (Luigi Comencini, intervista al Radiocorriere tv, maggio 1990)
Luigi Comencini era una persona discreta, difficile ricordarselo impegnato in una polemica, anche le sue apparizioni in tv sono state rare, così come le interviste. Quasi non mi ricordo il suo volto, la sua voce; e solo di recente, sul canale Rai Storia (n.54 del digitale terrestre) sono riuscito a recuperare qualche sequenza da L’amore in Italia (1976) e da I bambini e noi (1970) dove appare, molto discretamente e quasi sempre fuori campo, come intervistatore. Di conseguenza, su Comencini ho pochissimi appunti pur avendo visto molti suoi film. I suoi film sono sempre chiarissimi e lineari, non ho mai sentito il bisogno di prendere appunti, e di conseguenza oggi devo andare un po’ a memoria, spero di non fare troppi errori. Di Comencini è stato anche uno dei primi film che ho visto al cinema e di cui mi ricordo, “Incompreso”: un film del 1966 che era appena uscito, io avevo quindi sette o otto anni, l’età di uno dei bambini protagonisti.
da http://www.wikipedia.it/ (risistemato da me)
Luigi Comencini (Salò, 8 giugno 1916 - Roma, 6 aprile 2007) A seguito del padre ingegnere trascorre l'infanzia a Parigi, dove si innamora del cinema. Al rientro in Italia studia architettura al Politecnico di Milano e inizia con la realizzazione di alcuni cortometraggi. Sposa Giulia Grifeo di Partanna; in seguito lavora sia come architetto che come critico cinematografico e poi come curatore della Cineteca Italiana. Il suo primo film di successo risale al 1949, “L'imperatore di Capri”, con Totò; seguito da “Pane, amore e fantasia” (1953) con De Sica e la Lollobrigida, seguito da “Pane, amore e gelosia” (1954). (...) Nel 1960 dirige nuovamente Sordi in quello che è generalmente considerato il suo capolavoro, “Tutti a casa”, tragicommedia sull'Italia del 1943, dopo la catastrofe monarchico-fascista dell’8 settembre che portò l’Italia allo sbando, prima della Resistenza. Sul tema della Resistenza realizza anche “La ragazza di Bube” (1963), tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Cassola, cui segue “Incompreso” del 1966 (...) Grande successo ottiene in televisione il suo sceneggiato televisivo “Le avventure di Pinocchio” del 1972 (...) La RAI lo chiama di nuovo nel 1984 per dirigere “Cuore”, sceneggiato tratto dal libro di Edmondo De Amicis (...) Luigi Comencini muore a Roma il 6 aprile 2007, all'età di 90 anni. Sposato con la principessa Giulia Grifeo di Partanna, è padre delle registe Cristina e Francesca , di Paola, scenografa, e di Eleonora, direttore di produzione. Comencini era di confessione valdese.
I film di Comencini che ho sicuramente visto:
L'imperatore di Capri (1949, Totò, Y.Sanson, M.Merlini, M.Castellani) ****
Heidi (1952 Elsbeth Sigmund, Heinrich Gretler, Thomas Klameth) ***
Pane, amore e fantasia (1953, V.De Sica, G.Lollobrigida) ***
Pane, amore e gelosia (1954, V.De Sica, G.Lollobrigida) ***
Tutti a casa (1960, A.Sordi, Serge Reggiani, E. De Filippo) ***
La ragazza di Bube (1963 C.Cardinale, M.Michel, G.Chakiris) **
Il compagno Don Camillo (1965 Fernandel, Gino Cervi) *
Incompreso (1966 S.Colagrande, A.Quayle, G.Moll, S.Giannozzi) ****
Le avventure di Pinocchio (tv 1972 A.Balestri, N.Manfredi, F.Franchi, C.Ingrassia) ****
Lo scopone scientifico (1972 A.Sordi, S.Mangano, Bette Davis, J.Cotten) *
Mio Dio, come sono caduta in basso (1974 Laura Antonelli, M.Placido, A.Lionello) *
La donna della domenica (1975 M.Mastroianni, P.Caruso, J.Bisset, JL Trintignant) **
Il gatto (1977 Ugo Tognazzi, Mariangela Melato) ***
L'ingorgo - Una storia impossibile (1979)
Voltati Eugenio (1980 S.Marconi, Dalila Di Lazzaro, F.Bonelli) **
Cercasi Gesù (1982 Beppe Grillo, Maria Schneider, Fernando Rey)
Cuore (tv 1984, J.Dorelli, E. De Filippo, G. De Sio, B.Blier) **
La Storia (tv 1986, C.Cardinale, L.Wilson, F.Fiorentini, M.Spada) **
Un ragazzo di Calabria (1987 GM Volontè, D.Abatantuono, S.Polimeno) **
La bohème (1988, Barbara Hendricks, Luca Canonici, Josè Carreras) **
Ai film vanno aggiunti due ottime trasmissioni per la RAI:
I bambini e noi (1970) (Serie TV)
L’amore in Italia (1976-78)
La filmografia di Comencini è molto più lunga, molti film li ho visti di sicuro ma non ne ho conservato memoria. Gli altri film, secondo l’elenco di wikipedia:
* La novelletta (1937) (cortometraggio documentaristico) * Bambini in città (1946) (cortometraggio documentaristico) * Proibito rubare (1948) * L'ospedale del delitto (1950) (cortometraggio documentaristico) * Persiane chiuse (1951) * La tratta delle bianche (1952) * La valigia dei sogni (1953) * La bella di Roma (1955) * La finestra sul Luna Park (1957) * Mariti in città (1957) * Mogli pericolose (1958) * E ciò al lunedì mattina (1959) * Le sorprese dell'amore (1959) * A cavallo della tigre (1961) * Il commissario (1962) * Tre notti d'amore (1964) - episodio "Fatebenefratelli" * La mia signora (1964) - episodio "Eritrea" * Le bambole (1965) - episodio "Il trattato di eugenetica" * La bugiarda (1965) * Italian Secret Service (1968) * Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (1969) * Senza sapere niente di lei (1969)
* Delitto d'amore (1974) * Signore e signori, buonanotte (1976) * Basta che non si sappia in giro (1976) - episodio "L'equivoco" * Quelle strane occasioni (1976) - episodio "L'ascensore" * Il matrimonio di Caterina (tv 1982) * Les français vus par (tv 1988) * Buon Natale... buon anno (1989) * Marcellino (1991)
(nelle foto ho messo anche le due figlie registe di Comencini, Cristina in alto e Francesca qui sopra)
(continua)

Luigi Comencini ( II )

L'imperatore di Capri (1949, Totò, Y.Sanson, M.Merlini, M.Castellani) ****
scritto da Teresa Ricci Bartolini, Gino De Santis, Metz e Marchesi. Comencini
E’ un film famosissimo e non ha certo bisogno di presentazione, l’unica cosa che si può dire è che non è certo un film “di Comencini”: in casi come questi, un regista intelligente si mette completamente al servizio dell’attore. Comencini lo sa benissimo, segue e assiste Totò e tutti gli altri attori del cast, formidabili nei tempi comici e nelle caratterizzazioni. Qualcosa di diverso lo farà Pasolini, ma molti anni dopo, con Totò già anziano e con difficoltà nella vista: ma qui siamo nel 1949, Totò è brillantissimo e scatenato, sarebbe stato un peccato grave dirgli cosa fare.
Heidi (1952)
dal romanzo di Johanna Spyri. Sceneggiatura di Richard Schweizer, W.M.Treichlinger, Max Weinberg. Con Elsbeth Sigmund, Heinrich Gretler, Thomas Klameth
Girato in Svizzera, trasmesso di frequente ancora oggi dalla tv svizzera; non ha niente a che vedere, ovviamente, con lo sdolcinato cartoon giapponese che verrà realizzato trent’anni dopo. La storia di Heidi è raccontata con verità e con molta finezza; Heidi è un personaggio vero, così come tutti gli altri personaggi della storia. Lo si può considerare come una prova per il Pinocchio, che verrà vent’anni dopo: qui la storia è molto più realistica, ma l’approccio è identico, e a tratti (anche per l’ambientazione e le montagne) sembra di vedere un film di Olmi.
Pane, amore e fantasia (1953, V.De Sica, G.Lollobrigida) ***
Pane, amore e gelosia (1954, V.De Sica, G.Lollobrigida) ***
dai “Racconti vernacoli” di Ettore Maria Margadonna. Sceneggiatura di Comencini; nel secondo film partecipano alla sceneggiatura anche Eduardo e Titina De Filippo, conVincenzo Talarico.
Due film che da bambino (e poi da ragazzo) trovavo insopportabili scemenze. Col tempo ho imparato a conviverci, poi ad apprezzarli, soprattutto per la recitazione di De Sica, che gigioneggia un bel po’ ma è comunque grande nella sua caratterizzazione. Da non prendere troppo sul serio, quanto a credibilità era meglio “L’imperatore di Capri”, ma è comunque piacevole. Il terzo film della serie è di Dino Risi, 1955, con Sofia Loren al posto di Gina Lollobrigida.
Tutti a casa (1960, A.Sordi, Serge Reggiani, E. De Filippo, Carla Gravina) ***
Scritto da Comencini con Age e Scarpelli e Marcello Fondato
L’8 settembre del 1943, in un film molto bello, fra il tragico e il comico. Da rivedere con calma, è uno dei film fondamentali del cinema italiano. Da notare la presenza come sceneggiatori di Age e Scarpelli, che qualche anno dopo faranno il Brancaleone con Monicelli (l’argomento, alla fine dei conti, è molto simile) e di Marcello Fondato, che in seguito girerà alcuni film molto belli da regista.
La ragazza di Bube (1963 C.Cardinale, M.Michel, G.Chakiris) **
Dal romanzo omonimo di Carlo Cassola. Sceneggiatura di Comencini e Fondato
L’argomento è di quelli che mi interessano, ma il film non mi ha mai preso molto. Non saprei dire perché, forse per via di Carlo Cassola, un ottimo scrittore che però non ho mai amato. Anche la Cardinale mi sembra meno in parte rispetto ad altri film che ha interpretato. Bube è il soprannome di un giovane partigiano.
Il compagno Don Camillo (1965 Fernandel, Gino Cervi) *
dai romanzi di Giovanni Guareschi, scritto da Benvenuti e De Bernardi
Ultimo film della serie di Don Camillo, con un’improbabile trasferta sovietica. I personaggi e gli attori hanno ormai dato il meglio in questo contesto, la storia è troppo stiracchiata, Comencini si limita a una prestazione da buon professionista. Personalmente, lo ritengo inguardabile. Il primo film di Don Camillo è di tredici anni prima, 1952, diretto dal francese Duvivier (una coproduzione italo-francese: da qui la presenza di Fernandel). Anche il secondo, “Il ritorno di don Camillo”, del 1953, è diretto da Julien Duvivier; il terzo e quarto film, “Don Camillo e l’onorevole Peppone” (1955) e “Don Camillo monsignore ma non troppo” (1961), sono firmati da Carmine Gallone.
(continua)