DOPO LA PROVA (Efter repetitionen, 1983). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist (colori) - Scenografia: Anna Asp - Con: Erland Josephson (Henrik Vogler), Lena Olin (Anna), Ingrid Thulin (Rakel) Bertil Guve (Henrik a dodici anni), Nadja Palmstjerna-Weiss (Anna a dodici anni). Durata: 70 minuti.
Un altro aspetto interessante di “Dopo la prova” è nella scenografia, nelle luci, nell’abito rosso di Lena Olin, nell’alternarsi del personaggio di Lena Olin con se stessa bambina. E c’è il ritorno di Ingrid Thulin in un film di Bergman, col quale non recitava più, salvo miei errori, dal tempo di “Il rito”: Ingrid Thulin, giovane e bellissima nel “Volto” e nel “Posto delle fragole”, qui appare logicamente invecchiata, secondo natura; e la parte che Bergman le riserva è molto crudele, ma probabilmente necessaria e quasi certamente autobiografica. Un’attrice non più affidabile, con gravi problemi di alcolismo, che ha ottenuto una breve parte solo per l’amicizia che la lega ancora al vecchio regista: ma è tutto rivolto al passato, veniamo a sapere più avanti che l’attrice è morta da tempo, questa è l’evocazione di un ricordo, forse di un fantasma più vero del vero. La giovane attrice (che Bergman lascia in scena, muta, per tutto il tempo del dialogo tra Ingrid Thulin e Josephson) è sua figlia, e quindi il ricordo nasce spontaneo, e anche doloroso e sgradevole. Una parte ingrata, dunque, per Ingrid Thulin: che la risolve da grandissima attrice.
E qui si aprirebbe un discorso che, purtroppo per noi, è ingombrante e perfino doloroso: quello del rapporto fra il cinema e le sue attrici, un discorso che riguarda anche la tv, la pubblicità, le foto di moda, la concezione stessa della presenza e dell’immagine femminile. L’altro giorno, per esempio, aprendo il giornale ho visto una foto recente di Scarlett Johansson, una pubblicità a tutta pagina, e non l’ho riconosciuta: era identica a Charlize Theron, o ad una qualsiasi altra diva bionda degli ultimi vent’anni. Che dire, Scarlett e Charlize sono due donne diversissime: come si fa a confonderle? Questa smania di uniformare, di ricondurre tutto ad un unico modello (di “puttanone” tutte uguali, avrebbe detto sorridendo Fellini: che al tema ha dedicato “Le tentazioni del dottor Antonio”) è tipicamente americana, il modello di riviste come Playboy e Penthouse; ma è attecchita rapidamente anche da noi. Mentre Bergman e Nykvyst portavano sullo schermo volti veri, grandi attrici ma anche donne vere, diverse le une dalle altre, e diverse anche da se stesse in ogni momento, così come accade nella vita vera, da qualche anno in qua si vedono invece quasi soltanto volti e corpi ritoccati, immobili e sempre identici anche in film e in momenti diversi. Si è arrivati al punto di cancellare anche le efelidi (Bibi Andersson ha il volto pieno di lentiggini), e con il computer è facilissimo aumentare il seno, rifare i lineamenti, allungare la gambe: il che equivale a dire che ormai si può fare un film anche senza attrici e attori, ed è un discorso tristissimo, ma così è ormai andata (se voglio vedere un cartone animato, vorrei che fosse davvero un cartone animato...).
In “Dopo la prova” è inevitabile innamorarsi di Lena Olin, allora molto giovane, dal volto quasi di bambina, tutta vestita di rosso, lievemente goffa in quell’abito. Così come è inevitabile innamorarsi di Ewa Fröling in Fanny e Alexander, di Liv Ullmann, di Ingrid Thulin, di Bibi Andersson, di Harriet Andersson, di Eva Dahlbeck, di Gunnel Lindblom...Nessuna di loro somiglia alle altre.
Bergman si innamora ogni volta delle sue attrici, cerca ogni volta un maestro delle luci che sia in sintonia con lui, ed è delle donne che è innamorato, delle loro differenze, della loro singolarità. Nei film di Bergman le donne sono sempre così belle da innamorarsi, ma poi si scopre che sono identiche alle donne che vediamo ogni giorno per strada; ed è questa la grande magia del cinema, una magia quasi completamente persa nel mondo della fiction e di photoshop.
“Dopo la prova” è diviso in tre parti, come una Sonata, con due temi conduttori, variazioni, e un finale: nei primi venti minuti c’è il dialogo con la giovane attrice, nei venti minuti centrali l’altro dialogo con l’ex amante, nei venti minuti finali ancora il dialogo con la giovane attrice, che forse non si era mai interrotto (l’episodio centrale è solo un ricordo, artificiosamente dilatato nel tempo, così come capita anche a noi nelle nostre vite quotidiane). Nel finale, affiora l’ipotesi di una relazione con la giovane: ma il vecchio si tira indietro, sa già come andrebbe, sa già tutto, non è il caso di ricominciare. In totale, poco più di un’ora: considerando una breve introduzione, una perfetta simmetria, come in Haydn.
Nel film ci sono anche due bambini: a Bertil Guve, protagonista di “Fanny e Alexander”, spetta una breve apparizione nei panni del regista stesso a dodici anni, come è indicato in locandina.
L’altra bambina si chiama Nadja Palmstjerna-Weiss (non è la Fanny del film, è un’altra bambina) e
si alterna in maniera quasi magica, nella parte centrale, con se stessa adulta. Basta un movimento della cinepresa, quasi impercettibile, per alternare l’immagine della giovane attrice con quella di se stessa bambina, vestite e atteggiate in maniera identica: è la scena in cui l’antica amante, ormai invecchiata, fa ricordare al regista di teatro eventi passati, e prova a riproporsi per ricreare quella magia ormai passata.
La scenografia è fissa, un palcoscenico di teatro; ed è molto accurata, con costumi magnifici per la loro naturalezza. Possono sembrare vestiti normali, ma non lo sono affatto. Capita spesso in teatro: ed è alla magia del teatro (che ormai capiscono in pochi, anche fra gli attori di teatro) che è dedicato “Dopo la prova”. Ed è fondamentale, a questo proposito, il momento in cui il personaggio di Erland Josephson evoca il suo primo incontro con il teatro, quella forcina spezzata che non c’era ma che l’attore riesce a far vedere – vedere realmente. E’ anche una scena che può rimandare a “Sacrificio” di Tarkovskij (girato tre anni dopo) per il discorso della “matematica divina”, dove uno più uno è uguale a uno (due gocce d’olio non fanno tre gocce, ma una sola più grande), è l’unità che diventa due piegando la forcina, ma solo in apparenza, e che diventa davvero due solo dopo aver spezzato l’ago (si tratta di un momento dal "Sogno" di Strindberg, pag.54 edizione Adelphi Piccola Biblioteca). Qui appare il bambino di Fanny e Alexander, l’immagine del regista da bambino, affascinato da quella reale apparizione di un oggetto che in realtà non esiste, ma evocato in maniera potente dalla magia del gesto e della parola.
Allo stesso modo, Ingrid Thulin recita un brano dalle Baccanti di Euripide, creando senza scene né costumi, solo con la recitazione, l’atmosfera del mito e del teatro greco. E’ un brano che dovrei cercare o trascrivere (ma oggi sono molto pigro); mi viene piuttosto da dire che il titolo del titolo del film mi evoca irremediabilmente l’Otello di Verdi, che non c’entra niente ma devo proprio trascriverlo, metterlo allo scarico, altrimenti vado avanti a canticchiarlo tutto il giorno: “...pria del dubbio l’indagine, dopo il dubbio la prova, dopo la prova (Otello ha sue leggi supreme) amore e gelosia vadan dispersi insieme...”. E qui si inserisce Jago, ma questa è proprio tutta un’altra storia, e mi converrà piuttosto andare a rileggere “Il sogno” di Strindberg.
Dopo “Fanny e Alexander”, girato un anno prima, Bergman disse che quello sarebbe stato il suo ultimo film. E così è stato: nonostante gli altri film che sono venuti dopo, si può davvero dire che Bergman ha finito di fare il regista di cinema dopo Fanny e Alexander. Quelli che sono venuti dopo sono infatti piccoli film da camera, quasi teatro filmato, con pochi attori; e dove la bravura degli attori viene a prendere il posto dei trucchi del cinema. E sono sempre film da vedere, belli come i grandi capolavori dei decenni precedenti anche se diversi, più mediati e meditati.
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