domenica 26 luglio 2020

Io mi fermo qui



Che cosa è la Zona? Lo spiega lo Stalker stesso, al minuto 59.

« La Zona è forse un sistema molto complesso di trabocchetti, e sono tutti mortali. Non so cosa succeda qui in assenza dell’uomo, ma appena arriva qualcuno tutto si comincia a muovere, le vecchie trappole scompaiono e ne appaiono di nuove, posti prima sicuri diventano impraticabili, e il cammino si fa ora semplice e facile ora intricato fino all’inverosimile. E’ la Zona...forse ad alcuni può sembrare capricciosa, ma in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo. Non vi nascondo che vi sono stati casi in cui la gente è dovuta tornare indietro a mani vuote. Alcuni sono anche morti proprio sulla porta della Stanza; ma quello che succede non dipende dalla Zona, dipende da noi.
- Fa passare i buoni, e ai cattivi taglia la testa?
- No... non lo so... a me sembra che faccia passare solo quelli che non hanno più nessuna speranza...non i cattivi o i buoni ma...gli infelici. Ma anche il più infelice morirebbe subito se non si comportasse come si deve. (rivolgendosi allo scrittore) A lei è andata bene, io l’avevo avvertita, potevo anche non farlo!
(Il Professore) Sapete cosa vi dico? Io mi fermo qui. Mi siedo e aspetto che voi torniate, magari felici. Ho da mangiare, da bere, non mi manca niente; mi fermo qui.
- E’ impossibile. (...) Non si torna indietro per la strada fatta all’andata.»


Sembra un discorso complicato, ma basta cambiare “la Zona” con “la Vita”, e tutto diventa più semplice.
(dal mio post su "Stalker" di Andrej Tarkovskij)



Disagio


Questo blog si ferma qui, per la seconda volta dopo la precedente pausa durata sette anni; non so dire se e quando ricomincerò, perché le cose sono cambiate e di molto. In parte perché ho già scritto tanto, direi anche troppo, e l'età comincia a pesare; ma in gran parte mi fermo perché ho difficoltà ad andare avanti, e la convinzione che il cinema come lo abbiamo sempre pensato sia morto e sepolto si fa in me sempre più certa e profonda.
Leggo da una ventina d'anni di entusiasmi per Tarantino, Kitano, Sorrentino, Garrone... non sono mai riuscito a finire un loro film, e dopo un po' ho perso di interesse. Per intenderci, di sparatorie e di divise naziste alla Tarantino ne ho già viste fin troppe, e se nella sua maturità un regista sceglie un soggetto come "Il giovane papa" mi cascano le braccia.
Lo stesso discorso mi tocca fare per registi osannati come Christopher Nolan ( ho esaurito il mio interesse per Batman fin dagli anni '60), o Paul Thomas Anderson; e, dato che Batman e i fumetti Marvel non mi interessano, non so cosa farmene nemmeno di "Joker" e dei super eroi. Non ci sono altri soggetti, in giro? Il mondo non offre idee migliori, sia nel presente che nel passato?
Non vado meglio con i vecchi, quelli con cui sono cresciuto: gli ultimi film di Peter Weir e di Jim Jarmusch mi sono sembrati cose da poco. Riguardo a Weir, autore che ho amato moltissimo, se "Master and commander" poteva essere considerato un ottimo esercizio di stile, non sono riuscito a riconoscere l'autore che amavo in "The way back", che ho trovato molto simile, troppo simile, a tanti altri film visti in passato. In "The way back" non ho trovato nulla di quello che mi affascinava in Weir, è solo la storia di una marcia nel freddo, con personaggi un po' troppo stereotipati.
Può darsi che Weir torni a sorprendermi, ma vedo invece male Jim Jarmusch: se l'autore di "Dead man" decide di girare prima un film sui vampiri e poi uno sugli zombies, l'impressione che non abbia più niente da dire ma che stia comunque cercando di rimanere nel giro diventa sempre più potente. Magari a voi questi film sono piaciuti, io ho deciso di non fidarmi più. La stessa cosa mi era capitata con l'ultimo film di Bernardo Bertolucci, "Io e te"; ero rimasto molto deluso, sapevo che era probabilmente l'ultimo di un grande regista, e che - potendo scegliere - abbia scelto proprio questo soggetto è stata un'altra delusione profonda.
Allo stesso modo, ho dovuto prendere le distanze da altri due autori che hanno segnato la mia vita, e non solo come appassionato di cinema: Werner Herzog gira ancora dei bei documentari, ma conosco documentaristi migliori di lui. Herzog si è liberato del "furore di Dio" che gli covava dentro agli inizi di carriera, e sono contento per lui se adesso sta meglio, ma i suoi ultimi film non mi sono sembrati memorabili - lo so che è una cosa brutta da dire, "eri meglio da giovane", ma non saprei cos'altro aggiungere. Più o meno lo stesso discorso per Wim Wenders: ho trovato tempo fa una sua intervista dove diceva che come docente di cinema pretende che i suoi studenti si presentino con sceneggiature dettagliatissime, cioè tutto l'opposto dei suoi film migliori. Forse la fortuna di Wenders, e di Herzog, è stata proprio quella di non avere avuto docenti. Si può davvero insegnare a fare cinema? Ragionando sulla storia del cinema (Chaplin, Capra, Fellini, Kubrick...), direi che dei docenti e delle scuole di cinema si può fare tranquillamente a meno, a meno che non si tratti di imparare nozioni tecniche pure e semplici. Per intenderci meglio, sono convinto da tempo che le scuole di sceneggiatura siano responsabili dell'appiattimento generale di ciò che vediamo oggi; queste scuole servono soprattutto per farsi conoscere e magari cooptare nell'ambiente (lontani i tempi in cui Luciano Vincenzoni, scrittore per molti film di Sergio Leone, si presentava con i suoi soggetti da Dino de Laurentiis...), e anche per mantenere un po' di "creativi" che altrimenti dovrebbero andare a lavorare.

Mi colpisce poi vedere registi come Sam Mendes (non è il solo) che a un certo punto della loro vita, quando sono già conosciuti e affermati, vanno a fare i film di James Bond. Capisco che i soldi contano, nella nostra vita, ma il percorso giusto è all'inverso: Sergio Leone comincia con "Il colosso di Rodi", Fellini con "Luci del varietà", poi cominciano i loro film personali, quelli d'autore, e con grande successo. La stessa cosa capita con Antonioni, che inizia a farsi conoscere con i film nell'ambiente della moda, e anche a Stanley Kubrick con "Spartacus". I tedeschi, Herzog Wenders Kluge, invece fondarono una loro casa di produzione per essere liberi di realizzare i loro progetti. Oggi invece si fanno i film personali all'esordio, poi si passa alla cassa; chiedo venia, ma la cosa mi interessa sempre meno.

Mi rifiuto di credere che non esistano più talenti come quelli con i quali sono cresciuto, c'è sempre stato un ricambio generazionale ed è impossibile che non ci sia ora; probabilmente la spiegazione della pochezza di oggi sta nei nuovi mezzi di produzione, una specie di censura preventiva (di natura soprattutto commerciale) che di fatto impedisce a chi ha una voce originale di esprimersi. Quello che vedo, per esempio ogni volta che provo a guardare un film italiano, è quasi sempre mediocrità: sia per la recitazione che per la scrittura che per la regia. Spiace doverlo dire, ma è così; un abbraccio a chi ha ancora idee e voglia di impegnarsi.
Delle serie tv "belle come al cinema" ho già parlato pochi giorni fa, non voglio ripetermi; quanto all'andare avanti con il blog, non posso non notare che le novità di Blogger e degli altri "editori" on line vadano sempre di più verso lo smartphone e verso altri mezzi, come Instagram, Facebook, Tiktok, eccetera. Insomma, dovrei ripensare il blog a dimensione di telefonino, e non me la sento proprio. La mia dimensione è questa, quella che avete visto fino ad oggi, ed è più che probabile che il blog come l'abbiamo conosciuto fin qui sia destinato a scomparire a breve, magari proprio cancellandone dal "cloud" ogni traccia. Anche perché, ormai è sempre più evidente, c'è il rischio di essere denunciati per furto d'immagine: non dagli eredi di Fellini o di Tarkovskij ma da parte di qualcuno che ha messo il suo nome su immagini di pubblico dominio. Perciò ribadisco: questo blog non ha fini di lucro, caso mai ci ho rimesso del mio; e le immagini che ho messo servono per far conoscere, per far ricordare, per non perdere la memoria dei capolavori. Dei capolavori del passato, mi viene da dire; ed è proprio così, infatti, il cinema è morto da tempo e del cinema bisogna abituarsi a parlare al passato. Quello che state guardando adesso, quello che stanno girando adesso, è tutt'altra cosa e bisognerebbe dargli un altro nome. (24 luglio 2020)

- Oggi però le facce sono cambiate, tendono a omologarsi; Pasolini in "Lettere luterane" diceva che in Italia è in atto una mutazione antropologica visibile sulle facce della gente...
- Oggi hanno tutti facce da merendine, si vede la differenza quando in televisione compaiono le espressioni rubate alle persone dei cosiddetti paesi sottosviluppati, quelle persone hanno volti straordinari mentre le nostre facce non hanno più identità. (...)
(da "I volti e le mani" a cura di Benedetta Tobagi, ed. Feltrinelli; pag.77, intervista di Ermanno Olmi con Sergio Toffetti)

PS: questo è l'unico post senza immagini, mi sembra chiaro il perché.

sabato 25 luglio 2020

La diabolica invenzione



La diabolica invenzione (Vynález zkázy, 1958). Regia di Karel Zeman. Tratto da un romanzo di Jules Verne. Sceneggiatura di Frantisek Hrubín, Milan Vácha, Karel Zeman. Fotografia di Antonín Horák, Bohuslav Pikhart, Jirí Tarantík. Scenografie di Zdenek Rozkopal. Costumi di Karel Postrehovsky. Musiche di Zdenek Liska. Interpreti: Lubor Tokos (Simon Hart), Arnost Navrátil (professor Roch), Jana Zatloukalová (Jana), Miroslav Holub (Artigas), Frantisek Slégr (capitano dei pirati), Václav Kyzlink (ing. Serke), Frantisek Cerný (voce del narratore). Durata 1h13'

Karel Zeman (1910-1989) è stato uno dei più grandi autori di film d'animazione, maestro anche nella ricerca di tecniche nuove ed originali. Oggi se ne parla poco, ed è un peccato; per fortuna, o meglio grazie ad appassionati di cinema competenti, molti suoi film si possono trovare on line. Alcuni sono inevitabilmente invecchiati, altri - come questo e come "Il barone di Münchhausen" - sono ancora dei gioielli da non perdere.
"La diabolica invenzione" è il titolo italiano di un film con attori, non quindi con disegni animati; ma gli attori sono ben inseriti su scenografie disegnate; il risultato è un gioiellino, rifatto sulle illustrazioni ottocentesche di Edouard Riou e Léon Benet per i romanzi Jules Verne. Dietro c'è un romanzo che ignoravo del tutto, pur avendo letto molto di Verne: "Face au drapeau", cioè "Di fronte alla bandiera", che è del 1896, quindi uno degli ultimi pubblicati in vita da Verne. La storia ha molte somiglianze con "Il padrone del mondo" ("Robur il conquistatore"), con uno scienziato rapito, e anche con "Ventimila leghe sotto i mari" e con i libri più famosi di Verne, per via dei sottomarini, dei palloni aerostatici, delle macchine e dei motori. La storia non è delle più originali, nemmeno per uno come Verne: uno scienziato che ha inventato un'arma potentissima viene rapito e dovrà mettersi al servizio dei pirati e dei criminali; ma nel finale tutto si risolve, e ne nasce anche una storia d'amore. Non so perché Zeman abbia scelto proprio questo, tra i molti romanzi di Jules Verne disponibili, ma il risultato finale comunque non dispiace.


E' in bianco e nero, con alcune sequenze virate come nel cinema delle origini; ci sono attori e disegni, scenografie di navi e di castelli, e motori di carta che Zeman e il suo staff rendono come una meraviglia; l'ho appena rivisto e devo dire che è molto più riuscito dei tre quarti della computer graphic di oggi, ed è un peccato che Zeman non abbia potuto usare il computer e le tecniche odierne. Alla fine, quello che conta è sempre il talento individuale, l'immaginario, le letture, e anche (soprattutto?) l'amore verso le persone. Dietro i trucchi c'è Méliès, naturalmente: gli effetti speciali nascono insieme al cinema.


Di "La diabolica invenzione" esiste anche una versione americana, che si chiama "The fabulous world of Jules Verne": ma è meno bella, almeno nella versione visibile su youtube, perché l'effetto disegno sparisce, tutto somiglia di più a un film normale e si perdono quasi tutti gli effetti speciali di Zeman, che sono bellissimi, da incanto fin dalle prime sequenze.
Gli attori sono tutti cecoslovacchi, quindi poco noti da noi; sono tutti bravi, ma mi segno in particolare l'unica donna del cast, Jana Zatloukalová, alla quale spettano alcune tra le sequenze migliori del film, e anche il finale in mongolfiera accanto all'amato (l'attore si chiama Lubor Tokos).





venerdì 24 luglio 2020

Scemo di guerra / Le rose del deserto


- Le rose del deserto (2006) Regia di Mario Monicelli. Tratto da "Il deserto della Libia" di Mario Tobino e "La guerra d'Albania" di Giancarlo Fusco. Sceneggiatura di Mario Monicelli, Alessandro Bencivenni, Domenico Saverni. Fotografia di Saverio Guarna. Musiche di Mino Freda e Paolo Dossena. Interpreti: Alessandro Haber, Michele Placido, Giorgio Pasotti, Moran Atias, Stefano Scandaletti, Enzo Marcelli, Tatti Sanguineti, Fulvio Falzarano, e molti altri. Durata: 1h42'

- Scemo di guerra (1985) Regia di Dino Risi. Tratto da "Il deserto della Libia" di Mario Tobino. Sceneggiatura di Dino Risi, Age e Scarpelli. Fotografia di Giorgio Di Battista. Musiche di G. e M. De Angelis. Interpreti: Coluche, Beppe Grillo, Bernard Blier, Fabio Testi, Franco Diogene, Claudio Bisio, Nicola Morelli, Guido Nicheli, Geoffrey Copleston, Tiziana Altieri, Alessandra Vazzoler, e molti altri. Durata: 1h48'

"Le rose del deserto" è l'ultimo film di Mario Monicelli, ed è uno dei suoi più belli e più riusciti. Un film corale, con molti personaggi, sulla guerra di Libia. L'anno è il 1942, e il soggetto è tratto da un libro di Mario Tobino. Tobino è stato uno scrittore importante: medico psichiatra, nato nel 1910 (ci ha lasciati nel 1991), nel 1942 in piena guerra fu richiamato in servizio come medico militare, esperienza descritta nel libro "Il deserto della Libia", pubblicato nel 1952 da Einaudi. Tornato in Italia, dopo l'8 settembre 1943 Mario Tobino partecipò attivamente alla Resistenza (se ne parla in "Il clandestino"). Negli anni di pace, diventa primario del manicomio di Lucca; subito dopo "Il deserto della Libia" pubblicherà "Le libere donne di Magliano" (1953), forse il suo libro più famoso. Tobino è davvero un grande scrittore, e mi spiace molto constatare che sia stato quasi dimenticato; i personaggi dei suoi libri sono di quelli che ti rimangono dentro, e sapere che dietro ci sono esperienze vissute e vita vera molto spesso commuove, anche per la partecipazione personale del dottor Tobino, che è più che tangibile. Allo stesso modo, rimangono dentro di noi i personaggi di "Le rose del deserto" di Monicelli, che oltre al libro di Tobino ha preso altri momenti e personaggi da un libro di Giancarlo Fusco sulla guerra d'Albania, trasferendoli nel deserto libico. Fusco è stato un personaggio molto particolare, giornalista e anche attore, grande passione per il pugilato, un autore sempre ripubblicato ma purtroppo quasi sempre senza la risonanza che meriterebbe.


Il film di Monicelli è molto bello ed ha almeno due personaggi da antologia: il frate di Michele Placido e l'ufficiale di Alessandro Haber (con il tormentone di "con il bene che ti voglio"), poi l'ufficiale medico di Pasotti, e molto altro. Bravo anche Tatti Sanguineti, il generale che non capisce cosa succede ma dà ordini secchi e perentori. La ragazza araba è Moran Atias, l'elenco degli interpreti è molto lungo e spiace molto di non poterli citare tutti. Una delle cose che più mi colpiscono, scorrendo l'elenco dei film di Monicelli, è che quasi sempre i suoi film più belli e significativi sono tra i meno citati da critici e recensori. Anche "Le rose del deserto" è citato pochissimo, eppure è divertente e ricorda molto il "Brancaleone" per la felicità dei suoi personaggi: anche in mezzo a una guerra e alle atrocità ci possono essere situazioni divertenti, e riuscire a rendere questi aspetti in apparenza contrastanti è cosa che riesce solo ai grandi maestri, come era Monicelli. Certo, è più facile ridere con "Amici miei", che non ha rimandi politici (i fascisti hanno perso tutte le guerre, e in modo rovinoso: ma purtroppo pochi lo dicono ad alta voce) e che ha un umorismo più grossolano; era dello stesso parere lo stesso Monicelli, e chi non ci crede può ascoltare cosa pensava del successo di "Amici miei" dalla sua stessa voce, nel documentario "Monicelli - La versione di Mario".




"Scemo di guerra" di Dino Risi è del 1985, ed è tratto dallo stesso libro di Mario Tobino, "Il deserto della Libia". Uscito quasi vent'anni prima del film di Monicelli ("Le rose del deserto"), è ricordato più che altro per la presenza di Beppe Grillo come protagonista, accanto al comico francese Coluche, molto popolare in patria ma da noi praticamente sconosciuto. Il film di Risi ha il merito di aver parlato della guerra di Libia, evento poco ricordato al cinema se si eccettuano i film di regime (anche quelli girati dopo il 1945, intendo), ma è molto meno riuscito rispetto a quello di Monicelli. E' una questione soprattutto di attori: lo stesso soggetto ma con attori meno bravi. Con tutto il rispetto, Alessandro Haber è molto ma molto meglio di Coluche, non c'è paragone; e Giorgio Pasotti è molto meglio di Beppe Grillo. Haber e Pasotti, così come Michele Placido, sono attori veri, di solida formazione, e non attori improvvisati scelti dalla produzione per richiamare pubblico.
Questi due film sono comunque da vedere, da conoscere, perché aggiungono molto alla nostra Storia, soprattutto a quella che a scuola non si studia mai. Tolta la retorica e la propaganda, rimane la verità della guerra; ed è questo che è importante conoscere.


Una spiegazione per i due titoli: le rose del deserto sono formazioni di pietra, caratteristiche del deserto, e sembrano davvero dei fiori; "scemo di guerra" non è qualcosa che faccia ridere, purtroppo sono stati in tanti a tornare dalla guerra per sempre distrutti, non solo nel fisico. Speriamo di non rivedere più guerre, negli ultimi 75 anni in questa parte d'Europa abbiamo avuto politici che hanno saputo evitare i conflitti, auguro alle nuove generazioni di non rovinare tutto con scelte sbagliate. Settantacinque anni sono un periodo di pace mai visto, un'enormità se si guarda a cosa è successo nei secoli precedenti: la seconda parte del Novecento, vista da questa parte d'Europa, dovrà essere ricordata come un'epoca d'oro, di pace e prosperità. Quanto al futuro, non sono per niente ottimista ma c'è comunque spazio per la speranza.




The dead (John Huston)



The dead (I morti, 1987) Regia di John Huston. Tratto da "Dubliners" di James Joyce. Sceneggiatura di Tony Huston. Fotografia di Fred Murphy. Musiche a cura di Alex North. Interpreti: Donal Mc Cann, Anjelica Huston, Helena Carroll, Cathleen Delaney, Donal Donnelly, Rachel Dowling, Ingrid Craigie, Dan O'Herlihy, Richard Parkinson, Marie Kean, Sean Mc Clory, Frank Patterson. Durata: 83 minuti

"The dead", tratto da un racconto di James Joyce, è l'ultimo film di John Huston, ed è anche uno dei capolavori assoluti nella storia del cinema, ma dovete metterci qualcosa del vostro per capirlo. Non è un film facile, così come non è facile il racconto di Joyce (tratto da "Dubliners", in Italia tradotto spesso come "Gente di Dublino") ma se ce l'ha fatta uno come me ce la può fare chiunque. Coraggio, si può fare.
Siamo a Dublino nel 1904, a una cena organizzata da due zie molto anziane, una riunione di famiglia in ambiente benestante, dove convengono caratteri diversi e dove non manca la questione politica, perché in Irlanda a inizio Novecento c'erano in ballo questioni che pesano ancora oggi. Ma il clima è comunque disteso, nessuno vuole fare torto alle zie, tutto rimane sottotraccia. Filo conduttore delle varie vicende è la coppia di sposi interpretata da Anjelica Huston e Donal Mc Cann; il finale è dedicato a loro ed è toccante, con il ricordo di un ragazzo morto tanti anni fa, che si era innamorato di lei, e il monologo finale del marito, tagliato fuori da quel ricordo lontano e straziante. La canzone che evoca questo ricordo è "The Lass of Aughrim" ("La fanciulla di Aughrim") cantata alla festa dal tenore Bartell d'Arcy; è lo stesso attore Frank Patterson a cantarla, molto bravo). Nel corso della festa ascoltiamo anche, un po' straziata dalla voce senile della zia, un'aria che viene presentata come "Arrayed for the Bridal" e spesso tradotta alla lettera nelle varie recensioni; si tratta di "Son vergin vezzosa", inizio di un concertato dall'opera "I Puritani" di Vincenzo Bellini. A cantarla, meglio che può, è la stessa attrice Cathleen Delaney. Nel corso del film si ascoltano molte battute dedicate all'opera e al teatro, bisognerebbe scrivere un post per ricapitolarle tutte.


Tutti gli attori sono perfetti: sono protagonisti del teatro irlandese e quindi poco noti al grande pubblico, a parte Anjelica Huston. Merita una citazione l'attore che interpreta Freddy (Donal Donnelly) sempre ubriaco, ma dolce e simpatico. La regia del "rozzo" Huston è di grande delicatezza e profondità (non è una novità, la rozzezza di Huston era solo una maschera). John Huston, americano di nascita, abitava da decenni in Irlanda e ne aveva preso anche la cittadinanza; "The dead" è stato girato da Huston già molto malato, assieme ai due figli Tony (autore della sceneggiatura) e Anjelica (protagonista del film). Il film è molto fedele al racconto, anche se con qualche libertà, ben descritta a suo tempo dall'ottimo critico Mario Sesti:
da wikipedia:
«The Dead è un capolavoro di fedeltà al testo, o meglio uno straordinario modello di lucidità e strategie nel passaggio dalla letteratura al cinema. (...) Anche per chi conosce piuttosto bene il racconto, è molto difficile notare le aggiunte, le dilatazioni, i prestiti illeciti, perché essi sono praticati in quella sfera intermedia che potremmo chiamare “immaginario” del testo che non appartiene più semplicemente al testo ma al lavoro che il lettore vi ha prodotto con la sua lettura e il deposito di scena che esso ha generato nella memoria del lettore stesso.»
Mario Sesti, Cineforum, n. 270, dicembre 1987 (da www.wikipedia.it)


A mio parere il racconto più bello dei "Dubliners" è "Arabia", dove mi sono riconosciuto e mi sono rivisto come ero ("Arabia" è il nome di una fiera di inizio secolo, sempre a Dublino). Rileggo il finale in Joyce, e penso che anch'io sto pensando le stesse cose; non c'è fuori la neve, solo questa è la differenza. Riporto qui il finale del racconto, è la cosa migliore che si possa fare.
Si era profondamente addormentata. Appoggiato sui gomiti Gabriel le guardò per alcuni istanti, senza rancore, i capelli scomposti, la bocca semichiusa e ne ascoltò il respiro profondo. Dunque c’era un romanzo nella sua vita: un uomo era morto per lei. Quasi non gli doleva adesso pensare alla. parte meschina che lui, il marito, vi aveva avuto. La guardava dormire come se mai fossero vissuti insieme da uomo e donna. Incuriositi, gli occhi s’attardarono a lungo sul suo viso, sui suoi capelli; e, pensando a quella che doveva essere stata allora, all'epoca della sua prima bellezza di fanciulla, una strana, dolce pietà per lei gli penetrò l’anima. Non voleva confessarlo nemmeno a se stesso che quel viso non era più bello; ma certo non era più il viso per il quale Michael Furey aveva sfidato la morte.
Forse non gli aveva detto tutto. Portò gli occhi alla sedia su cui ella aveva buttato alcuni dei suoi indumenti. Il laccio di una sottana pendeva sul pavimento, uno stivaletto stava in terra ritto, il gambale floscio ripiegato, e il compagno gli giaceva accanto su un fianco.
Lo meravigliava quel disordine di emozioni, un’ora prima. Da dove era nato? Dalla cena delle zie, dal proprio sciocco discorso, dal vino e dal ballo, dall'allegria di quegli ultimi saluti nell’atrio, dal piacere della passeggiata lungo il fiume, sulla neve. Povera zia Julia! Anche lei presto sarebbe stata un'ombra con l'ombra di Patrick Morkan e il suo cavallo. Per un attimo le aveva visto in viso quell'aspetto di larva mentre cantava Adorna per le nozze. Presto forse si sarebbe trovato seduto in quello stesso salotto, vestito di nero, la tuba sulle ginocchia: le imposte sarebbero state accostate e zia Kate seduta accanto a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato com’era morta. Si sarebbe torturato il cervello allora per trovare qualche parola che potesse consolarla e ne avrebbe trovato solo di goffe e inutili. Sì, sì, sarebbe accaduto molto presto.
L’aria della stanza gli gelava le spalle. Si allungò adagio sotto le coperte accanto alla moglie. Ad uno ad uno tutti si sarebbero mutati in ombre. Meglio trapassare baldanzosi nell’altra vita, nel piano della passione, che appassire e svanire a poco a poco nello squallore degli anni. Pensò a come colei che gli giaceva a fianco avesse serbato così a lungo in cuor suo l’immagine degli occhi del suo innamorato quando le aveva detto che non desiderava di vivere.
Lacrime generose gli gonfiarono gli occhi. Non aveva mai provato nulla di simile per nessuna donna, ma sapeva che quello doveva essere veramente amore. Più fitte le lacrime gli velarono gli occhi e nella semioscurità immaginò la figura di un giovane in piedi sotto albero gocciolante di pioggia. Altre figure gli erano accanto. L’anima sua s’avvicinava alle regioni abitate dalla immensa folla dei morti. E pur essendo cosciente di quella loro illusoria e vacillante esistenza, non riusciva ad afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un mondo grigio e impalpabile: la stessa solida terra in cui quei morti avevano un tempo dimorato e procreato, si dissolveva e si rimpiccoliva.
Un battere leggero sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva ripreso a nevicare. Assonnato guardava i fiocchi neri e argentei cadere di sbieco contro il lampione. Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso l'ovest. I giornali dicevano il vero: c’era neve dappertutto in Irlanda. Neve cadeva su ogni punto dell'oscura pianura centrale, sulle colline senz'alberi; cadeva lieve sulle paludi di Allen e più a occidente cadeva lieve sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche lì, su ogni angolo del cimitero deserto in cima alla collina dov'era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli.
E l'anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo, stancamente cadere come scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti.
(James Joyce, da "Gente di Dublino - I morti", ed. Einaudi 1978, traduzione di Franca Cancogni)



(le immagini sono nel mio archivio personale da molti anni, alcune di esse vengono da giornali di quando uscì il film, non saprei più indicarne l'origine)


mercoledì 22 luglio 2020

La volpe (Gone to earth)


La volpe (Gone to Earth, 1950). Scritto e diretto da Michael Powell ed Emeric Pressburger. Tratto da un romanzo di Mary Webb. Fotografia: Christopher Challis. Musica: Brian Easdale. Interpreti: Jennifer Jones, Esmond Knight, Cyril Cusack, David Farrar, Sybil Thorndike, Edward Chapman, Hugh Griffith, George Cole, Beatrice Varley, Frances Clare, Raymond Rollett, Gerald Lawson, e molti altri (nella versione Usa, Joseph Cotten è la voce narrante). Durata: 110 minuti (versione americana è di 82 minuti, alcune scene aggiunte sono state girate da Ruben Mamoulian)

Siamo alla fine dell'Ottocento, in Inghilterra: la giovane Hazel è figlia di una zingara e di un bizzarro personaggio, un arpista che è anche falegname, costruttore di alveari e di bare. Siamo in campagna, nello Shropshire, ai confini con il Galles (vediamo una pietra miliare che ne segna il confine, all'inizio del film); Hazel vive con il padre, in un posto isolato; ha per compagnia la volpe Foxy (una volpe domestica, allevata come se fosse un cane) e altri animali: un corvo, un coniglio, un gatto. La mamma di Hazel non c'è più, ma le ha lasciato un quaderno di appunti, forse stregonerie. Hazel è cresciuta così, nella Natura, ma ha avuto un'istruzione e la città non è molto distante; è molto bella e su di lei cominciano ad arrivare sguardi interessati.
Sembra l'inizio di un thriller, o magari di un horror, ma così non è; e va anche detto che l'interesse di "Gone to earth" è tutto nella sua realizzazione, sono le immagini, i colori, la recitazione, le musiche a lasciare ancora oggi incantati, più che il soggetto in sè. Capita spesso, con Powell e Pressburger; quasi sempre. E' la magia del cinema, allo stato puro.


"Gone to earth" è un capolavoro, talmente ricco di archetipi e di motivi profondi che a tratti mette paura: basti pensare al pozzo della miniera, che si rivelerà il vero centro degli eventi. Dietro la storia di matrimonio e tradimento, in sè e per sè una storia come tante che si sono viste al cinema, e anche dietro al colore locale (lo Shropshire, l'uso del dialetto, i panorami meravigliosi) troviamo un mondo inquietante, appena percettibile nella nostra realtà quotidiana, e che Powell e Pressburger sono maestri nel riuscire a catturare, (si veda la scena di follia in "Narciso Nero"), impresa riuscita a pochissimi altri al cinema, come Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij, e come il miglior Fellini.


"Gone to earth" è il grido dei cacciatori alla volpe; il padre di Hazel è arpista e costruisce arnie, ma anche bare. Il pastore battezza Hazel, sua moglie, per immersione in una sorgente; nella "maledizione" o giuramento di Hazel, "sposerò il primo che me lo chiede", c'è un'eco del Freischütz di Carl Maria von Weber, un parallelo possibile anche per i molti accenni al "cavaliere misterioso" nel libro lasciato dalla madre a Hazel, e David Farrar ha molto di quel cavaliere, faunesco o diabolico. Qui Farrar è molto diverso da se stesso in "Narciso Nero", è più cattivo ma anche più educato, sembra anche più alto, ma il personaggio ha lo stesso significato, l'intrusione del mondo "civile" nell'incanto e nella selvaticità della Natura, intrusione che comprende il sesso. Nel momento "stregato", cioè l'incontro con Farrar dopo il matrimonio con il pastore, Hazel fa un incantesimo preso dal libro di sua madre: alla fine dovrà udire una "musica celestiale", ed è il brano suonato dal padre con l'arpa, di lontano, che ha proprio quel titolo (Harps in Heaven), e che Hazel canta alla fiera.
Al minuto 26 si parla del mondo come di "una trappola", il che mi rimanda a "Stalker" di Andrej Tarkovskij, la nostra meta finale cosparsa di infinite trappole in cui bisogna cercare di non cadere, e che l'apparenza quotidiana ci nasconde - è il padre arpista a dirlo alla figlia, davanti al pozzo senza fine, in una delle sequenze iniziali. Rimandi anche a Leos Janacek, "La piccola volpe astuta": la volpe, gli istinti che non si possono reprimere, lo scorrere del tempo, le stagioni, la Natura, c'è davvero molto in comune con l'opera di Janacek (del 1924), a partire dalla volpe addomesticata come un cane, che qui riesce perfettamente. Un'eco anche di Jane Austen, per il pastore che sposa la ragazza, e al cinema di Dreyer però in Inghilterra.
Sul libro edito da "Bergamo Film Meeting" negli anni '80, Michael Powell parla del dialetto dello Shropshire, che è il suo, in un'intervista che fa pensare a qualcosa di simile al lavoro fatto da Ermanno Olmi in "L'albero degli zoccoli", ma è una questione destinata a sfuggire a chi non è di madrelingua inglese, qui bisognerebbe chiedere a chi è del posto.


Altri possibili rimandi, e appunti presi durante la visione: 1) Il giardiniere e domestico Vessons (Hugh Griffith) sembra uscito da un libro di Lewis Carroll, e ha un ruolo importante. Protegge Hazel nella sua prima notte al castello, poi verrà deriso e si ribellerà quando, dopo aver sparato ai merli, porterà i secchi del latte in casa per dimostrare che il latte non ha preso il colore del sangue, contrariamente alle profezie della ragazza. 2) Vessons costruisce con pazienza un cigno modellando la siepe, alla fine manca solo il becco, ed è per finire la sua opera che non lascerà la casa del suo padrone. 3) quello tra Vessons e lo Squire è un rapporto simile a quello tra Leporello e Don Giovanni (se si preferisce, tra Sganarello e Don Giovanni) con la differenza che Vessons non collabora alle malefatte del padrone, ma si limita alla cura della casa. 4) a 1h32 Hazel chiama il marito "my soul", "mia anima", e questa è la vittoria sul nobile "animalesco": "Ti ha mai chiamato così?" può ora chiedere il pastore al seduttore. 5) la vittoria finale del pastore arriva dopo che il seduttore ha maltrattato la piccola volpe. 6) in casa di Hazel non c'è solo la volpe, vediamo anche un coniglio, un gatto e un corvo, ma solo la volpe ha ruolo da protagonista. 7) il reverendo Marston prenderà in casa gli animali di lei, ma mette il fiocco al gatto, il corvo è in gabbia, anche il coniglio e la volpe sono trattati bene ma meno liberi di prima. 8) altri rimandi possibili per Dreyer (la scena dei parrocchiani contro l'adultera), o per Ibsen (La donna del mare, ma non solo) 9) per il clima di magia e stregoneria, e per l'immersione nella Natura, va anche ricordato Hawthorne, in particolare "Settimio Felton" (si veda la preghiera di Marston, al minuto 45). 10) una curiosità nella scena all'inizio in cui il cugino di Hazel cerca di vendere la margarina, scontrandosi con un cliente che le nega la nobiltà del burro, ma poi quando vuole fare un complimento alla cugina le dice "you're butter", "sei come il burro". La margarina fu brevettata nel 1869, quindi era una novità assoluta per l'epoca; può essere fabbricata con qualsiasi tipo di olio o di grasso, anche di qualità scadente (dipende molto da chi la produce, insomma).


Una menzione particolare va alla fotografia di Christopher Challis, con magnifiche luci e colori magici (è ottima la copia disponibile su youtube, se avete un buon televisore). Il direttore della fotografia, come in altri film di Powell e Pressburger, va considerato come coautore del film, in particolare per le atmosfere inquietanti che poi verranno rubate da Roger Corman & Co nei loro troppo lodati horror degli anni '60: si veda la scena del cane da caccia che ringhia a Hazel, al suo primo ingresso al castello (David Farrar è un possibile modello per i personaggi di Vincent Price in quei film). Molto funzionali le musiche di Brian Easdale, con inserimenti di canzoni popolari eseguite dalla stessa Jennifer Jones; l'elenco qui sotto viene dal sito www.imdb.com
- The Mountain Ash (scritto da Brian Easdale)
- Sigh No More Ladies (versi di William Shakespeare da "Much Ado About Nothing") (musica di Brian Easdale)
- Harps in Heaven (traditional, arrangiato per arpa da Brian Easdale)


Gli attori sono tutti perfetti nei loro ruoli: Jennifer Jones, americana, era già una diva con all'attivo i grandi successi di film come Bernadette, Duello al sole, Il ritratto di Jennie, Madame Bovary. Esmond Knight è il padre di Hazel (che si chiama Abele, "Abel Woodus", un cognome che rimanda al legno); Cyril Cusack è un altro attore importante, di origini irlandesi, che interpreta il reverendo Marston. David Farrar, uno dei fedelissimi di Powell e Pressburger in quegli anni, è Mr. Reddin, il ricco seduttore. Sybil Thorndike è la madre del pastore, Hugh Griffith è il bizzarro maggiordomo Vessons. Il soggetto, tratto da un romanzo di Mary Webb, probabilmente non è gran cosa; ma la realizzazione di Powell e Pressburger è magistrale e la visione di "Gone to earth" è vivamente consigliata a chi ama il grande cinema.





sabato 18 luglio 2020

Blade Runner 2049


Blade runner 2049 (2017) Regia di Denis Villeneuve. Liberamente ispirato ai personaggi di Philip K.Dick. Sceneggiatura di Hampton Fancher e Michael Green. Fotografia di Roger Deakins. Musiche di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, con citazioni da "Pierino e il lupo" di Sergej Prokofiev. Interpreti: Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Robin Wright, Sylvia Hoeks, Carla Juri, Jared Leto, e molti altri. Durata: 163 minuti

Il "sequel" di Blade Runner si svolge nel 2049, cioè trent'anni dopo il primo Blade Runner, che si immaginava nel 2019. Dura quasi due ore e mezzo ed è diretto da Denis Villeneuve, che conferma tutto il suo talento anche in un film come questo, mostrando di avere un background culturale di tutto rispetto. Per esempio, ci sono molti rimandi alla mitologia classica (il mito di Orfeo ed Euridice, soprattutto), c'è molto Tarkovskij (Solaris) a 1h30, soprattutto per le musiche, nella scena d'amore "a tre" (che porterà ad un terzo episodio?), c'è molto Kubrick (Odissea nello spazio) a 1h42, il finale con la stanza bianca quando il giovane replicante giunge a casa di Harrison Ford, c'è anche Fellini (la Ekberg gigante di "Le tentazioni del dottor Antonio") per un attimo, nel finale; ma è tutto risolto in maniera personale, da vero autore. Poi, ci sono anche sganassoni, sparatorie, arti marziali, qualche sequenza da videogame, ma siamo pur sempre in ambito commerciale e si sa che bisogna pur campare e qualcosa bisogna concedere anche a un pubblico meno attento.


Il nuovo "Blade Runner" è molto diverso dal precedente, non c'è più la Los Angeles formicaio ma ci sono città deserte e luoghi in rovina; molte sequenze sono in interni. Il soggetto è questo: si scopre che anche i replicanti possono avere figli, ed è una sorpresa inaspettata anche se sapevamo già dal precedente film che la compagna di Harrison Ford era una replicante progettata in modo diverso dagli altri. C'è un demiurgo cieco, il creatore di androidi, che vediamo all'opera con una ragazza adulta ma appena nata, nuda e coperta da una specie di liquido amniotico (rimando a "Brave new world" di Aldous Huxley); lo stesso "demiurgo" presenterà ad Harrison Ford anziano, nel finale, una replica quasi perfetta di Sean Young, la Rachel del primo "Blade runner": la somiglianza stupisce, ma questa (a 2h14') non ha gli occhi verdi: è un'Euridice falsa, come quella candomblé di "Orfeo negro" di Marcel Camus.


A 2h08 si fa il nome di Rachel, cioè la Sean Young del primo film: è la Rachele biblica, "Dio l'esaudì e la rese feconda" (Genesi, 29-35). La ragazza che fa compagnia a Ryan Gosling è invece un ologramma, un gioco, ma ha coscienza di sè; verrà distrutta nel finale, in una delle sequenze più tristi che io abbia mai visto.


C'è un blackout energetico nel passato, che ha distrutto molti dati e ha concesso a Harrison Ford e ai suoi amici di fare modifiche e depistare le ricerche del nuovo nato (che è femmina): blackout elettrici si sono già verificati diverse volte negli ultimi anni, anche in aree ampie e molto abitate, perfino a New York, e quindi questo dettaglio non va sottovalutato perché è molto realistico.
Ho trovato notevole l'inizio, col ricercato ucciso da Ryan Gosling: è un anziano replicante, ex medico, che coltiva aglio "per se stesso" oltre ad allevare bruchi e larve a scopo alimentare. Da lui, che nascondeva un segreto, parte tutta la storia.


Ryan Gosling ha sulla suoneria del telefonino "Pierino e il lupo" di Prokofiev, ed è un altro dettaglio che rivela l'ottimo background culturale degli autori. Mi ha incuriosito nel finale leggere l'insegna "STELLINE LABORATORY": si direbbe una parola italiana, ed è il posto dove lavora la figlia di Harrison Ford e di Sean Young che si chiama Ana Stelline, una ricercatrice che inventa le memorie artificiali e i ricordi falsi dell'infanzia, per i replicanti - ma di più non posso dire per non rovinare la visione del film a chi ancora non lo conoscesse.


Al minuto 36 il demiurgo cieco, davanti alla "nascita" della ragazza nuda, che poi ucciderà, dice queste cose: « il primo pensiero si rivolge alla paura... preservare l'argilla... è affascinante, prima di sapere che cosa siamo temiamo di perderlo. Benvenuta. (...) Ogni progresso della civiltà è stato costruito sulle spalle di manodopera sacrificabile. Non abbiamo più lo stomaco per gli schiavi, a meno che non siano artificiali. »
Non mi sono segnato i nomi degli autori della sceneggiatura, qui la realizzazione filmica non mi soddisfa molto, e si poteva fare meglio ma queste frasi sono notevoli: quando si nasce, il primo pensiero è la paura, paura di morire forse, di rovinare l'argilla di cui siamo fatti (appena nati sappiamo di essere argilla), non è solo Adamo ma anche Gilgamesh, abbiamo paura di perdere noi stessi anche se non sappiamo ancora di essere noi stessi (né mai lo sapremo). Molto importante, ma non del tutto sviluppato, il tema dello schiavismo e dello sfruttamento del lavoro: una maledizione che accompagna tutta la storia dell'umanità, e che è stato solo in parte eliminato a partire da metà '700, cioè dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, e poi dal socialismo di metà '800. Prima di queste date, è sempre bene ricordarlo, non c'era solo lo schiavismo ma anche il lavoro minorile, e le condizioni di vita dei lavoratori erano pessime. Tra il 1945 e l'oggi, in questa parte d'Europa, abbiamo vissuto un periodo in cui queste maledizioni sono state debellate; ma il rischio di tornare indietro a quelle maledizioni antiche è sempre più grande e non è detto che riguardi altri, probabilmente ci toccherà in prima persona. Mi sarebbe piaciuto vedere più sviluppato questo tema, ma capisco che si tratta pur sempre di un film di intrattenimento ed è già molto quello che è stato possibile comunicare.


Gli autori di "Blade Runner 2049" si chiamano Hampton Fancher (classe 1938, già tra gli autori del primo Blade Runner) e Michael Green (più giovane, autore di Wolverine); il soggetto originale è di Philip K. Dick, spero che tutti lo sappiano. Gli attori e le attrici sono quasi tutti molto giovani, a parte Harrison Ford (ottima prova d'attore ancora una volta): alcuni sono già noti come Ryan Gosling e Robin Wright, altri come Ana de Armas (l'ologramma con coscienza di sè), Sylvia Hoeks (una specie di terminator in versione femminile) e Carla Juri (Ana Stelline) per adesso si fanno notare come presenza, il loro futuro è tutto da scrivere e auguro loro molta fortuna.
C'è molto di più nel film rispetto a quello che avete letto fin qui, ma mi sembra giusto lasciare almeno un po' di sorpresa a chi non ha ancora visto Blade Runner, magari nemmeno il primo.





(le immagini vengono dal sito www.imdb.com)


lunedì 13 luglio 2020

Le serie tv, "belle come al cinema"


Quella sulle serie tv "belle come il cinema" è una frase che si è letta e ascoltata spesso negli ultimi anni, un po' in tutti i contesti (giornali,tv, radio, internet...). Io l'ho sempre considerata come uno slogan promozionale, soprattutto in orbita Netflix, e mi limitavo a un'alzata di spalle perché so da tempo che contano gli autori (attori, registi, sceneggiatori) più che il formato; ma ormai questa frase è obsoleta, quasi scomparsa dalla circolazione perchè si dà il fatto per scontato, "tutti guardano le serie tv" e la questione non esiste nemmeno più. Dato che io non faccio parte di quel "tutti" posso scrivere qualche riflessione in merito.
I nuovi canali tv, da Netflix a Tim Vision a Raiplay (fate voi), basano la loro campagna per gli abbonamenti quasi soltanto sulle serie tv; e mi sta bene, ma prima di spendere soldi per abbonarmi ho cercato di capire quali altri film avessero in archivio, Sky compresa, e non ci sono riuscito. Non si usa più fare un elenco per titolo o per autore, così che basti un motore di ricerca interno per vedere se nel catalogo c'è quello che sto cercando; ci sono le "promozioni" e le spiegazioni, un riassuntino della trama, un'immagine a caso, e soprattutto si dà per scontato che a tutti interessi solo quella data cosa e non altro. E' un po' la replica del sistema utilizzato dalle tv del digitale terrestre (Iris, RaiMovie, etc), in prima serata "quello che guardano tutti" e il resto, capolavori compresi, a notte fonda o alle sei del mattino, da usare come riempitivo. Eppure, anche con i film del passato si può fare audience e molti canali youtube lo dimostrano.
E' una mentalità diffusissima e invasiva, applicata anche al passato: facendo una ricerca su Raiplay trovo scritto cose come "Michelangelo prima serie", "Leonardo prima serie", "Vita di Dante prima serie", come se fosse Beautiful, cioè come se dopo aver raccontato la vita di Dante, Michelangelo e Raffaello i nostri eroi potessero continuare a vivere nuove avventure in un sequel. Viene da dire: magari ci fosse stata la possibilità di girare un seguito sulla vita di Leonardo...

Le serie tv, o i telefilm, chiamateli come volete - in realtà conta chi c'è dietro, se è un autore vero anche la soap opera o la telenovela o lo sceneggiato possono essere dei capolavori, dipende sempre da chi li fa - in verità ci sono sempre state, e i registi del cinema d'autore che hanno girato per la tv o in modo seriale film e sceneggiati sono molti, alcuni dei quali hanno realizzato autentici capolavori. Qualche titolo: "Heimat" di Edgar Reitz, "Decalogo" di Kieslowski, il Francesco Rosi di "Cristo si è fermato a Eboli", "I Clowns" e "Prova d'orchestra" di Fellini, "Padre padrone" dei Taviani, "L'albero degli zoccoli" e tutti i film di Ermanno Olmi, l'elenco è lunghissimo e parte da lontano, sicuramente dagli anni '70 in cui la Rai fece incetta di premi a Cannes e in tutti i principali festival del cinema nel mondo. Questi film uscivano al cinema, anche quelli di dodici ore, ma per la tv si è sempre lavorato e con ottimi risultati. Lavorare non su un film di un'ora e mezza ma su sei o dodici ore può essere un'ottima cosa, se vuoi fare Tolstoi per esempio, e anche questa non è una novità (la si spaccia per novità, ma così non è) ma devi avere delle idee e saperle portare avanti, e questo con le "serie tv" non sempre succede.

Ho visto molti telefilm "a puntate": da bambino mi piaceva "Rin tin tin", poi "Forte Coraggio", che era divertente, uno dei miei preferiti; e molti altri telefilm sia da bambino che da adulto. C'era però una caratteristica costante: dopo le prime dieci puntate cominciavano ad essere meno belli. Gli autori, dopo aver bene impostato i personaggi, dopo un po' non sapevano più cosa fargli fare, e si vedeva. Un po' meglio andava con serie come Bonanza, che però a un certo punto dovette chiudere. Ho voluto rivedere di recente una serie molto famosa, oggi si direbbe un "cult", quella del "Prigioniero" con Patrick Mc Gowan, e ho ritrovato le stesse impressioni avute negli anni '60 e '70: tutto molto bello, l'idea originale, gli attori e le attrici, le scenografie, i colori originali, le location, però dopo la prima puntata tutto diventava molto ripetitivo e anche un tantino noioso. La serie del "Prigioniero", con il protagonista misteriosamente rapito e portato senza spiegazioni in un posto piacevole ma dal quale non si poteva fuggire, di fatto non ebbe mai un finale. Per essere più precisi: il finale esiste, ma è deludente e sembra appiccicato lì per esigenze di produzione. La stessa sensazione l'ho provata in anni recenti con "Lost": tutto bello, attori, location, idee di partenza (non siamo molto distanti dal "Prigioniero") ma a un certo punto mi sono chiesto se mi stavano prendevano in giro e ho lasciato perdere. Sensazioni simili le ho avute con i telefilm "Ufo" degli anni '70, e anche con "Star Trek" che ho sempre trovato molto ripetitivo (parlo dei telefilm). Insomma, personalmente preferisco che ci sia un inizio, uno svolgimento e una conclusione; e in questo avere un limite di tempo aiuta, a meno che non si tratti di Guerra e Pace e di altre storie che non si possono comprimere in un'ora e mezza. Ma qui siamo nel campo dei pareri personali, come è ovvio; liberi di farvi piacere le serie tv e di passare la vostre vite davanti al "Trono di spade", se a voi piace.

Intervistati, attori e registi importanti di cinema e di teatro dicono che sono felici di lavorare per la tv, che offre loro tante possibilità, eccetera: non so quanto siano sinceri. La realtà è che si tratta di lavoro, le nuove generazioni non vanno più al cinema, se vuoi fare l'attore il lavoro è questo qui, da qui arrivano i soldi: non dal teatro né dal cinema ma dalle serie tv. O fai le serie tv, o cambi mestiere, magari ti tocca anche di andare a lavorare. Se a Scorsese o ai fratelli Coen arrivano offerte da Netflix, cosa vuoi che facciano? Se Jude Law e Cate Blanchett ricevono ricche offerte per recitare in una serie tv, vuoi forse che si tirino indietro? La stessa cosa ho pensato di recente per la musica, con il violoncellista Mario Brunello che - unico tra i grandi concertisti - si è dichiarato favorevole allo streaming: lì per lì sono rimasto perplesso, da lui non me lo aspettavo, ma poi ho concluso che è lo streaming che ti dà i soldi, ormai, e che probabilmente è questa la ragione della presa di posizione di Brunello, così come dei Coen e di Scorsese nei loro rispettivi ambiti. Bisogna pur guadagnare, per andare avanti, a meno che non si sia ricchi di famiglia.

Concludo con alcuni estratti da un'intervista recente con un'esperta del genere, che mi sembrano significativi; questa intervista mette in evidenza la mancanza di una vera critica, sostituita da fans militanti e da uffici stampa. C'è da fidarsi? Io direi di no, e anche se so di lasciare qualcosa di bello per strada, non ho voglia di perdere tempo con queste cose. Prima di chiudere ricordo per un istante "Beautiful" e "Un posto al sole", che guardavo per fare compagnia a mia mamma, dove mi toccava constatare con sgomento che da un giorno con l'altro i bambini diventavano ventenni e i loro genitori passavano da ventenni a quarantenni e poi subito nonni. Letteralmente, da una puntata all'altra, come se fosse una cosa normale. Per il resto, "Friends", "Happy Days"... se vi piace guardateli pure, io vado a fare qualcos'altro.
Intervista con Emily Nussbaum
di Riccardo Staglianò, La Repubblica 29 maggio 2020
La televisione era spazzatura. Peggio, era «gomma da masticare per gli occhi», secondo la definizione splendidamente feroce del critico teatrale John Mason Brown. Intrattenimento sempre, arte mai. Un ingombrante pezzo di mobilio. Un medium senza speranza dove «la volgarità è innalzata a potere. Il potere viene abbassato verso la volgarità» sentenziava nel 1980 sul NewYorker George W.S. Trow. Epperò insidioso: «Un additivo sospetto che le aziende avevano aggiunto all'acqua corrente della cultura, un elemento in grado di indebolire la spina dorsale dello spirito» ricorda oggi Emily Nussbaum, che della medesima rivista è stata a lungo critica televisiva, premio Pulitzer e autrice degli articoli di intelligenza pirotecnica raccolti in "Mi piace guardare" (minimum fax). Poi sono successe delle cose. Era il 1999 ed è arrivata I Soprano, «una serie per adulti, qualcosa di cui vantarsi e non scusarsi. E fu quella che definì il modello di “televisione di qualità". (...) « I Soprano enfatizzava l’immaginario più che l'azione, i personaggi più che la trama, attraverso linee narrative spesso lasciate in sospeso a vantaggio della costruzione della storia. Dava l'impressione di un romanzo e sembrava un film».
(mio commento personalissimo: "I Soprano" mi è sempre sembrato una sequenza di luoghi comuni e rimasticature; questo può essere un mio parere discutibile come tutti i pareri, ma quelle della Nussbaum sono definizioni da ultrà, da fan sfegatati, senza riscontri e senza analisi; un "ipse dixit", anch'esse personalissime opinioni più che discutibili).

« (...) cruciale è stato il passaggio dal modello pubblicitario a quello degli abbonamenti. Finché i soldi si facevano solo con gli spot servivano programmi che garantissero un pubblico sufficientemente vasto affinché chi produceva corn flakes o auto ritenesse vantaggioso spendere una fortuna per raggiungerlo. Non si poteva osare troppo, perché servivano numeri importanti. Quando invece si è cominciato a pagare direttamente i canali con gli show si è potuto pensare di fare anche una mini-serie per una nicchia. Perché il plurale di nicchie fa comunque pubblico».
(a me sembra l'elogio della Rai anni 50-70, ma anche dei giornali come L'Espresso o il Manifesto, del cinema, dei giornali dell'Ottocento, eccetera; e comunque si può ricordare che molti registi di cinema per ottenere questa libertà decisero di fondare proprie case di produzione, da Charlie Chaplin a Wim Wenders, la lista è lunga e ormai più che centenaria)

- E' troppo dire che quel passaggio ha coinciso con quello da protagonisti positivi ad anti-eroi?
« Una vecchia regola tra gli sceneggiatori era di non creare mai personaggi che non avremmo voluto far entrare in casa nostra. Autori come David Chase (Soprano) sono cresciuti odiando quelle regole e la tv che ne derivava. Ora quella generazione ha vinto e lo spettro di personaggi che ci piace vedere si è allargato a dismisura. Carrie Bradshaw (Sex & the City) è stata la prima anti-eroina televisiva femminile. Tony Soprano,WalterWhite di Breaking Bad, le spie di The Americans sono tutte persone che, a cose normali, starebbero in prigione e non nel nostro salotto. E invece li facciamo accomodare e gli offriamo anche da bere».
(mie osservazioni: queste cose c'erano già nel cinema degli anni '30, storie di gangsters e di banditi si sono sempre fatte, anche in tv; e, soprattutto: ma questi cosa leggono, cosa studiano, quante ore passano davanti a scemenze, come si fa a vivere di sole cose come queste...)
- Lei scrive che un altro agente di cambiamento è stato il pulsante "pausa" sul telecomando, che ha
trasformato lo spettacolo da un flusso a un testo...
« E' così. Prima c'erano stati i videoregistratori ma era tutto molto laborioso. Quando è stato facile fermare le immagini, risentire un passaggio, magari cercare su internet un riferimento, di colpo nessuna storia è diventata troppo complessa o audace da far digerire. I dialoghi pensati da David Simon per The Wire erano così densi che non sarebbero stati concepibili senza la possibilità di fermarsi un attimo. E no, vi assicuro, non è una cosa che fanno solo i critici o i fan ossessivi. Da onanistica qual era, guardare la tv é diventata una pratica molto più sociale».
(ripeto: ma da dove vengono, dove vivono, cosa fanno, quanti anni hanno? con le vhs e con i dvd era già possibile tornare indietro e mettere in pausa un film già trent'anni fa...sembra che stiano dicendo che oggi "anche un cretino può farlo") (e io che guardavo Bergman e Kurosawa e Tarkovskij al cinema, in sala, al buio, senza la possibilità di fermarsi e rivedere: forse oggi manca la capacità di capire un film dall'inizio alla fine, manca la concentrazione necessaria, non si riesce a stare attenti più di dieci minuti di fila, è questo che stanno dicendo?...)


(...)
- E com'è possibile allora che dalla raccolta sia rimasto fuori Breaking Bad? E il suo prequel Better Call Saul?
«Ahahaha! Un po' rimpiango di non averla inclusa. Avevo cominciato a scriverne quando poi mi è venuta un'idea per un saggio su Archie Bunker, protagonista di una grandiosa vecchia serie, che mi ha dato modo di affrontare il tema dei "bad fan", i"fan cattivi", ovvero quelli che tifano spudoratamente perché il protagonista continui a fare cose riprovevoli, come per White vendere metanfetamina. E non volevo ripetermi! A dire tutta la verità, ho un problema con il finale della serie: è come se gli autori si fossero innamorati troppo della loro creatura, in una sorta di transfert psicoanalitico che non mi ha convinto. Per non dire dell'altro problema con Skylar, la moglie. Insomma, riconosco che è una grande serie, ma con alcune riserve. Quanto a BCS, non ho amato la prima stagione e mi sono arenata. Poi mi è capitato di sentire amici che mi invitavano a riprovare, dicendo che avevano anche risolto alcuni dei punti critici di BB, incluso migliorare lo spessore dei personaggi femminili. Se me lo dice anche lei magari ci riproverò!».
(mi viene da dire: "ma, e andare a lavorare?". La maggior parte della gente lavora, ha una vita oltre la tv, ma questa qui non sa cos'è una fabbrica...) (sono sorpreso che un bravo giornalista come Staglianò si presti a queste cose, e se questa è davvero Emily Nussbaum significa che il livello della critica è davvero infimo, e se danno poi il Pulitzer a una così...) (mamma mia)


(nelle immagini, dall'alto: un fotogramma da "Good morning" di Yasujiro Ozu, 1959; "The prisoner" con Patrick Mc Gowan; Larry Storch e Melodie Patterson in "Forte Coraggio"; Bonanza; Get Smart; Fame-Saranno famosi; dell'ultima non ricordo il titolo italiano, è un antenato di "Friends" che ebbe molte riprese e molto successo)

venerdì 10 luglio 2020

Non toccare la donna bianca



Non toccare la donna bianca (1974) Regia di Marco Ferreri. Scritto da Marco Ferreri e Rafael Azcona. Fotografia di Etienne Becker. Musiche di Philippe Sarde, con citazione dal "Gianni Schicchi" di Puccini. Interpreti: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Henri Piccoli, Alain Cuny, Serge Reggiani, Catherine Deneuve, Monique Chaumette, Paolo Villaggio, Franco Fabrizi, Danny Cowl, Franca Bettoia, Marco Ferreri, Francine Custer, Gianmarco Tognazzi, e molti altri. Durata: 1h45'

"Non toccare la donna bianca" esce nel 1974, subito dopo "La grande abbuffata" e subito prima di "L'ultima donna"; è il periodo di maggior successo per Marco Ferreri, che può contare su attori amici e complici, tutti di grandi qualità e di grande popolarità. Il punto di partenza è il western classico, e più precisamente uno dei grandi momenti dell'epica americana, la battaglia di Little Big Horn con Toro Seduto, il generale Custer e il Settimo Cavalleggeri, ma tutto rivisitato in una maniera a metà strada fra la satira politica e il puro divertimento, come se autori e attori fossero tornati bambini e volessero giocare ai cowboys e agli indiani.


Visto da oggi, dopo più di quarant'anni, la prima impressione è che il divertimento venga prima di ogni altra cosa: il film è divertente e tutti i partecipanti vi appaiono molto divertiti, è un bel gioco e si gioca. Dietro ci sono discorsi seri e profondi: gli indiani, Custer, la proprietà privata, bisognerebbe riparametrarsi a quel 1974 e non è sempre facile anche se alcuni temi si colgono ancora, come il personaggio collegato alla CIA (interpretato da Paolo Villaggio) che fa pensare a Henry Kissinger, al colpo di Stato in Cile del 1973, a Piazza Fontana (1969), e prima ancora a Mossadeq in Iran (anni '50), alla morte di Enrico Mattei, e a tanto altro ancora. Tutto però è volto in gioco, in scherzo, e penso che sia quasi impossibile per una persona che ha meno di trent'anni riuscire a capire bene cosa succede in "Non toccare la donna bianca"; e probabilmente anche chi ha più di quarant'anni avrà perso la memoria su cosa succedeva in quegli anni, e che purtroppo continua a succedere ancora (non da noi, per ora, per nostra fortuna).


Per divertirsi con "Non toccare la donna bianca", inoltre, bisogna aver visto tanti western, ma proprio tanti, e di quelli veri; per mia fortuna, ho l'età giusta per poter capire e gustare le molte citazioni presenti nella sceneggiatura, ma non è detto che sia così per tutti. Un titolo di riferimento, quasi d'obbligo, è "Il massacro di Fort Apache" di John Ford, del 1948, con Henry Fonda e John Wayne, dove il nome di Custer non viene mai fatto ma dove i riferimenti a Custer sono molti e molto evidenti; e magari anche "Piccolo grande uomo" di Arthur Penn (1968), ma va detto che i film americani su Custer e sul Settimo Cavalleggeri sono molti e l'elenco sarebbe molto lungo. Gli indiani di Ferreri sono rifatti sui modelli presenti in quei film, non c'è razzismo in "Non toccare la donna bianca" ma solo citazione, parodia, voglia di giocare; alla fine, inoltre, sono proprio gli indiani a vincere.

"Non toccare la donna bianca" è stato girato all'interno del grande cantiere parigino presente all'inizio degli anni '70 sull'area dove c'erano Les Halles e oggi c'è il Beaubourg; per maggiori dettagli metto qui un link molto utile. 
Gli attori sono tanti, e tutti meriterebbero una citazione ma proprio perché sono tanti si rischierebbe di fare confusione, perciò mi limito ai personaggi principali cominciando dagli indiani: Alain Cuny è Toro Seduto, Serge Reggiani è il Matto (profetico e nudo, alla fine capo politico che porta alla vittoria i suoi), Henri Piccoli è il padre di Toro Seduto, che ucciderà Custer; nella vita reale era il padre di Michel Piccoli e questo è il suo unico film.
Mastroianni è Custer, Noiret è il generale Terry (sarebbe il capo di Custer, ma la gente reclama Custer, molto più popolare). Tognazzi è Mitch il meticcio, guida indiana di Custer: è a lui che Custer si rivolge con la frase del titolo, più di una volta. Mitch ha per moglie Franca Bettoia (moglie di Tognazzi nella vita reale) e per figlio Gianmarco Tognazzi (ancora bambino). Franco Fabrizi è il fratello di Custer, che gli tiene in ordine i conti; Danny Cowl è il maggiore Archibald, che impaglia i cadaveri usando carta di giornale, e Michel Piccoli è Buffalo Bill. Catherine Deneuve e Monique Chaumette sono le dame di carità e infermiere, Paolo Villaggio è un sedicente antropologo in realtà membro della CIA (riferimenti a Kissinger, al Cile...). Marco Ferreri è un giornalista e fotografo, Francine Custer (sic) è la figlia del generale Terry.
Molti attori non italiani parlano con la loro voce, come Reggiani e la Deneuve, altri sono doppiati (Piccoli, Noiret, Cuny). Le musiche sono di Philippe Sarde, e comprendono anche una citazione da Puccini, l'aria famosa "O mio babbino caro" dall'opera "Gianni Schicchi".




(le immagini vengono dal sito www.imdb.com, 
il poster qui sopra è opera di Moebius, 
che nel 1974 si firmava ancora con il suo vero nome, Jean Giraud)