venerdì 28 febbraio 2020

L'ingorgo (Comencini)



L'ingorgo (1979) Regia di Luigi Comencini. Scritto da Comencini, Maccari e Zapponi. Fotografia di Ennio Guarnieri. Musiche di Fiorenzo Carpi. Interpreti: Alberto Sordi, Orazio Orlando, Annie Girardot, Fernando Rey, Marcello Mastroianni, Gianni Cavina, Stefania Sandrelli, Ugo Tognazzi, Angela Molina, Gerard Depardieu, Patrick Dewaere, Miou Miou, Harry Baer, Ciccio Ingrassia, Nando Orfei, Josè Sacristan, Solvi Stubing, Giovannella Grifeo, e molti altri. Durata: 120 minuti

"L'ingorgo" di Comencini è un film terribile e di grande pessimismo, purtroppo per noi ancora molto attuale. Le automobili rimangono bloccate sull'autostrada, nessuno ne conosce il motivo ma non si riesce più a ripartire, quasi come in "L'angelo sterminatore" di Buñuel ma senza il finale liberatorio. Ci sono molti momenti leggeri, buone battute, ma si capisce bene come questo film, uno dei capolavori del cinema italiano, sia stato immediatamente rimosso e dimenticato. "Rimosso" è un termine della psicoanalisi: la rimozione, secondo la definizione di wikipedia, è un meccanismo psichico che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e intollerabili dall'Io, e la cui presenza provocherebbe vergogna.
Più che comprensibile, dunque, che nelle rievocazioni della "commedia all'italiana" sui canali commerciali "L'ingorgo" sia il grande assente: vorrai mica cominciare a far pensare gli spettatori?
 
 
Gli attori sono molti: Alberto Sordi fa coppia con Orazio Orlando (un deputato e il suo factotum), Annie Girardot con Fernando Rey (coppia innamoratissima anche dopo 40 anni, che finirà con il litigare). Marcello Mastroianni interpreta un attore famoso che per sfuggire al caldo si rifugia a casa di un ammiratore (Gianni Cavina) e di sua moglie (Stefania Sandrelli): Cavina gli mette la moglie nel letto pur di avere una raccomandazione per un posto a Cinecittà. Il trio formato da Ugo Tognazzi, Angela Molina e Gerard Depardieu mostra la tresca fra un quasi senatore e la giovane moglie di Depardieu. Poi ci sono Patrick Dewaere, Miou Miou, Harry Baer, Ciccio Ingrassia (moribondo sull'ambulanza bloccata nel traffico, ma vispo), Nando Orfei (padre di famiglia alle prese con l'aborto della figlia), Solvi Stubing, Giovannella Grifeo, e molti altri.

Alcune scene sono inevitabilmente invecchiate, altre sono ancora di grande attualità: personalmente sottolineo la battuta "più strade fanno più macchine ci sono in giro", tragicamente vera, sempre più vera in questo 2020 in cui si continuano ad aprire nuove strade per far arrivare il traffico anche dove prima non c'era. Si può fare qualche parallelo con "Prova d'orchestra" di Fellini, altrettanto tragico e altrettanto incompreso; ma se nel film di Fellini c'è una via d'uscita, seppure preoccupante, nel film di Comencini lo stallo permane fino alla fine, dando luogo anche a comportamente violenti e aberranti. E' terribile la scena dello stupro di gruppo, con i tre uomini armati che assistono e non muovono un dito: sono armati "per la sicurezza, con tutti i delinquenti che ci sono in giro", ma non fanno nulla per impedire la violenza che viene compiuta davanti ai loro occhi.
 

Nel finale, a 1h40 dall'inizio, il vispissimo Ciccio Ingrassia muore però nell'ambulanza, ferma anch'essa nell'ingorgo, senza poter raggiungere l'ospedale; l'orazione funebre viene assegnata a un uomo sui trent'anni (l'attore si chiama Josè Sacristan) che non sembra un prete ma una persona come tante, e che comunque Alberto Sordi chiamerà reverendo:
l'uomo: Noi ti ringraziamo, Signore, di aver chiamato a te e accolto nel tuo seno quest'uomo, togliendolo dai disastri del mondo. Salvaci, o Signore, salvaci dalla plastica, salvaci dalle scorie radioattive, salvaci dalla politica di potere, salvaci dalle multinazionali, salvaci dalla Ragion di Stato, salvaci dalle parate, dalle uniformi e dalle marce militari, salvaci dal disprezzo per i più deboli, salvaci dal mito dell'efficienza e della produttività, salvaci dai falsi moralismi, dalle menzogne della propaganda, Rispettate la Natura, amate la vita, congiungetevi carnalmente nel rispetto del prossimo, fornicare non è peccato se è fatto con amore. Amen. (segno di croce)
Sordi: Permette, reverendo? Ho ascoltato le sue parole, sono bellissime. Io controllo una casa editrice, le piacerebbe collaborare?
l'uomo: No, grazie. (si allontana)
Sordi: (perplesso) Ma perché?
 
Il film si chiude con la storia del bambino che dorme, nel racconto della mamma in auto: il bambino è perfetto in tutto, "solo che dorme". Lo hanno portato anche a Lourdes, ma dorme da sette anni; per il resto è normale. Molto bello il primo piano di questa madre, direi che viene direttamente dalle interviste tv di Comencini. E' un finale beckettiano, "rien à faire", Godot non arriverà. O, forse, siamo già a "Finale di partita".


 

 
 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 
 

martedì 25 febbraio 2020

I compagni (Monicelli)



I compagni (1963) Regia di Mario Monicelli. Scritto da Age e Scarpelli. Fotografia di Giuseppe Rotunno (bianco e nero) Musiche di Carlo Rustichelli. Interpreti: Marcello Mastroianni, Bernard Blier, Renato Salvatori, Gabriella Giorgelli, Folco Lulli, Giampiero Albertini, Mario Pisu, Vittorio Sanipoli, Kenneth Kove, François Perier, Raffaella Carrà, Annie Girardot, e molti altri. Durata: due ore

"I compagni" è uno dei film migliori di Monicelli, sfiora il capolavoro. Racconta uno sciopero nella Torino di fine Ottocento, in una tessitura (nel film si chiama Buratti-Pavesio), raccontato con ironia e dramma, da grande narratore, con momenti tragici (due operai morti) e comici. Il finale è amaro, con il fratellino del ragazzo rimasto ucciso dalla cavalleria che alla fine abbandona la scuola ed entra in fabbrica. La lotta, va ricordato, è per fare tredici ore di lavoro invece di quattordici. Questo è il mondo da cui siamo arrivati, ce ne scordiamo troppo spesso e diamo troppe cose per scontate, ma senza le lotte dei nostri nonni e bisnonni non avremmo avuto il benessere a cui oggi siamo abituati, compresi gli operai e i loro figli. Spiace anche che Monicelli sia ricordato per film più superficiali o banali, come "Amici miei" o "Il marchese del grillo": Monicelli ha girato film belli, importanti come questo o come "La grande guerra", divertenti come "Brancaleone" o "I soliti ignoti", meriterebbe più attenzione anche dai suoi ammiratori - presunti, o sedicenti ammiratori, che in realtà riducono Monicelli a poca cosa, come se fosse uno dei tanti. Per molti aspetti, "I compagni" può essere considerato come un precursore di "Novecento" di Bertolucci, anche dal punto di vista della bellezza delle immagini.


E' un film di attori, difficile da raccontare scena per scena, e gli attori sono tanti e tutti bravi: Marcello Mastroianni è il professore di liceo che va a diffondere idee nuove, Bernard Blier è uno dei capi operai (si farà convincere a tradire dai capi fabbrica). Renato Salvatori è l'operaio giovane che inizia da scettico e poi prenderà coscienza; Gabriella Giorgelli è la ragazza che ama, anch'essa figlia di operai. Folco Lulli ha una parte importante, che finirà in modo tragico. Tra gli operai anche Giampiero Albertini, e molti altri attori. I dirigenti della fabbrica sono Mario Pisu, Vittorio Sanipoli, e Kenneth Kove nei panni del vecchio proprietario. François Perier è il maestro di scuola; Raffaella Carrà, giovanissima, è la figlia del siciliano immigrato a Torino. C'è anche Annie Girardot, figlia di un operaio che ha scelto la vita da cortigiana di lusso e ha un breve flirt con Mastroianni.
Fotografia di Rotunno (in bianco e nero), musiche di Rustichelli con la canzone che fa da leitmotiv e che dice "tirala pur la cinghia ma non caliam le braghe" (pare che sia proprio sua, e non d'epoca).









giovedì 20 febbraio 2020

Il tè nel deserto


Il tè nel deserto (The sheltering sky, 1990) Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un romanzo di Paul Bowles. Sceneggiatura di Mark Peploe e Bernardo Bertolucci. Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche di Ryuichi Sakamoto, "Midnight sun" di Lionel Hampton, musica tradizionale marocchina. Interpreti: Debra Winger, John Malkovich, Campbell Scott, Timothy Spall, Jill Bennett, Nicoletta Braschi, Amina Annabi, Sotigui Kouyaté, Eric Vu An, Paul Bowles, Enrico Maria Salerno (voce narratore nella versione italiana). Durata: 2h12'

"Il tè nel deserto", uscito nel 1990, si situa tra "L'ultimo imperatore" e "Il piccolo Buddha", due dei più grandi successi internazionali di Bertolucci, e rischia di uscirne un po' schiacciato, quasi dimenticato. Tratto da un romanzo dell'americano Paul Bowles (1910-1999, che recita se stesso nel film) racconta la storia di tre viaggiatori (viaggiatori e non turisti, come si tiene a specificare nei dialoghi) nel Sahara, partendo da Tangeri per inoltrarsi nell'interno. E' una storia tragica, sia pure con momenti di serenità; ed è anche la storia di amori e tradimenti, ma quello che più conta, per Bowles e per Bertolucci, è proprio il perdersi, lo smarrire la propria identità in un ambiente a noi straniero e ostile nella sua natura.


"Il tè nel deserto" è la storia di una deriva, di un naufragio e della conseguente deriva della protagonista. Protagonista è una giovane donna di nome Kit, interpretata da Debra Winger, che vedrà il marito (John Malkovich, il nome del personaggio è Port) morire di tifo nel deserto, senza poterlo salvare; inseguita e cercata dal loro comune amico Tunner, si nasconderà da lui per lasciarsi andare definitivamente. Non sappiamo che fine farà Kit: alla fine del film, anziché riconsegnarla al povero Tunner che la stava cercando disperatamente, Bertolucci la riporta a Paul Bowles in persona, come l'avevamo vista nell'inizio del film, e nello stesso bar; è il personaggio che torna all'autore, felice come se fosse tornata a casa. Siamo a 2h05' dall'inizio:
- Si è perduta? - chiede la voce del narratore, fuori campo.
- Sì...- risponde Debra Winger, e un sorriso le illumina il volto, solo per un attimo.
E', con ogni evidenza, un ricongiungimento; ed è della morte che si sta parlando, quel sorriso appena percettibile, forse un anticipo del "Piccolo Buddha", rivela l'anima che è tornata a casa. Del film e del suo soggetto, a questo punto, non ci importa più; diventa tutto secondario. Bertolucci ci mostra il volto silenzioso dell'autore, e la voce fuori campo del narratore completa il discorso con le parole di Paul Bowles:
- Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza di esso non riuscite neanche a concepire la vostra vita... forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete la luna? Forse venti... eppure, tutto sembra senza limite.
A mio livello personale, ascoltando queste parole mi sorge il ricordo di "L'invenzione di Morel", di Adolfo Bioy Casares; ma non conosco Bowles e potrei sbagliarmi.
Qui finisce il film, a 2h12 finiscono anche i titoli di coda.


Vedendo qui Bowles è quasi inevitabile pensare a Omero, magari quello di Borges, immortale e smemorato come gli immortali di Swift (I viaggi di Gulliver). Questa citazione si ricollega alla riflessione dell'inizio del film, sempre con Bowles e sempre nello stesso bar; è la breve apparizione di Nicoletta Braschi, al minuto 8 dall'inizio:
- ... poiché né Kit né Port avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi commesso il fatale errore di considerare confusionalmente il tempo come inesistente; un anno era come un altro, alla fine tutto sarebbe potuto accadere.
Di seguito Port racconta un suo sogno, dove non riesce a gridare, davanti a un muro di lenzuola; sua moglie Kit lo legge come un presagio, si alza e si allontana. Siamo a Tangeri, in Marocco, nel 1947, e i tre americani sono in viaggio di piacere: il compositore Port (John Malkovich) e sua moglie Kit (Debra Winger) più l'amico Tunner, giovane e bello, ricco e invadente. Tunner è l'amante di Kit, Port lo sa o lo sospetta, e sarà proprio per tener lontano Tunner che si troverà solo e malato in mezzo al Sahara, febbre tifoidea. Kit lo aiuta, ma da sola non potrà far altro che accompagnarlo verso la morte; da qui poi la sua deriva.
 

E' all'inizio del film la distinzione fra turista e viaggiatore:
- Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento in cui arriva, invece un viaggiatore può anche decidere di non tornare affatto (minuto 4 dall'inizio)
Tunner è interpretato da Campbell Scott, che scopro essere figlio di George C. Scott: alto ed elegante, sottile, lineamenti fini, non gli somiglia affatto ed è difficile rendersene conto (avrà preso dalla mamma?). E' il personaggio di cui mi ero dimenticato prima di rivedere il film dopo tanti anni, così come mi ero dimenticato dei Lyle, la madre scrittrice di libri di viaggio e il figlio alcolizzato che le fa da autista, sempre in cerca di soldi perché la madre lo tiene a stecchetto: due ottimi attori inglesi, Jill Bennett e Timothy Spall, e due personaggi che svolgono un ruolo importante nella storia raccontata. La voce del narratore, cioè Paul Bowles, nella versione italiana è affidata a Enrico Maria Salerno e nell'originale inglese è dello stesso Bowles.
Tra gli altri interpreti, oltre ad Amina Annabi (difficile da dimenticare), si vedono brevemente Sotigui Kouyaté, fresco reduce dal Mahabharata di Peter Brook, e il ballerino dell'Opera di Parigi Eric Vu An, che è il fascinoso tuareg del finale.
Vittorio Storaro, direttore della fotografia, crea per "Il tè nel deserto" un altro dei suoi capolavori, davvero un continuo incanto di luce e di colori. "The sheltering sky", il cielo che ti protegge (shelter in inglese è "riparo, rifugio", ma anche "pensilina"), è il titolo originale e il senso di questo titolo è reso benissimo da Storaro: basti vedere il cielo sopra Kit e Port nella loro scena d'amore, dopo la "fuga" in bicicletta, da soli.
 

Sempre a livello mio personale, per quel che può interessare e lasciando da parte per un attimo la bellezza delle immagini e la profondità della storia, "Il tè nel deserto" è il film di Bertolucci che mi ha creato più problemi, fin dalla prima volta, al cinema. Per me questo film rappresenta l'increscioso incontro con il cinema multisala (il teatro Odeon appena berlusconizzato, 1990) e con le sue salette piccole. Pensare di proiettare un film così spettacolare in una piccola sala, magari mandando lo spettatore in prima fila a testa in su per due ore, mi era sembrata davvero una fesseria, uno scandalo; ma poi i multisala hanno preso il sopravvento e oggi è quasi impossibile vedere proiettato un film nella maniera giusta: meglio il salotto di casa, è una triste constatazione e nessuno osa dirlo apertamente, ma ormai le nuove generazioni spesso non sanno nemmeno cosa sia un cinema e guardano tutto direttamente sullo smartphone. Se i giovani entrano in un cinema, in un multisala soprattutto, rischiano di dover pensare "tutto qui?", e avrebbero tutte le ragioni di pensarlo. Per me, insomma, e sempre a livello mio personale, "Il tè nel deserto" rappresenta la fine del cinema; non per colpa di Bertolucci, sia ben chiaro, ma per colpa di chi ha gestito questa mutazione. Abbandonato il multisala, andai a vedere "Il tè nel deserto" al cinema President o all'Ambasciatori, sempre a Milano, in una proiezione come si deve; ma ormai anche il President non esiste più da tempo immemorabile. Devo anche dire che queste storie di ricchi sfaccendati in giro per il mondo (così è, dispiace dirlo) sono lontanissime dalla mia sensibilità e non riesco a riconoscermi. E' la storia in sè che probabilmente fa fatica a reggersi, i personaggi sono poco gradevoli e spesso supponenti, e tutto tende a suonare falso; il finale però è molto bello, gli ultimissimi minuti riscattano tutto ciò che (sempre secondo me) non aveva funzionato.

Notevoli i titoli di testa, con la partenza in nave da New York mostrata con filmati d'epoca (la festa per la fine della guerra, nel 1918) sulle musiche di "Midnight sun" suonata da Lionel Hampton. Si ascoltano anche molte musiche tradizionali marocchine o d'ambiente arabo, ben collocate all'interno della storia. Non mi sono piaciute le musiche di Sakamoto, sono funzionali ma è un saccheggio continuo da Wagner, da Mendelssohn, e da tanti altri ancora.
(...) ma il Sahara, più che generare una rinnovata geografia della passione, finisce per produrre uno sradicamento totale; e i due amanti vi si ritrovano, in modo diverso, irrimediabilmente perduti. Tornato ai temi strazianti di Ultimo tango a Parigi, l'ultimo Bertolucci incanta, disorienta e inquieta.A volte si perde, e ci perde, nei cunicoli di luce e buio delle casbah; altre volte dà l'impressione di essere più turista che viaggiatore, cioè uno che si sposta - secondo l'iniziale citazione di Bowles, solo pensando al momento di tornare a casa. (a Hollywood e agli Oscar?) Poco risolto è il rapporto con i luoghi (i personaggi sono in cerca di un luogo, invece che generati da esso come in Ultimo tango, Strategia del ragno, Novecento), mentre è palesemente a disagio lo sguardo nel filmare gli "indigeni" (che forse Bertolucci, come Kit, ama tutti insieme ma mai uno alla volta). Ma poi, a deriva ultimata, viene il sospetto che questo disagio e questa irresolutezza siano il pregio del film, e che il meglio che si possa chiedere al cinema oggi è di renderci affettuosamente perplessi. Un film disincantato. (Gianni Canova, Repubblica Tuttomilano 3 gennaio 1991)
"Quante volte abbiamo osservato il sorgere del sole? Una ventina di volte in tutto, e tuttavia siamo convinti che di albe sia impregnata tutta la nostra vita" - è l'amara campana a morto del narratore-autore nella sequenza finale. "Ci sono ricordi d'infanzia senza i quali sembra che la nostra esistenza non avrebbe un senso, ma quei momenti di magia non ci capita di evocarli che quattro o cinque volte durante l'intera esistenza..." Film di fastosa autoelisione, costruito per progressive scaglie sonore (...) (Gianni Canova, Repubblica Tuttomilano 3 gennaio 1991)
 


 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 

lunedì 17 febbraio 2020

The Company Men (John Wells)


The company men (2010) Scritto e diretto da John Wells. Fotografia di Roger Deakins. Musiche di Aaron Zigman. Interpreti: Ben Affleck, Tommy Lee Jones, Craig T. Nelson, Chris Cooper, Kevin Costner, Maria Bello, Rosemarie de Witt, Patricia Kalember, e molti altri. Durata:110 minuti.

Un giovane e promettente manager si ritrova licenziato e fatica a rendersi conto di cosa succede; più vicina alla realtà è la moglie che capisce subito che non si potrà più pagare il mutuo della ricchissima casa in cui vivono, e questo è solo l'inizio. Inutili anche i "corsi" per riqualificare i manager licenziati, inutili i contatti con persone influenti che credevi amiche, inutili colloqui e inserzioni, inutili anche le agenzie. Dietro il licenziamento del giovane c'è una storia di management e di finanza spregiudicata, ma questo è solo l'inizio del film.
Il soggetto di "The company men" è molto simile a quello di "Margin call" di J.C.Chandor (che uscirà un anno dopo), ma il regista John Wells viene dai telefilm (E.R. e altre) e la differenza si vede, lo stile del racconto è più scolastico ed è basato soprattutto sulle singole storie dei protagonisti; si tratta comunque di un film di buon livello, e molto interessante. Devo dire che mi è molto difficile entrare in empatia con questi personaggi, dipinti come simpatici e piacevoli quando non lo sono affatto (qui "Margin call" sarà più vicino alla realtà) e che vedere il mondo operaio (qui rappresentato da Kevin Costner) rappresentato come "altro" è l'opposto del mondo in cui io sono cresciuto (quindi, per me ancora più estraneità) però il film è buono, ben fatto, e l'intento con cui è realizzato è più che lodevole. Buoni gli attori, anche se non siamo ai livelli di "Margin Call".
 

C'è un discorso appena accennato e che secondo me meritava invece più spazio: il nuovo business è la sanità. Come da noi in Italia, si è scoperto che è un settore che rende; è appena il caso di ricordare che da noi uno dei primi a muoversi in questa direzione (i ticket sanitari, l'apertura ai privati) è stato di recente condannato a cinque anni di carcere, condannato in via definitiva (per chi non ci arriva, si tratta di Roberto Formigoni, per quindici anni consecutivi governatore della Lombardia). La ditta del film, "The Company", fu fondata a partire dai cantieri navali, dal lavoro manuale cioè; i cantieri, ormai quasi abbandonati, vengono venduti all'inizio del film. L'industria pesante non dà più profitti come era prima, quindi si chiude e si licenzia, ed è questa la "normalità" per i manager del Nuovo Millennio. Di quel periodo iniziale, del cantiere navale, sono rimasti solo in tre: i più anziani, tre dirigenti, tutti sui sessant'anni. Uno è il grande capo (Craig T. Nelson) che si disferà alla fine anche dei due più fidati dei suoi vice, come lui due ex operai del cantiere originario: uno è quello interpretato da Tommy Lee Jones, che se la caverà nonostante tutto e proverà a far ripartire il cantiere ora abbandonato. L'altro è il più fragile Phil, interpretato da Chris Cooper, che invece si toglierà la vita non potendo più pagare il mutuo e la scuola di sua figlia.

Il protagonista dovrebbe essere Ben Affleck, ma mi è davvero difficile solidarizzare con questo suo personaggio; che nel film verrà "redento" dal lavoro manuale, quasi come la storia del sultano malato nelle "Mille e una notte". Nelle "Mille e una notte" il giovane sultano è malato e nessun medico riesce a guarirlo; alla fine uno sconosciuto ci riesce, ma facendolo lavorare duramente, come un operaio o come uno schiavo. In realtà, il medico venuto da lontano aveva la medicina giusta e poteva dargliela direttamente, ma ha preferito metterla sugli strumenti di lavoro (pala, piccone...) così da farla assorbire al sultano malato tramite la pelle. La storia continua, ma è meglio tornare al film. Il personaggio affidato a Ben Affleck ha una moglie che gli vuol bene e lo sostiene (Rose Marie de Witt), due figli adolescenti (maschio e femmina), e anche un suocero affettuoso ma burbero (Kevin Costner) che è un operaio che si è messo in proprio e che lo aiuterà a rinascere facendolo lavorare nel suo cantiere edile (infissi, pannelli di legno, eccetera).
Tra gli altri attori, tutti di buon livello, segnalo Maria Bello che è l'addetta alle "risorse umane" (capo del personale), aitante e giovane amante di Tommy Lee Jones, un personaggio a cui si cerca di dare una carica di umanità, il che è fantascienza (mia esperienza personale, chiedo scusa se qualcuno si sente offeso) però Maria Bello è apprezzabile nella sua interpretazione.

 
Mi sono segnato questo monologo di Phil, nel finale, poco prima del suicidio: l'amico e collega (Tommy Lee Jones) lo trova intento a tirar sassi, di notte, contro la sede della compagnia:
Phil: ... la cosa brutta è che il mondo non si è fermato. Ogni mattina trovo ancora il mio giornale, quel cavolo di impianto di irrigazione parte alle sei, e Jeff il mio vicino ogni domenica lava la sua auto. La mia vita si è fermata, e nessuno se ne è accorto.
(da "The company" di John Wells a 1h16)
E così è di molti altri, e anche di me, che però non fui mai dirigente e mai guadagnai così tanto.

 
"The company men" è un film da conoscere, perché tocca direttamente la cronaca degli ultimi anni; consiglierei di vederlo abbinandolo a "Margin Call" di J.C. Chandor, ce ne è abbastanza per un saggio o per una tesi di laurea.

 
 
 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 
 

venerdì 14 febbraio 2020

Il Jekyll di Giorgio Albertazzi


Jekyll (Rai, 1969) Regia di Giorgio Albertazzi. Liberamente tratto dal racconto di Robert Louis Stevenson. Sceneggiatura di Ghigo De Chiara, Paolo Levi, Giorgio Albertazzi. Fotografia: Stelvio Massi. Musiche di Gino Marinuzzi jr. Interpreti: Giorgio Albertazzi (Jekyll), Massimo Girotti (Utterson), Claudio Gora (Lanyon), Bianca Toccafondi (Paula), Marina Berti (signora Utterson), Ugo Cardea (Lévy), Ursula Davis (Ingrid), Bruno Cirino, Orso Maria Guerrini, Nicoletta Rizzi, e molti altri Durata: quattro puntate di un'ora circa ciascuna.

Quando venne messo in onda il Jekyll di Giorgio Albertazzi, nel 1969, io ero ancora un bambino e non avevo mai letto il racconto di Stevenson anche se ne avevo una vaga idea; conoscevo Stevenson solo attraverso "L'isola del tesoro" e "La freccia nera" e l'avrei scoperto come autore importante e profondo solo una decina d'anni dopo, grazie a Jorge Luis Borges (Finzioni, L'Aleph, Altre inquisizioni...). Ricordo però lo stupore e l'impressione che destò, perché fino ad allora Mr.Hyde al cinema era sempre stato una specie di uomo lupo o di scimmione peloso, con tanto di metamorfosi a vista. Gli occhi dall'iride bianca di Albertazzi/Hyde facevano impressione, e sono stati un'idea di notevole intelligenza. Si può far notare che nel racconto originale di Robert Louis Stevenson, datato 1885, non c'è una descrizione precisa dell'aspetto di Hyde: si dice solo che è di bassa statura (Hyde deve rimboccarsi i pantaloni, le giacche gli vanno larghissime) e che tutti lo trovano sgradevole, ripugnante, anche se non sanno dire che cosa ci sia nel suo aspetto per giustificare la ripugnanza. Per esempio:
Era un uomo di bassa statura e di abbigliamento piuttosto ordinario, ma il suo aspetto generale, perfino da quella distanza, era in qualche modo tale da suscitare un'inclinazione tutt'altro che benevola nei suoi riguardi. (...) (capitolo II, il primo incontro di Utterson con Hyde)
(...) i pochi che lo avevano incontrato ne dettero descrizioni contrastanti, come spesso accade in casi simili. Su una sola convennero tutti, e cioè che il fuggiasco lasciava un'impressione di mostruosa ma inspiegabile deformità. (finale del capitolo IV)
La descrizione di Hyde da parte di Lanyon è nel capitolo IX, ma non si discosta molto da queste; la parola "scimmia" è utilizzata dal maggiordomo Poole nel capitolo VIII, ma solo con riferimento all'agilità di Hyde. Nel suo testamento finale (capitolo X ) Jekyll userà due volte la parola "scimmiesco" ma con riferimento ai bestiali dispetti di Hyde. La villosità di Hyde, ma sulle mani, è il segnale con cui Jekyll capisce che si è attuata la trasformazione, anche senza bisogno di specchi; ma si parla solo di mani pelose, del viso si tace.
 

La trasformazione "scimmiesca" dei film hollywoodiani, che coinvolge anche attori importanti come Spencer Tracy e John Barrymore, nasce molto probabilmente da un malinteso e superficialissimo rimando alle teorie di Charles Darwin: l'uomo che ritorna alla sua bestialità, da qui la pelosità "da lupo" e l'aspetto scimmiesco. Il "Jekyll" di Albertazzi ha sicuramente un punto di riferimento in Jean Renoir, "Il testamento del dottor Cordelier" con protagonista Jean Louis Barrault (1959, il dottor Cordelier è sempre Jekyll); però anche Renoir non rinunciava a dare tratti deformi al suo Hyde, sia pure non del tutto scimmieschi. Albertazzi risolve tutto con l'interpretazione, e con il trucco (minimo, ma impressionante) delle lenti a contatto bianche, che trasformano Hyde in un alieno inquietante ma che non gli impediscono di piacere e di avere un aspetto tutto sommato elegante, anche nella sua sgradevolezza. La trasformazione è più morale che fisica, e Albertazzi riesce nell'impresa da grande attore quale era. Nelle movenze e nella corsa, e anche nell'espressione del volto, Albertazzi anticipa di tre anni il Malcolm McDowell di "Arancia Meccanica", soprattutto nella scena del pestaggio di Carew; chissà se Stanley Kubrick conosceva questo sceneggiato.
 

Visto da oggi, nel complesso il Jekyll di Albertazzi regge ancora bene, più che altro per l'interpretazione di Massimo Girotti, di Claudio Gora e dello stesso Albertazzi: magistrale l'Utterson di Girotti, straordinario Gora come Lanyon nella scena della rivelazione, alla fine della seconda puntata. Lo sceneggiato è invece invecchiato invece molto, inesorabilmente, là dove si è voluto "modernizzare" il testo, datato 1885 e trasferito all'oggi, cioè al 1969. Niente invecchia più velocemente dell'attualità, e così gli hippies, l'università sul tipo di quella di Berkeley, la contestazione e perfino il distributore di benzina all'inizio e le minigonne oggi fanno "vecchio". Anche l'insistenza sul DNA e la biologia molecolare della prima puntata viste da oggi fanno sorridere, probabilmente oggi si parlerebbe di neuroscienze; e in fin dei conti, farmaci a parte, la trasformazione di una persona in un'altra (più infantile, e magari più violenta) la si vede purtroppo apparire con la malattia di Alzheimer, oltre che con la schizofrenia. Però l'impianto voluto da Albertazzi è buono, ed è buona soprattutto l'idea di risolvere tutto con la recitazione, limitando al minimo i trucchi e gli effetti speciali, occhi bianchi compresi.
Questa è comunque la descrizione tratta del racconto di Stevenson:
...ero sempre a questo punto quando, come ho detto, le mie ricerche di laboratorio cominciarono a gettare una luce inaspettata sulla questione. Cominciai a percepire, più a fondo di quanto fosse mai stata riconosciuta, la tremula immaterialità, la vaporosa inconsistenza del corpo, così solido in apparenza, di cui andiamo rivestiti. Scoprii che certi agenti chimici avevano il potere di scuotere e soffiare via questo rivestimento di carne, come il vento fa volare le tende di un padiglione (...) (capitolo X, il diario di Henry Jekyll)
Come si vede, si rimane sul generico; e direi che è la cosa migliore da fare in mancanza di reali appigli con la realtà. Accade così anche con il Frankenstein di Mary Shelley (uscito nel 1818), dove il segreto della riuscita è spiegato (vado a memoria, ne chiedo scusa) con un "è così semplice che non potete nemmeno immaginarlo". Jules Verne, invece, dava spiegazioni abbondanti e spesso spericolate, centrando però spesso la questione (l'alimentazione elettrica del Nautilus, per esempio, che deriva da batterie molto simili a quelle al litio che utilizziamo oggi). Tornando al Jekyll di Albertazzi, e a quel 1968, probabilmente la prima idea sarà stata di fare riferimento all'LSD e alle droghe psichedeliche, ma è un'idea che sarebbe stata sicuramente censurata. Il DNA fu scoperto già nel 1869, ma non si sapeva a cosa servisse; la sua decifrazione, e la struttura a elica che si vede nella prima puntata, era nel 1969 ancora recentissima: il Nobel a Crick e Watson è del 1962, la loro scoperta fu pubblicata nel 1953.
 

Nel racconto originale, l'avvocato Utterson è un vecchio scapolo e Jekyll vive in isolamento assoluto nella sua casa, servito solo dal maggiordomo Poole; sono di conseguenza tutti inventati i personaggi femminili che vediamo nello sceneggiato. E' di invenzione degli autori (Paolo Levi, Ghigo De Chiara, lo stesso Albertazzi) anche Lévy, assistente di Jekyll.
Paolo Levi, torinese classe 1935, non va confuso con Primo Levi; è un autore che collaborò molto con la Rai, saggista e critico d'arte oltre che narratore. Ghigo De Chiara (1921-1995) è uno scrittore e critico teatrale, collaboratore abituale di Albertazzi.
Gli attori: Massimo Girotti, Giorgio Albertazzi e Claudio Gora sono tre colonne del teatro e del cinema italiano; Ugo Cardea, che interpreta il professor Lévy, sarà il "Cartesio" di Rossellini, sei anni dopo nel 1975. Marina Berti e Bianca Toccafondi sono due attrici molto brave e con una lunga carriera sia al cinema che in teatro, qui un po' sacrificate nei loro ruoli. In piccoli ruoli due attori poi diventati celebri, Orso Maria Guerrini e Bruno Cirino. Le musiche sono di Gino Marinuzzi jr, figlio del grande direttore d'orchestra Gino Marinuzzi. Curiosa la breve sequenza in stile copertina dei Beatles nella prima puntata, all'università, quando gli studenti guardano in basso e sono inquadrati dal di sotto.

Oltre ai titoli citati sopra, e oltre all'LSD, nello sceneggiato c'è una citazione esplicita del Faust di Goethe, cioè il patto con il diavolo che consente la trasformazione (e il ringiovanimento) dello scienziato; nella terza puntata, per la realizzazione visiva della "nascita" di Hyde, si può pensare anche al mito alchimistico dell'homunculus (sempre dal Faust di Goethe). Il male assoluto fa pensare anche al nazista dottor Mengele e ai suoi orribili esperimenti (ma qui Jekyll sperimenta su se stesso); lo scoprire la propria vera natura, il desiderio più profondo che nemmeno il nostro io cosciente conosce, rimanda a "Stalker" di Andrej Tarkovskij. Un titolo famoso, "Occhi bianchi sul pianeta terra" (tratto da Matheson, ma non è questo il titolo originale) è in un film del 1971.
E' interessante riportare un passo da ciò che Jekyll scrive nel capitolo finale:
... da quelle agonie di morte e resurrezione avrei potuto rinascere angelo, invece che demonio. La droga, infatti, non agiva in un senso piuttosto che in un altro, non era divina né diabolica di per sè; scuoté le porte che incarceravano le mie inclinazioni (...)
Nelle pagine precedenti, Stevenson accenna alla teoria della "confederazione di anime" (formulata da Pierre Janet e Théodule Ribot)  di cui parla anche Tabucchi in "Sostiene Pereira" e che è ben rappresentata anche se in modo umoristico nel film "Being John Malkovich" di Spike Jonze:
... l'uomo non è veracemente uno, ma veracemente due. E dico due perché le mie conoscenze non sono giunte oltre. Altri seguiranno, altri porteranno avanti queste ricerche, e non è da escludere che l'uomo, in ultima analisi, possa rivelarsi una mera associazione di soggetti diversi, incongrui e indipendenti. (...)
(Robert Louis Stevenson, Dr. Jekyll e Mr. Hyde, traduzione di Fruttero e Lucentini, Einaudi 1983)
Infine, sempre sul tema del doppio, si può consigliare a chi non lo conoscesse ancora di leggere "Il signore di Ballantrae", sempre di Stevenson, uscito tre anni dopo, nel 1888: è sempre un Jekyll, anche se qui si tratta di due fratelli. Discende direttamente da Stevenson anche "Il visconte dimezzato" di Italo Calvino; ma questa è cosa ben risaputa.


PS: questo film, come tutti gli sceneggiati Rai, necessita di un restauro serio; la pessima qualità è dovuta ai mezzi di registrazione video, all'epoca non ancora ottimali. Chissà se è stato girato su pellicola, e se esiste un negativo originale; in ogni caso penso che qualcosa si possa fare, volendo.


 

martedì 11 febbraio 2020

Il balordo (1978)


Il balordo (1978) Regia di Pino Passalacqua. Da un romanzo di Piero Chiara. Sceneggiatura di Lucia Drudi Demby, Paolo Morosi, Stefano Delli Colli. Fotografia di Blasco Giurato. Musiche di Luis Bacalov. Interpreti: Tino Buazzelli, Elisa Cegani, Livia Cerini, Marina Confalone, Rita Di Lernia, Renzo Palmer (voce narratore), Ugo Bologna, Richard Harrison, Teo Teocoli, Vittorio Mezzogiorno, Mario Valgoi, Walter Valdi, Renato Paracchi, Jacques Herlin, Armando Marra, Dino Curcio, Maria Teresa Martino, Donato Castellaneta, Pino Ferrara, Aldo Bufi Landi Durata: tre puntate da un'ora circa

"Il balordo", tratto da un romanzo di Piero Chiara, ha per protagonista un grandissimo Tino Buazzelli, purtroppo alla sua ultima interpretazione, probabilmente già malato. Nato nel 1922, Buazzelli morirà nel 1980; è stato un grande attore soprattutto in teatro (memorabile il suo Galileo di Brecht con regia di Strehler, nel 1960), utilizzato poco e male dal cinema, protagonista però di sceneggiati televisivi molto popolari come il "Nero Wolfe", "Tartarino di Tarascona", e tanti altri. Piero Chiara, varesino di nascita, 1913-1986, oggi è un po' dimenticato ma è stato uno scrittore molto popolare e conosciuto; nato a Luino, sul lago Maggiore, i suoi romanzi rispecchiano sempre le atmosfere del lago e hanno avuto quasi tutti trasposizione cinematografica. "Il balordo" è forse uno dei meno noti tra i libri di Piero Chiara, e ha qualche punto di collegamento con il Carlo Levi di "Cristo si è fermato a Eboli", che ne è stato probabilmente l'ispirazione, almeno in partenza; i due libri però proseguono in modo completamente diverso, anche perchè quella di Carlo Levi è una storia vera, mentre quella di Chiara è d'invenzione.

Buazzelli interpreta un insegnante, maestro di musica, già avanti negli anni; è rimasto vedovo e non ha più una gran voglia di vivere, si è ritirato in se stesso, esce malvolentieri ed è un po' tiranneggiato dalle figlie. Questa sua ritrosia non piace al fascismo imperante in quegli anni, che vorrebbe tutti, ma soprattutto gli insegnanti, fedeli al partito ed anche un po' entusiasti - almeno un po'. Il maestro Bordigoni è benvoluto da tutti, in paese si conosce il suo dramma personale, gli si chiede soltanto una adesione anche minima, che si metta la camicia nera, che presenzi alle adunate del sabato, che dica qualcosa ai suoi allievi sul duce, queste cose qui; ma a lui non interessa e non ha la minima intenzione di cambiare le sue abitudini. Imbarazzato, anche perché riceve rapporti non rasserenanti, il sindaco - pardon, il podestà - invita il maestro a comporre qualcosa per il decennale della marcia su Roma, nel 1932. Il maestro sbuffa, non ne vuol sapere, non ne ha voglia, e quando alla fine si convince è il disastro: davanti a una piccola rappresentanza delle autorità locali, in una sala vuota, se ne esce con una cosa che fa così: «...se la marcia è marcia, se marciare o marcire, l'importante è marciare, e marcendo marciando morir! moriremo marciando, marciremo morendo, e marcendo marciando morir!» E' la fine, non c'è più niente da fare e il maestro - che voleva solo essere lasciato in pace - verrà mandato al confino.

Con un lungo viaggio in treno, che personalmente mi colpisce e mi fa sempre sorridere perché quelle carrozze "di terza classe" che vediamo nel film erano ancora in uso sulle Ferrovie Nord Milano, e sarebbero state in uso ancora per un paio di decenni (ci ho viaggiato parecchio) il maestro arriva finalmente a destinazione: non in Lucania come Carlo Levi, ma in un piccolo paese della Campania (Altavilla, secondo le indicazioni di Piero Chiara). E qui entra in gioco la figura fisica del Bordigoni: un uomo grande e grosso, di notevole stazza. Nel libro (lo imparo da wikipedia) il maestro Bordigoni è alto quasi due metri; Tino Buazzelli è di statura media ma rimedia con la sua mole (notevole) e con l'interpretazione. Bordigoni si va a sedere su una panchina nel centro del paese, sotto un grande albero. Quell'albero è davvero grande, e l'apparizione del nuovo arrivato non passa inosservata; che poi quell'uomo grande e grosso si vada a mettere proprio sotto quell'albero anche lui grande e grosso è qualcosa che colpisce l'immaginazione e il maestro Bordigoni verrà presto chiamato con lo stesso nome che si dà alla pianta, quasi un'identificazione totale. Il problema può essere nel nome della pianta, il Buon Cazzone: ma è un nome affettuoso, non un insulto, e Bordigoni lo accetta di buon grado. Anche nel nuovo posto, come nel paese dove è cresciuto e vissuto per tanti anni, Bordigoni si fa voler bene e diventa presto molto popolare, tutti lo trattano con affetto e lo rispettano.
 

Tutto questo termina con l'arrivo degli americani nel paese dove è confinato Bordigoni: a differenza del Nord, dove la guerra continuerà in modo drammatico, nel Sud si può ricominciare una vita normale. Da qui in avanti l'invenzione di Piero Chiara si fa meno felice: si immagina che Bordigoni venga cooptato dalle truppe alleate, che inizi una carriera come direttore d'orchestra e che diventi perfino famoso e celebrato. Può anche piacere, ma devo dire che se la prima parte del "Balordo" mi è piaciuta molto, trovo la parte finale piuttosto deludente e poco in linea con il carattere del personaggio di Bordigoni. Nella prima puntata, Bordigoni suona il piano al cinema, come era normale prima dell'avvento del sonoro; ben riconoscibile il "Nosferatu" di Friedrich Murnau.
Il film è diretto da Pino Passalacqua, sceneggiatore e regista soprattutto per la Rai; non è un capolavoro e la storia inventata da Piero Chiara fa spesso acqua, ma il personaggio del protagonista, il maestro Bordigoni, è favoloso. Chiara gli regala un finale quasi buddista, molto in linea con il personaggio: "non cercate di fare il bene, cercate soltanto di non far male a nessuno, a volte basta muoversi per fare del male".
 

Buazzelli ha quel raro dono, per un attore, di essere sempre al centro dell'azione anche senza far niente; e non è questione di stazza fisica, era così anche Eduardo de Filippo. Qui la sua parte parlata, contando tutte le tre puntate, riempie sì e no mezza pagina; un grande attore può essere grande anche senza fare niente di particolare, basta solo esserci ma occorre essere grandi. Forse, bisogna proprio nascerci: un dono di natura, cose che non si insegnano.
Diversi nomi famosi tra gli attori: oltre a Tino Buazzelli troviamo Elisa Cegani, Marina Confalone, Renzo Palmer (voce del narratore), Richard Harrison. In parti di fianco Teo Teocoli e Vittorio Mezzogiorno; le tre figlie sono Livia Cerini, Marina Confalone, Rita Di Lernia. Il romanzo è del 1967, il film è del 1978
La musica è di Luis Bacalov, quindi è sua anche "se la marcia è marcia, se marciare o marcire... ": metto qui il link per chi volesse divertirsi, Buazzelli è impagabile.











venerdì 7 febbraio 2020

Il Casanova di Comencini


"Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano" (1969) Regia di Luigi Comencini. Scritto da Suso Cecchi D'Amico e Luigi Comencini. Fotografia di Aiace Parolin. Musiche di Fiorenzo Carpi. Interpreti: Claudio de Kunert, Leonard Whiting (voce di Giancarlo Giannini), Senta Berger, Maria Grazia Buccella (voce di Angiolina Quinterno), Mario Scaccia, Raoul Grassilli, Lionel Stander, Wilfrid Brambell, Cristina Comencini, Tina Aumont, Silvia Dionisio, Sofia Dionisio, Clara Colosimo, Evi Maltagliati, Riccardo Cucciolla (narratore) e molti altri. Durata: 120 minuti

"Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano" è uno dei migliori film di Comencini, al di là del soggetto; felicissima la scelta delle location, ottimi gli attori, belli i costumi, girato in uno stato di grazia che fa spesso pensare al futuro Pinocchio, anche per le musiche di Fiorenzo Carpi. Scritto dallo stesso Comencini con Suso Cecchi D'Amico, ha per protagonisti Claudio de Kunert (Casanova bambino, per i primi 45 minuti) e poi Leonard Whiting, che è il Romeo di Zeffirelli, qui diciannovenne. Claudio de Kunert è molto bravo, ma poi non ha più fatto film e sul web non ho trovato altre notizie su di lui; Leonard Whiting è doppiato da Giancarlo Giannini, come nel "Romeo e Giulietta" di Zeffirelli. Il film racconta i primi anni di vita di Casanova, come è bene spiegato nel titolo, con la morte del padre, la madre attrice molto corteggiata, gli anni in collegio e in seminario, e l'adolescenza quando sembra destinato a farsi prete. Casanova va molto vicino a prendere i voti, e nel film vediamo e ascoltiamo il suo primo sermone in chiesa, che parte dal desiderio di far conoscere le Scritture non più in latino ma in lingua corrente, così che tutti possano capire; dati i tempi questo suona vagamente protestante, luterano, ma termina con applausi e una ricca questua. La volta seguente, però, la predica vedrà il giovane Casanova (non ancora prete) arrivare sfatto e ubriaco, appena uscito dal letto di Senta Berger. Casanova non prenderà mai i voti e non sarà mai prete. E' probabile che il punto di partenza del film siano le Memorie di Casanova, ma qui devo ammettere che di Casanova non mi è mai importato molto e quindi mi sento molto impreparato; ma questo film è molto bello e i suoi primi 45 minuti, quelli con Casanova bambino, sono vicinissimi al capolavoro.


Gli altri attori: Maria Grazia Buccella è Zanetta, attrice e madre disinvolta di Casanova; il padre è Mario Peron. Mario Scaccia interpeta l'ineffabile chirurgo (una star della chirurgia) che trapana il cranio al padre di Casanova provocandone la morte; Raoul Grassilli è il prete che aiuta Casanova bambino; Lionel Stander è un altro prete che verrà affiancato dal giovane Casanova dopo la laurea a Padova. L'inglese Wilfrid Brambell è Malipiero, protettore di Casanova giovane (parte consistente), Ennio Balbo è Mocenigo. Le altre donne: Angela, la novizia che verrà abbandonata da Casanova, è Cristina Comencini (bella e brava); Senta Berger è la magnifica trentenne che seduce il giovane Casanova. Tina Aumont appare nel finale, c'è Silvia Dionisio e anche Sofia Dionisio (sua sorella) che interpreta Bettina, sorella del prete che ospita Casanova bambino e finta indemoniata. Clara Colosimo è la nonna di Casanova, una figura importante; Evi Maltagliati è la contessa Serpieri.
Riccardo Cucciolla è il narratore, voce fuori campo; c'è anche Gino Santercole e molti altri ottimi attori. La voce di Leonard Whiting è di Giancarlo Giannini, quella di Maria Grazia Buccella è di Angiolina Quinterno. Le musiche sono di Fiorenzo Carpi, che inserisce nella colonna sonora anche le canzoni da battello veneziane.

 
A Venezia vediamo la Giudecca e San Polo, e il teatro San Cassiano (non più esistente) è indicato da www.imdb.com come San Francesco della Vigna, Castello. Le ville sono a Frascati (Villa Aldobrandini e Villa Torlonia), a Roma (Villa Giulia), a Tarquinia e a Viterbo (Palazzo dei Papi).
Lo spettacolo dei burattini per le suore è emiliano, con Fasolein e Sandròn.

 
 
 
 
(le immagini sono tra le poche che ho trovato on line,
ringrazio chi le ha rese disponibili)