2001: A Space Odyssey [2001: Odissea nello spazio] Regia : Stanley Kubrick, 1968. Sceneggiatura: Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke (tratto dal suo racconto «La sentinella») Fotografia: Geoffrey Unsworth. Assistente alla fotografia: John Alcott . Montaggio: Ray Lovejoy. Scenografia: Tony Masters, Harry Lange, Ernie Archer. Effetti speciali (ideazione e direzione): Stanley Kubrick Effetti speciali (supervisione generale): Wally Veevers, Douglas Trumbull, Con Pederson, Tom Howard. Interpreti: Keir Dullea (astronauta Bowman), Gary Lockwood (astronauta Poole), Douglas Rain (la voce di HAL 9000), Daniel Richter (la scimmia che guarda la luna), William Sylvester (dottor Floyd), Leonard Rossiter (Smylov), Margaret Tyzack (Elena), Robert Beatty (Halvorsen). Durata originale: 161 minuti (nei cinema: 141 minuti)
Forse non ci avete mai fatto caso, ma è di un tapiro l’osso che vediamo diventare arma e poi astronave all’inizio di “2001 Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick. E’ una delle sequenze più famose del cinema, ma anch’io non ci avrei mai pensato se non avessi avuto fra le mani il dvd che contiene il film: con il fermo immagine e la possibilità di andare avanti e indietro è infatti diventato finalmente possibile fare anche in casa (e non solo in moviola) osservazioni profonde e pensose come questa, ed anche più profonde.
Un osso di tapiro, dunque: probabilmente il femore, l’osso del prosciutto insomma.
Chissà se qualcuno ha mai fatto prosciutti di tapiro: comunque sia, è singolare che nel film (scritto da Arthur C. Clarke e filmato nel 1968 con la regia di Kubrick) il primo bagliore d’intelligenza sia associato ad un atto violento. Quando il nostro antenato (pitecantropo, australopiteco?) capisce che con quell’osso può fare qualcosa, la prima vittima a cadere è proprio un tapiro, ed è di un tapiro il cranio che vediamo fracassare nella famosa sequenza.
Ma che animale è di preciso un tapiro? Vado a prendere il mio vecchio Brehm e trascrivo qualcosa.
Innanzitutto, il tapiro non è parente del maiale, come si potrebbe pensare: nella catena evolutiva sta invece dalla parte del cavallo e del rinoceronte, nell’ordine dei Perissodattili.
Per la precisione, la sequenza è questa: Regno: animale, Sottoregno: metazoi, Tipo: vertebrati, Classe: mammiferi, Sottoclasse: placentati, Ordine: perissodattili.
L’ordine dei perissodattili in epoca preistorica prevedeva grande varietà di specie e di forme, come documentato dai fossili; oggi invece ha solo tre grandi famiglie, Rinocerontidi, Tapiridi ed Equidi.
Gli altri animali che così ad occhio potremmo associare al tapiro appartengono invece all’ordine degli Artiodattili: le differenze sono argomento da specialisti e non starò qui a trattarle, ma i nomi dei due differenti ordini si riferiscono all’articolazione del piede, un carattere esterno molto evidente che si può brevemente riassumere nel numero di dita che appoggiano terra. In particolare, nei perissodattili è il terzo dito ad essere particolarmente sviluppato. Quella che può sembrare una proboscide, nel tapiro, è in realtà un prolungamento del labbro superiore. Sono classificazioni che risalgono ai secoli passati e che si basano soprattutto su osservazioni esteriori, dello scheletro e degli organi interni, ma che hanno trovato conferma anche nelle recenti indagini con il DNA.
Oggi esistono solo quattro specie di tapiro, le principali sono il tapiro d’America (tapirus terrestris) che vive in un’area che sta più o meno tra il Messico e il Brasile, e il tapiro dalla gualdrappa (tapirus indicus), tipico dell’Indonesia e delle zone vicine (Thailandia, Birmania).
Il mio libro dice che il tapiro americano ha un comportamento molto simile a quello di maiali e di cinghiali, e che se preso da piccolo può essere addomesticato: e dev’essere questo il caso dei tapiri di Kubrick, che si mostrano molto mansueti e che recitano con grande naturalezza, da attori consumati, accanto ai mimi travestiti da scimmia antropomorfa.
Il tapiro di Kubrick vive quest’avventura senza mai toccare il monolite, se no (se solo l’avesse annusato o assaggiato) chissà che cosa mai sarebbe successo e che piega avrebbe preso l’evoluzione delle specie. Qualcuno ha provato ad immaginarlo: è l’inventore di “Barbarella” Jean Luc Forest (con Gillon), in una storia pubblicata sul mensile Alterlinus, maggio 1976. Direi che è un’ipotesi più che plausibile (in questa storia Barbarella non c’è, ma ha delle sostitute che non la fanno rimpiangere).
giovedì 31 dicembre 2009
martedì 29 dicembre 2009
Macbeth di Orson Welles
Macbeth (1948, restaurato nel 1980). Regia: Orson Welles. Dal dramma di William Shakespeare. Sceneggiatura: Orson Welles. Fotografia: John L. Russell Scenografia: Fred Ritter. Costumi: Orson Welles, Fred Ritter, Adele Palmer. Musica: Jacques Ibert. Cast: Orson Welles (Macbeth), Jeanette Nolan (Lady Macbeth), Dan O'Herlihy (Macduff), Edgar Barrier (Banquo), Roddy McDowall (Malcolm), Erskine Sanford (Duncan), Alan Napier (un monaco), John Dierkes (Ross), Keene Curtis (Lennox), Peggy Webber (Lady Macduff e una strega), Lionel Braham (Siward). Archie Heugly (il giovane Siward), Christopher Welles (figlio di Macduff), Brainerd Duffield (primo sicario, una strega), William Alland (secondo sicario), George Chirello (Seyton), Gus Schilling (portiere), Jerry Farber (Fleance), Lurene Tuttle (gentildonna, strega), Charles Lederer (strega), Robert Alan (terzo assassino), Morgan Farley (il dottore). Durata: 107 minuti (più tardi ridotto a 86 minuti, restaurato nella lunghezza originale nel 1980).
Dopo l’apoteosi del cinema di “Citizen Kane” (“Quarto potere”), e di seguito a due lavori di alto virtuosismo registico come “Lo straniero” e “La signora di Shanghai”, Orson Welles realizza un film che è quanto di meno cinematografico ci si potesse aspettare, soprattutto da uno come lui. Ed è quindi abbastanza comprensibile, facendo mente locale, che critici e pubblico siano rimasti un po’ perplessi davanti a questo “Macbeth”, tratto da Shakespeare, che per lunghi tratti sembra una ripresa teatrale, a partire dalle scenografie. Rivedendolo oggi, in versione integrale e sapendo che fu girato in economia e in pochi giorni (particolari che - giustamente - al pubblico pagante del 1948 non interessavano molto), il “Macbeth” di Orson Welles si rivela invece come film notevole, di grande impronta personale, che merita una riflessione approfondita.
Orson Welles aveva già messo in scena più volte, in teatro, il “Macbeth”: lui stesso racconta con molta soddisfazione le leggendarie serate ad Harlem, con un cast tutto di afroamericani e lui a dirigere dietro le quinte. Da quell’allestimento riprende alcuni dettagli, come la bambola in stile vudu, modellata nell’argilla, che apre il film nella sequenza delle streghe.
Ma forse è meglio procedere con un po’ più d’ordine, cioè dal principio. Macbeth fa parte dei personaggi che raccontano una delle storie più antiche dell’umanità, la storia della ribellione contro la divinità e dell’affermazione del libero arbitrio: non è più Dio a decidere del nostro destino, ma vogliamo essere noi gli artefici della nostra sorte. In questo senso Macbeth si apparenta a Faust e a Don Giovanni, ma anche a Prometeo, e ad Adamo.
La storia è giustamente famosa: due nobili scozzesi, di ritorno dalla battaglia in cui hanno fedelmente servito il loro re, incontrano delle streghe. Le streghe, senza che sia stato loro richiesto, fanno alcune profezie: dicono molte cose, e definiscono Macbeth futuro re di Scozia, e il suo amico Banquo come padre della futura stirpe di re. I due rimangono esterrefatti, anche perché le streghe svaniscono senza lasciar traccia; ma subito la prima profezia si avvera: le streghe avevano salutato Macbeth, oltre che col suo legittimo titolo, come signore di Cawdor; ed ecco che i messaggeri del re gli portano la notizia che il feudo di Cawdor d’ora in avanti sarà suo, perché l’attuale Cawdor ha tradito la causa e sarà giustiziato. Da qui in avanti gli eventi precipitano, e le streghe si prenderanno gioco di Macbeth con altre profezie, e sempre nel modo più subdolo: dicendogli la verità. Macbeth diventerà re di Scozia, ma con la violenza e il tradimento.
Welles colloca la ribellione di Macbeth nell’ambito del conflitto fra il cristianesimo e il mondo che lo ha preceduto, e per farsi capire meglio introduce un personaggio che in Shakespeare non c’è, e che nei titoli di testa italiani viene presentato come “il religioso”. Lo interpreta l’attore Alan Napier: barba di tre giorni, trecce lunghissime sul davanti, invasato e sentenzioso, probabilmente alcolizzato; più uno sciamano o un predicatore che un vescovo cristiano. Questo “religioso” sembra uscito da un film di Frankenstein o un horror anni ’30; a dire il vero fa più spavento delle streghe, e non ci si stupisce che le streghe scappino alla sua vista. A tratti, è molto forte l’affiorare del ricordo del “Frankenstein” di James Whale (1931) anche per la grande croce sotto cui si ritroveranno Macduff e Malcolm esuli. Alla fine, il religioso verrà ucciso da Macbeth-Welles con un colpo di lancia, ma la sua parte trionferà sulle vecchie credenze.
Un’altra libertà rispetto a Shakespeare è che nel film di Welles le streghe vengono mandate via dal sacerdote cristiano, e non svaniscono da sole come nell’originale. Le streghe hanno inoltre nelle mani lunghi bastoni fatti a Y, il che fa pensare a un conflitto con la Dea Madre.
Va detto che in Welles le streghe sono poco più che pupazzi, diventano voci interiori, sono sempre viste da lontano o addirittura ridotte a pura voce come nella seconda evocazione, quella delle profezie sulla selva di Birnam e sul “nato di donna” (dove Welles sembra il mago di Topolino in “Fantasia”, in alto su una roccia sbattuta dai venti: puro teatro). Il dramma è tutto molto interiorizzato, anche per via dei cambi di scena effettuati da Welles passeggiando da una scena all’altra. Potrebbe essere un ottimo radiodramma. (ma nella versione italiana, pur ottima, tutto questo si perde).
C’è un forte richiamo ad Adamo, e non solo al vudù, nella statua di argilla forgiata dalle streghe. E’ una bambola forgiata nel fango, a cui viene messa una corona insanguinata; a teatro, Welles ambientò il suo Macbeth nero di Harlem tra i riti animisti caraibici e africani. La bambola nasce dal ribollire del fango primordiale nel calderone delle streghe.
Macbeth, così come ce lo presenta William Shakespeare, non è un “vilain”, un bruto assetato di potere: è anzi una persona fine, un intellettuale, parente stretto di Amleto. Questo pensare, questo rimuginare, sia pure in uomo d’azione, è una delle sue caratteristiche più importanti; e “the pale cast of thought” è ben visibile sul volto di Macbeth interpretato da Welles. Nell’interpretazione di Welles, Macbeth è un Amleto che ha accettato il suo destino e i mille compromessi che la vita ti pone davanti, ma che continua a non essere attrezzato per reggere a tanto peso. Cerca forza nel bere, e nelle profezie delle streghe; infine si rende conto dell’essenza profonda del vivere (“to be”), accetta tutto, e va a morire combattendo, in guerra, in duello. Almeno questo sa di poterlo fare, ed anche in questo è identico ad Amleto: con Amleto condivide anche il fatto di sapere in anticipo quali saranno le conseguenze dell’agire (e quindi dell’essere). Ma modificare il nostro destino non ci è concesso.
La moglie di Macbeth, della quale si ignora perfino il nome, è uno dei personaggi più forti ed indimenticabili di tutto il teatro e la letteratura. E’ lei che spinge Macbeth verso il suo destino, ancora più delle streghe; e nella prima parte della tragedia è impressionante per la sua forza e la sua determinazione ad andare verso il Potere. Nel finale della tragedia viene però messa da parte: ha svolto la sua funzione, il fatto è compiuto, la vediamo spegnersi lentamente nel rimorso per ciò che ha commesso. Nel film di Welles, Lady Macbeth sembra quasi ringiovanire nel corso del film; all’inizio appare più anziana del marito, l’obiettivo ne mostra le rughe d’espressione e le imperfezioni della pelle. Poi lui sembra via via invecchiare, farsi più corpulento (ma il film è stato girato in pochi giorni), e lei sembra diventare sempre più giovane. Non so quanto sia voluto quest’effetto, ma colpisce molto se si conosce il testo. La Lady diventa quasi virginale nel momento in cui mette la corona. Jeannette Nolan compie una grande prova d’attrice, anche lei molto tradizionale e senza grandi finezze, ma andando diritta al cuore del personaggio. La vediamo spesso vestita come la regina cattiva di Biancaneve, ma l’interpretazione è proprio da Lady Macbeth.
Nell’insieme, Macbeth e i suoi sembrano spesso barbari alla Gengis Khan, più che scozzesi (ma qualche kilt c’è) (e anche qualche vichingo...). Copricapi e corone sono quasi caricaturali, i costumi sono poco medievali, lo stile è molto misto, molti costumi sono pura fantasia (l’acconciatura del sacerdote!). Pochi soldi o un disegno preciso? I testi ufficiali dicono che nei costumi c’è dichiaratamente la mano dello stesso Welles: e nella scena finale, dopo il suicidio della regina, Macbeth porta una corona grottesca ed esagerata che sembra presa dalla Statua dalla Libertà...
Molto forte anche il richiamo ad Eisenstein, al cinema espressionista tedesco, e al cinema muto in generale. Viene in mente Eisenstein (“Alexander Nevskij”) per gli elmi, per i primi piani: ma nelle sue interviste Welles dice di aver visto pochissimo Eisenstein, quasi niente. Può ben darsi, ma risulta difficile crederlo. Nel complesso, questo Macbeth è più vicino a quello di Akira Kurosawa (“Il trono di sangue”) che a quello di Roman Polanski, o a Giuseppe Verdi.
Evidenti rimandi al cinema espressionista (Murnau, il Caligari, ma anche Dreyer) sono lo specchio che deforma l’immagine di Macbeth quando si mette per la prima volta la corona (ed è la Lady a reggere lo specchio), o l’ombra del dito indice di Macbeth che va a cercare lo spettro di Banquo nella scena del banchetto.
La recitazione è semplice, tradizionale, spesso un po’ rozza, così come accadrà quattro anni dopo nell’Otello, sempre da Shakespeare. Welles non va quasi mai in cerca di raffinatezze e di sottigliezze, il che paradossalmente finisce per dare più rilievo al testo, alla parola scritta, proprio grazie all’asciuttezza della parola. E’ un’operazione simile a quella che spetta all’uso della luce in Othello: Macbeth è quasi sempre in ombra, in notturna, i chiaroscuri e gli effetti di luce sono nel testo recitato. A tratti tutto diventa grottesco, quasi caricaturale, e si ha l’impressione di vedere un Ubu Roi.
E’ un “Macbeth delle caverne”, dove le scenografie colpiscono per la loro voluta durezza: sono scenografie da teatro, volutamente di cartapesta. Un colpo un po’ duro per il pubblico del cinema, abituato a ben altro, che però tutto sommato dà un’idea della vita reale di quei tempi, molto più realistica rispetto al lusso medievale-cinquecentesco di altre scenografie (si pensi al Robin Hood con Errol Flynn!). Niente arazzi e mobili intarsiati, ma pellicce per difendersi del freddo, non kilt e tessuti scozzesi ma stoffe più ruvide e semplici, pelli d’animali ed elmi da vichingo. Una volta diventato re, vediamo Macbeth che beve in un corno scavato, e non in un bicchiere. A portare un visibile costume scozzese “classico” è quasi solo Malcolm, futuro re, giovane figlio di Duncan: forse vuol dire il moderno che spazza via l’antico? Il pensiero viene spontaneo, avendo visto poco prima Macbeth vestito di pelliccia e i suoi sicari truccati come cavernicoli.
Anche il buio inchiostroso delle immagini contribuì a farlo amare poco dal pubblico e dalla critica. C’è molto teatro, e mancano le locations fascinose che metterà Polanski (o quelle scelte da Welles con l’Othello, pochi anni dopo). Niente scozzesismi di maniera, niente manieri aviti, quasi un’età della pietra, caverne e grotte, finestre che sono spaccature nelle pareti.
Come si diceva, è un film stranamente poco cinematografico; Welles ebbe grande successo in teatro con il ruolo di Macbeth, e il film sembra ritagliato su misura per lui. All’inizio, almeno ai miei occhi abituati a pensare Macbeth come magro e nervoso, Welles non sembra avere il fisico giusto. Lo vedrei meglio come Banquo, però qui Banquo è un personaggio che si vede poco: lo interpreta un attore (Edgar Barrier) dal volto sfuggente e infido, che somiglia piuttosto ad uno Jago. Ma si sa che in queste cose conta molto la prima impressione personale: per me Banquo avrà sempre la voce calda e fluente e l’aspetto fisico di Nicolai Ghiaurov, un “imprinting” che pesa molto su questo mio commento. (A proposito, per i curiosi metto qui un tentativo di rendere la pronuncia inglese: Bèn-quo, Bèn-kwo). Ma poi ci si abitua, e questa di Welles è una grandissima prova d’attore: basterà vedere Macbeth ubriaco prima con la Regina e poi con i sicari (che sembrano uomini delle caverne, molto clowneschi).
Molte le libertà rispetto al testo originale: la principale è la presenza del “religioso”, come si è detto. Inedito il rilievo dato a Seyton, usato come fool, quasi un preludio al Re Lear. L’attore che interpreta Seyton si chiama George Chirello: le biografie dicono che fu autista e cuoco di Orson Welles .
Welles fa partecipare la Lady al massacro a casa di Macduff: lei va avanti per non destar sospetti, inizia una conversazione con la giovane donna, poi arrivano gli uomini armati.
C’è una notevole caduta di gusto con il suicidio della regina, che in Shakespeare non c’è: esasperandone la morte e portandola in primo piano, Welles commette un errore. Nell’originale la morte della regina è solo una notizia che arriva senza dettagli, lontana e ovattata, che dà ancor più risalto alla reazione di Macbeth e alle celebri frasi che seguono (“La vita, che importa! E’ il racconto di un povero idiota...”). La morte di Lady Macbeth girata in questo modo ricorda molto una scena analoga in “Narciso Nero” di Powell e Pressburger, che è dello stesso anno.
Nella scena del banchetto, oltre allo spettro di Banquo Macbeth vede anche quello di Re Duncan, ma ci può stare; è però un altro errore, oltre al suicidio della Lady, la morte del bambino figlio di Macduff girata in maniera diversa dall’originale, resa molto più cinematografica e “d’effetto” contro la scabra semplicità di Shakespeare. Il figlio di Macduff (Christopher Welles) è un po’ petulante e poco “virile”, ma anche questo ci può stare.
L’edizione italiana è notevolissima, con le voci di Gino Cervi e di tutti i principali attori italiani dell’epoca,che recitano nella versione di Mario Praz. Le voci sono magnifiche, peccato per i tagli (la versione italiana è più corta).
Le musiche sono firmate da un compositore importante, Jacques Ibert: sono belle ma poco memorizzabili, con qualche inserto caricaturale come nella scena dell’ubriachezza di Macbeth. dai titoli di testa apprendiamo che le dirige Efrem Kurtz, un direttore d’orchestra che negli anni 70-80, già molto anziano, era ancora molto attivo anche in Italia.
In conclusione, un film grandissimo e una prova d’attore che dà i brividi, ma si capisce anche come mai pubblico e critica lo accolsero male, subito dopo Citizen Kane che era il trionfo del cinema, qui siamo all’anticinema. Scarsità finanziaria o disegno artistico preciso? Meglio lasciare la parola a Welles stesso.
(...) Orson Welles è senz'altro meno soddisfatto del suo precedente film tratto da Shakespeare, Macbeth, che durante la sua lunga programmazione nelle sale di Parigi ha provocato una grande varietà di commenti, molti dei quali non esattamente lusinghieri.
« La prima sera c'è stata una rissa nel cinema tra i sostenitori del film e i suoi detrattori, - mi ha detto. - L'indifferenza mi avrebbe fatto molto più male. Dopotutto, il film non può essere così scarso se è piaciuto a gente come Jean Cocteau. D'altra parte, non considero una nota di vanto il fatto che il film stia avendo un successo eclatante in Germania, dove il pubblico probabilmente è attratto dalla ferocia medievale della storia. Ora vedo i suoi molti difetti, in particolare nella versione riadattata, ma credo ancora che sia più fedele a Shakespeare di molte produzioni teatrali di Macbeth che ho visto. La cosa peggiore è che nessuno sembra giudicare il film per quello che è: cioè un esperimento messo in piedi in ventitré giorni con un budget estremamente ridotto.»
Orson Welles sembra stanco, e ammette di esserlo. La sua spossatezza nasce non tanto dal lavoro effettivo sulla produzione di Othello (che è durata oltre un anno) quanto dalle preoccupazioni connesse. "Tornare un po’ al teatro per me è una forma di rilassamento", dice con un sorriso ambiguo. Ma la sua capacità lavorativa è enorme. Sta sfruttando le sue esibizioni di ogni sera sul palcoscenico in due parti diametralmente opposte come un gradito cambiamento rispetto al lavoro cinematografico, ma le sue giornate sono ancora occupate dal montaggio e dal doppiaggio di Otello. E tra le due cose riesce anche a trovare il tempo per lavorare alla sua nuova produzione teatrale.
E i nuovi film? Niente da fare, ancora per un po'. (...)
(Da Sight and Sound, dicembre l950, intervista a Francis Koval)
(da “It’s all true- interviste con Orson Welles”, editore Minimum Fax 2005)
Dopo l’apoteosi del cinema di “Citizen Kane” (“Quarto potere”), e di seguito a due lavori di alto virtuosismo registico come “Lo straniero” e “La signora di Shanghai”, Orson Welles realizza un film che è quanto di meno cinematografico ci si potesse aspettare, soprattutto da uno come lui. Ed è quindi abbastanza comprensibile, facendo mente locale, che critici e pubblico siano rimasti un po’ perplessi davanti a questo “Macbeth”, tratto da Shakespeare, che per lunghi tratti sembra una ripresa teatrale, a partire dalle scenografie. Rivedendolo oggi, in versione integrale e sapendo che fu girato in economia e in pochi giorni (particolari che - giustamente - al pubblico pagante del 1948 non interessavano molto), il “Macbeth” di Orson Welles si rivela invece come film notevole, di grande impronta personale, che merita una riflessione approfondita.
Orson Welles aveva già messo in scena più volte, in teatro, il “Macbeth”: lui stesso racconta con molta soddisfazione le leggendarie serate ad Harlem, con un cast tutto di afroamericani e lui a dirigere dietro le quinte. Da quell’allestimento riprende alcuni dettagli, come la bambola in stile vudu, modellata nell’argilla, che apre il film nella sequenza delle streghe.
Ma forse è meglio procedere con un po’ più d’ordine, cioè dal principio. Macbeth fa parte dei personaggi che raccontano una delle storie più antiche dell’umanità, la storia della ribellione contro la divinità e dell’affermazione del libero arbitrio: non è più Dio a decidere del nostro destino, ma vogliamo essere noi gli artefici della nostra sorte. In questo senso Macbeth si apparenta a Faust e a Don Giovanni, ma anche a Prometeo, e ad Adamo.
La storia è giustamente famosa: due nobili scozzesi, di ritorno dalla battaglia in cui hanno fedelmente servito il loro re, incontrano delle streghe. Le streghe, senza che sia stato loro richiesto, fanno alcune profezie: dicono molte cose, e definiscono Macbeth futuro re di Scozia, e il suo amico Banquo come padre della futura stirpe di re. I due rimangono esterrefatti, anche perché le streghe svaniscono senza lasciar traccia; ma subito la prima profezia si avvera: le streghe avevano salutato Macbeth, oltre che col suo legittimo titolo, come signore di Cawdor; ed ecco che i messaggeri del re gli portano la notizia che il feudo di Cawdor d’ora in avanti sarà suo, perché l’attuale Cawdor ha tradito la causa e sarà giustiziato. Da qui in avanti gli eventi precipitano, e le streghe si prenderanno gioco di Macbeth con altre profezie, e sempre nel modo più subdolo: dicendogli la verità. Macbeth diventerà re di Scozia, ma con la violenza e il tradimento.
Welles colloca la ribellione di Macbeth nell’ambito del conflitto fra il cristianesimo e il mondo che lo ha preceduto, e per farsi capire meglio introduce un personaggio che in Shakespeare non c’è, e che nei titoli di testa italiani viene presentato come “il religioso”. Lo interpreta l’attore Alan Napier: barba di tre giorni, trecce lunghissime sul davanti, invasato e sentenzioso, probabilmente alcolizzato; più uno sciamano o un predicatore che un vescovo cristiano. Questo “religioso” sembra uscito da un film di Frankenstein o un horror anni ’30; a dire il vero fa più spavento delle streghe, e non ci si stupisce che le streghe scappino alla sua vista. A tratti, è molto forte l’affiorare del ricordo del “Frankenstein” di James Whale (1931) anche per la grande croce sotto cui si ritroveranno Macduff e Malcolm esuli. Alla fine, il religioso verrà ucciso da Macbeth-Welles con un colpo di lancia, ma la sua parte trionferà sulle vecchie credenze.
Un’altra libertà rispetto a Shakespeare è che nel film di Welles le streghe vengono mandate via dal sacerdote cristiano, e non svaniscono da sole come nell’originale. Le streghe hanno inoltre nelle mani lunghi bastoni fatti a Y, il che fa pensare a un conflitto con la Dea Madre.
Va detto che in Welles le streghe sono poco più che pupazzi, diventano voci interiori, sono sempre viste da lontano o addirittura ridotte a pura voce come nella seconda evocazione, quella delle profezie sulla selva di Birnam e sul “nato di donna” (dove Welles sembra il mago di Topolino in “Fantasia”, in alto su una roccia sbattuta dai venti: puro teatro). Il dramma è tutto molto interiorizzato, anche per via dei cambi di scena effettuati da Welles passeggiando da una scena all’altra. Potrebbe essere un ottimo radiodramma. (ma nella versione italiana, pur ottima, tutto questo si perde).
C’è un forte richiamo ad Adamo, e non solo al vudù, nella statua di argilla forgiata dalle streghe. E’ una bambola forgiata nel fango, a cui viene messa una corona insanguinata; a teatro, Welles ambientò il suo Macbeth nero di Harlem tra i riti animisti caraibici e africani. La bambola nasce dal ribollire del fango primordiale nel calderone delle streghe.
Macbeth, così come ce lo presenta William Shakespeare, non è un “vilain”, un bruto assetato di potere: è anzi una persona fine, un intellettuale, parente stretto di Amleto. Questo pensare, questo rimuginare, sia pure in uomo d’azione, è una delle sue caratteristiche più importanti; e “the pale cast of thought” è ben visibile sul volto di Macbeth interpretato da Welles. Nell’interpretazione di Welles, Macbeth è un Amleto che ha accettato il suo destino e i mille compromessi che la vita ti pone davanti, ma che continua a non essere attrezzato per reggere a tanto peso. Cerca forza nel bere, e nelle profezie delle streghe; infine si rende conto dell’essenza profonda del vivere (“to be”), accetta tutto, e va a morire combattendo, in guerra, in duello. Almeno questo sa di poterlo fare, ed anche in questo è identico ad Amleto: con Amleto condivide anche il fatto di sapere in anticipo quali saranno le conseguenze dell’agire (e quindi dell’essere). Ma modificare il nostro destino non ci è concesso.
La moglie di Macbeth, della quale si ignora perfino il nome, è uno dei personaggi più forti ed indimenticabili di tutto il teatro e la letteratura. E’ lei che spinge Macbeth verso il suo destino, ancora più delle streghe; e nella prima parte della tragedia è impressionante per la sua forza e la sua determinazione ad andare verso il Potere. Nel finale della tragedia viene però messa da parte: ha svolto la sua funzione, il fatto è compiuto, la vediamo spegnersi lentamente nel rimorso per ciò che ha commesso. Nel film di Welles, Lady Macbeth sembra quasi ringiovanire nel corso del film; all’inizio appare più anziana del marito, l’obiettivo ne mostra le rughe d’espressione e le imperfezioni della pelle. Poi lui sembra via via invecchiare, farsi più corpulento (ma il film è stato girato in pochi giorni), e lei sembra diventare sempre più giovane. Non so quanto sia voluto quest’effetto, ma colpisce molto se si conosce il testo. La Lady diventa quasi virginale nel momento in cui mette la corona. Jeannette Nolan compie una grande prova d’attrice, anche lei molto tradizionale e senza grandi finezze, ma andando diritta al cuore del personaggio. La vediamo spesso vestita come la regina cattiva di Biancaneve, ma l’interpretazione è proprio da Lady Macbeth.
Nell’insieme, Macbeth e i suoi sembrano spesso barbari alla Gengis Khan, più che scozzesi (ma qualche kilt c’è) (e anche qualche vichingo...). Copricapi e corone sono quasi caricaturali, i costumi sono poco medievali, lo stile è molto misto, molti costumi sono pura fantasia (l’acconciatura del sacerdote!). Pochi soldi o un disegno preciso? I testi ufficiali dicono che nei costumi c’è dichiaratamente la mano dello stesso Welles: e nella scena finale, dopo il suicidio della regina, Macbeth porta una corona grottesca ed esagerata che sembra presa dalla Statua dalla Libertà...
Molto forte anche il richiamo ad Eisenstein, al cinema espressionista tedesco, e al cinema muto in generale. Viene in mente Eisenstein (“Alexander Nevskij”) per gli elmi, per i primi piani: ma nelle sue interviste Welles dice di aver visto pochissimo Eisenstein, quasi niente. Può ben darsi, ma risulta difficile crederlo. Nel complesso, questo Macbeth è più vicino a quello di Akira Kurosawa (“Il trono di sangue”) che a quello di Roman Polanski, o a Giuseppe Verdi.
Evidenti rimandi al cinema espressionista (Murnau, il Caligari, ma anche Dreyer) sono lo specchio che deforma l’immagine di Macbeth quando si mette per la prima volta la corona (ed è la Lady a reggere lo specchio), o l’ombra del dito indice di Macbeth che va a cercare lo spettro di Banquo nella scena del banchetto.
La recitazione è semplice, tradizionale, spesso un po’ rozza, così come accadrà quattro anni dopo nell’Otello, sempre da Shakespeare. Welles non va quasi mai in cerca di raffinatezze e di sottigliezze, il che paradossalmente finisce per dare più rilievo al testo, alla parola scritta, proprio grazie all’asciuttezza della parola. E’ un’operazione simile a quella che spetta all’uso della luce in Othello: Macbeth è quasi sempre in ombra, in notturna, i chiaroscuri e gli effetti di luce sono nel testo recitato. A tratti tutto diventa grottesco, quasi caricaturale, e si ha l’impressione di vedere un Ubu Roi.
E’ un “Macbeth delle caverne”, dove le scenografie colpiscono per la loro voluta durezza: sono scenografie da teatro, volutamente di cartapesta. Un colpo un po’ duro per il pubblico del cinema, abituato a ben altro, che però tutto sommato dà un’idea della vita reale di quei tempi, molto più realistica rispetto al lusso medievale-cinquecentesco di altre scenografie (si pensi al Robin Hood con Errol Flynn!). Niente arazzi e mobili intarsiati, ma pellicce per difendersi del freddo, non kilt e tessuti scozzesi ma stoffe più ruvide e semplici, pelli d’animali ed elmi da vichingo. Una volta diventato re, vediamo Macbeth che beve in un corno scavato, e non in un bicchiere. A portare un visibile costume scozzese “classico” è quasi solo Malcolm, futuro re, giovane figlio di Duncan: forse vuol dire il moderno che spazza via l’antico? Il pensiero viene spontaneo, avendo visto poco prima Macbeth vestito di pelliccia e i suoi sicari truccati come cavernicoli.
Anche il buio inchiostroso delle immagini contribuì a farlo amare poco dal pubblico e dalla critica. C’è molto teatro, e mancano le locations fascinose che metterà Polanski (o quelle scelte da Welles con l’Othello, pochi anni dopo). Niente scozzesismi di maniera, niente manieri aviti, quasi un’età della pietra, caverne e grotte, finestre che sono spaccature nelle pareti.
Come si diceva, è un film stranamente poco cinematografico; Welles ebbe grande successo in teatro con il ruolo di Macbeth, e il film sembra ritagliato su misura per lui. All’inizio, almeno ai miei occhi abituati a pensare Macbeth come magro e nervoso, Welles non sembra avere il fisico giusto. Lo vedrei meglio come Banquo, però qui Banquo è un personaggio che si vede poco: lo interpreta un attore (Edgar Barrier) dal volto sfuggente e infido, che somiglia piuttosto ad uno Jago. Ma si sa che in queste cose conta molto la prima impressione personale: per me Banquo avrà sempre la voce calda e fluente e l’aspetto fisico di Nicolai Ghiaurov, un “imprinting” che pesa molto su questo mio commento. (A proposito, per i curiosi metto qui un tentativo di rendere la pronuncia inglese: Bèn-quo, Bèn-kwo). Ma poi ci si abitua, e questa di Welles è una grandissima prova d’attore: basterà vedere Macbeth ubriaco prima con la Regina e poi con i sicari (che sembrano uomini delle caverne, molto clowneschi).
Molte le libertà rispetto al testo originale: la principale è la presenza del “religioso”, come si è detto. Inedito il rilievo dato a Seyton, usato come fool, quasi un preludio al Re Lear. L’attore che interpreta Seyton si chiama George Chirello: le biografie dicono che fu autista e cuoco di Orson Welles .
Welles fa partecipare la Lady al massacro a casa di Macduff: lei va avanti per non destar sospetti, inizia una conversazione con la giovane donna, poi arrivano gli uomini armati.
C’è una notevole caduta di gusto con il suicidio della regina, che in Shakespeare non c’è: esasperandone la morte e portandola in primo piano, Welles commette un errore. Nell’originale la morte della regina è solo una notizia che arriva senza dettagli, lontana e ovattata, che dà ancor più risalto alla reazione di Macbeth e alle celebri frasi che seguono (“La vita, che importa! E’ il racconto di un povero idiota...”). La morte di Lady Macbeth girata in questo modo ricorda molto una scena analoga in “Narciso Nero” di Powell e Pressburger, che è dello stesso anno.
Nella scena del banchetto, oltre allo spettro di Banquo Macbeth vede anche quello di Re Duncan, ma ci può stare; è però un altro errore, oltre al suicidio della Lady, la morte del bambino figlio di Macduff girata in maniera diversa dall’originale, resa molto più cinematografica e “d’effetto” contro la scabra semplicità di Shakespeare. Il figlio di Macduff (Christopher Welles) è un po’ petulante e poco “virile”, ma anche questo ci può stare.
L’edizione italiana è notevolissima, con le voci di Gino Cervi e di tutti i principali attori italiani dell’epoca,che recitano nella versione di Mario Praz. Le voci sono magnifiche, peccato per i tagli (la versione italiana è più corta).
Le musiche sono firmate da un compositore importante, Jacques Ibert: sono belle ma poco memorizzabili, con qualche inserto caricaturale come nella scena dell’ubriachezza di Macbeth. dai titoli di testa apprendiamo che le dirige Efrem Kurtz, un direttore d’orchestra che negli anni 70-80, già molto anziano, era ancora molto attivo anche in Italia.
In conclusione, un film grandissimo e una prova d’attore che dà i brividi, ma si capisce anche come mai pubblico e critica lo accolsero male, subito dopo Citizen Kane che era il trionfo del cinema, qui siamo all’anticinema. Scarsità finanziaria o disegno artistico preciso? Meglio lasciare la parola a Welles stesso.
(...) Orson Welles è senz'altro meno soddisfatto del suo precedente film tratto da Shakespeare, Macbeth, che durante la sua lunga programmazione nelle sale di Parigi ha provocato una grande varietà di commenti, molti dei quali non esattamente lusinghieri.
« La prima sera c'è stata una rissa nel cinema tra i sostenitori del film e i suoi detrattori, - mi ha detto. - L'indifferenza mi avrebbe fatto molto più male. Dopotutto, il film non può essere così scarso se è piaciuto a gente come Jean Cocteau. D'altra parte, non considero una nota di vanto il fatto che il film stia avendo un successo eclatante in Germania, dove il pubblico probabilmente è attratto dalla ferocia medievale della storia. Ora vedo i suoi molti difetti, in particolare nella versione riadattata, ma credo ancora che sia più fedele a Shakespeare di molte produzioni teatrali di Macbeth che ho visto. La cosa peggiore è che nessuno sembra giudicare il film per quello che è: cioè un esperimento messo in piedi in ventitré giorni con un budget estremamente ridotto.»
Orson Welles sembra stanco, e ammette di esserlo. La sua spossatezza nasce non tanto dal lavoro effettivo sulla produzione di Othello (che è durata oltre un anno) quanto dalle preoccupazioni connesse. "Tornare un po’ al teatro per me è una forma di rilassamento", dice con un sorriso ambiguo. Ma la sua capacità lavorativa è enorme. Sta sfruttando le sue esibizioni di ogni sera sul palcoscenico in due parti diametralmente opposte come un gradito cambiamento rispetto al lavoro cinematografico, ma le sue giornate sono ancora occupate dal montaggio e dal doppiaggio di Otello. E tra le due cose riesce anche a trovare il tempo per lavorare alla sua nuova produzione teatrale.
E i nuovi film? Niente da fare, ancora per un po'. (...)
(Da Sight and Sound, dicembre l950, intervista a Francis Koval)
(da “It’s all true- interviste con Orson Welles”, editore Minimum Fax 2005)
lunedì 28 dicembre 2009
Echi da un paese oscuro
Echi da un paese oscuro (Echos aus einem düsteren Reich, 1990) Regia di Werner Herzog. Documentario su Jean Bedel Bokassa e la Repubblica Centro Africana, realizzato con Michael Goldsmith. Durata 91 minuti
- Quanti figli ha suo marito, signora?La signora, che si chiama Augustine Assemat, ha un bel volto luminoso e cordiale; è l’ultima moglie di Jean Bedel Bokassa, madre del suo figlio più piccolo. Augustine sorride e risponde:
- Lui dice che sono cinquantaquattro.
- E da quante madri?Augustine arrossisce un po’, sorride ancora, fa un piccolo gesto imbarazzato: non lo sa di preciso, ma sono tante.
Jean Bedel Bokassa (1921-1996) è stato, insieme all’ugandese Idi Amin Dada, uno dei dittatori più famosi degli ultimi decenni. Un personaggio da favola, per molti versi: una favola cattiva, quella del capo africano crudele e sanguinario, che si circonda di sfarzo e di lusso, che si ispira a Napoleone e si dichiara Imperatore, con tanto di festa interminabile in abiti primo Ottocento e cerimonia cattolica. Intanto su di lui circolano voci che sembrano ancora più incredibili, voci non solo di sevizie e torture agli oppositori, ma anche di cannibalismo.
« Je ne suis pas cannibal! » dice Bokassa stesso, con forza, in un filmato tratto dal processo che si sta celebrando a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, nei giorni in cui Werner Herzog decide di raccontarne la storia in questo documentario. Per girarlo, si serve della collaborazione di Michael Goldsmith, corrispondente dal Sudafrica della Associated Press. Goldsmith, considerato una spia, fu incarcerato e condannato a morte da Bokassa in persona; è lui ad aprire il film e ad intervistare, con molto tatto, la signora Bokassa nel dialogo che ho riportato all’inizio. Per quest’intervista si è recato al castello di Haudricourt, in Francia, vicino a Parigi. Bokassa è in prigione quando si gira il film, è tornato a Bangui per essere processato una seconda volta. Verrà condannato a morte per la seconda volta, pena poi commutata in ergastolo; verrà graziato nel 1993 e morirà a casa sua di infarto nel 1996. Herzog è colpito da questa vicenda, il dittatore potrebbe restare tranquillo dentro questa magnifica reggia europea, e invece decide di tornare in Centro Africa e farsi processare.
Con l’aiuto di Goldsmith, Herzog va ad intervistare David Dacko, che fu presidente della Repubblica CentroAfricana prima e dopo Bokassa, e i due avvocati francesi che furono suoi difensori nel processo di Bangui. Dacko racconta che venne tenuto tre anni e mezzo in prigione senza poter parlare con nessuno; era nudo, catene ai piedi, manette, sdraiato sul cemento. In tutto, ha fatto sette anni in prigione. L’avvocato Szpiner parla di Bokassa, militare nell’esercito francese, cresciuto nel mito di De Gaulle; ricorda che Bokassa visse vent’anni lontano dall’Africa, si può dire che di africano avesse ben poco.
Seguono filmati con le cerimonie ufficiali: Bokassa è accolto con tutti gli onori e il rispetto dovuto ad un capo di Stato da De Gaulle, da Giscard d’Estaing, dal Papa, dai russi, dagli americani, da tutti. C’è il filmato dell’incoronazione, molto lungo e dettagliato: tra gli ospiti di rilievo c’è anche un cardinale. La cerimonia si svolge come se fossimo a Versailles, fra tute mimetiche e carrozze napoleoniche, mentre il bambino-principe sbadiglia e si addormenta sul trono.
Ma, soprattutto, Herzog va a cercare i familiari di Bokassa, ed è questa la parte più impressionante del film. Le figlie, al castello di Haudricourt, sono tutte belle, giovani, serene, intelligenti, molto fini. Sono figlie di madri diverse: una rumena, una cinese, una vietnamita. Anche il più piccolo, il maschietto nato dall’unione con Augustine Assemat, è molto bello e bene educato. E poi c’è la storia delle due figlie vietnamite: Bokassa sapeva di avere una figlia, nata in Indocina quando era là con l’esercito francese, e decide di cercarla. Se ne presenta una, che viene adottata con tutti gli onori ma si rivelerà falsa; e poi ne arriverà una vera, con tutte le carte in regola. Si chiamano tutte e due Martina: Bokassa perdonò la falsa e la tenne con sè come figlia, alla pari delle altre. Goldsmith intervista la vera Martina, tra le giostre di una fiera; racconta che Bokassa la riconobbe come figlia perché si ricordava di un particolare, un dito fratturato, che le raccontava sua madre. Segue il filmato del fastoso matrimonio cattolico delle due Martine, nello stesso giorno. Il marito della falsa Martina partecipò a un colpo di Stato e fu giustiziato; la falsa Martina sparì e non se ne seppe più niente. Restava un bambino, loro figlio; il marito della vera Martina, medico, fu incaricato di farlo sparire; verrà processato e condannato per l’infanticidio del nipote. Ma sua moglie, la vera Martine, nega tutto: dice a Goldsmith che in quelle circostanze è normale che si venga incolpati di qualsiasi cosa.
A Venezia, Goldsmith incontra Marie-Reine Hassen, costretta a sposare Bokassa che aveva incarcerato tutta la sua famiglia. Dice che Bokassa si comportò con lei con molta gentilezza, da vero innamorato: ma lei era stata molte settimane in prigione, era scheletrica e piangeva, disse di sì solo per poter liberare i fratelli.
Le testimonianze sono molte, sia con filmati originali che con interviste filmate da Herzog. La presenza di Michael Goldsmith è fondamentale in questo film. Goldsmith è un signore sui sessant’anni, di un’eleganza classica molto inglese; sembra quasi di rivedere Enzo Biagi, la stessa mitezza, la stessa educazione, e la stessa precisione. Da tutto questo materiale nasce un film in cui il richiamo a Shakespeare è fortissimo, e inevitabile. Questi re folli e assassini, ma anche amati e rispettati, a loro modo grandiosi e sicuramente memorabili. Qualcosa di inquietante e di memorabile, un Macbeth, un Tito Andronico, un Riccardo III. Come loro, Bokassa è stregato dal potere, commette spaventose atrocità, è amato e rispettato, ha grandi moti d’animo e bassezze inarrivabili – e ricostruire la verità non è facile.
L’avvocato Gibault, che prende la difesa di Bokassa dopo la condanna, racconta a Goldsmith che lo vede regolarmente, in carcere, dove è trattato bene. E’ diventato mistico, legge sempre la Bibbia e si firma “apostolo di Cristo”.
Non manca l’elemento magico e stregonesco: Szpiner racconta che al processo succedevano cose strane, alcune testimonianze contro Bokassa erano grottesche, tipo quella messa a verbale nel 1980 che raccontava di una mano che si stacca dal corpo di un morto messo allo spiedo, e che si mette a camminare (come negli Addams): ma Dacko conferma le accuse, dice che molte testimonianze furono volutamente alterate e che molti testimoni furono spaventati e obbligati a non presentarsi al processo. Szpiner dice anche che a un certo punto si fece il nome di una donna, che aveva tre seni e quindi era una strega. Il processo si fermò molto su quel punto, la vicenda della strega si portò via parecchie ore di dibattito, ma non aveva nulla a che vedere con il processo a Bokassa.
Goldsmith si trasferisce sul lago, tra i pescatori. Uno di loro racconta, e un altro traduce in francese:
- Parla degli spiriti malvagi che vivono sott’acqua. Ce ne sono di quelli che vengono al mattino, al levar del sole. Gli spiriti malvagi appaiono in forma di persone, si trasformano in esseri umani, voltano la schiena al sole e guardano a lungo. Anche se qualcuno viene dietro di loro con delle pietre e fa gran rumore, non si scompongono. Se li disturbano, scendono immediatamente sott’acqua, senza dire niente, e non si voltano mai. Sono donne e uomini, e tutti hanno i capelli fin dietro la schiena. Si fermano un po’, e quando sentono che il sole comincia a scaldare discendono sott’acqua immediatamente e poi si trasformano in pesci, o in ippopotami, oppure in caimani, per vivere sott’acqua. Fuori erano esseri umani, sott’acqua si trasformano in animali. Alle volte attaccano i pescatori: c’era un ippopotamo, meno di due anni fa, che ha ucciso molte persone e allora il presidente della Repubblica ha preso la decisione che lo si ammazzasse.I pescatori dicono che amavano Bokassa, ma che dopo è diventato molto cattivo, e che tutto quello che si racconta su di lui è vero. L’interprete fa molti esempi, e anche il pescatore che ha raccontato la storia degli spiriti dice che Bokassa va condannato.
Il film inizia con un sogno di Goldsmith: granchi rossi che coprono la terra, ma nessuno se ne cura. Vediamo un’immagine simile, ma vera: un treno, che avanza sul binario coperto da piccoli granchi.
Il finale è nello zoo di Bokassa, ridotto a pochi esemplari. Ne esiste un altro più grande, non lontano, ma era qui che i condannati venivano dati in pasto a leoni e coccodrilli. I leoni non ci sono più, dal 1984; i coccodrilli sono giù nel laghetto. Il custode chiede a Goldsmith una sigaretta: non è per lui, che non sa nemmeno accenderla, ma è per una scimmia, uno scimpanzé adulto che sa fumare e che per questo è diventato un’attrazione. Lo scimpanzé che fuma ha un’espressione inquietante, sembra davvero umano; non nel senso positivo che siamo abituati a dare alla parola, ma nel senso di un’umanità degradata, abbrutita. Un condannato, un prigioniero che fuma, quasi meccanicamente, più per passare il tempo che per il piacere di farlo. Goldsmith chiede a Herzog di interrompere le riprese, non sopporta questa immagine. Herzog gli spiega che non può, e insieme concordano che questa sarà la sequenza finale. Goldsmith ne ha viste tante, ma non sopporta questo scimpanzé che fuma; ed è una sequenza che davvero disturba, ma vedendola si capisce subito perché Herzog abbia voluto tenerla, in un documentario come questo.
Non avevo ben inquadrato “Echi da un paese oscuro”, fino a che non mi è capitato di leggere un intervento che ricordava le atrocità commesse dai fascisti qui in Lombardia, negli anni della Repubblica di Salò. I figli di quegli assassini sono pur sempre tra di noi, alcuni di loro hanno cariche politiche ed economiche importanti, si dichiarano alfieri del cattolicesimo e della moralità, nessuno parla più dei loro padri e forse è giusto che sia così.
Bokassa ha avuto un’enormità di figli, quindi ha vinto: biologicamente, dal punto di vista genetico, è così. Herzog ce li ha mostrati, e sono persone fini, piacevoli, eleganti, educate. Chissà cosa faranno oggi. Se non commettono reati, è più che giusto che seguano la loro strada, e che magari diventino chirurghi o politici, anche se nel loro sangue hanno il dna di un assassino o di un cannibale; ma il pensarlo un po’ mi inquieta.
D’altra parte, qualcuno ha fatto notare che Abele morì senza avere figli, e quindi siamo tutti discendenti di Caino: non è proprio così perché la Bibbia dice che Adamo ebbe altri figli in seguito, ma certamente stupratori e assassini sono stati biologicamente privilegiati, nel corso dei secoli, e forse è meglio non andare troppo a cercare tra i nostri antenati, e quindi è giusto non far pesare ai nostri Governatori le colpe dei loro padri. Forse noi tutti discendiamo da assassini, forse siamo davvero la stirpe di Caino. Ed è forse per questo che lo sguardo dello scimpanzé di Bokassa ci disturba così tanto.
PS: Come sempre in Herzog, il film è pieno di musica. Ma questo non è “Apocalisse nel deserto”, anche la qualità delle immagini è per forza di cose più bassa, perciò posso limitarmi a riportarne l’elenco così come appare nei titoli di coda:
Bartok 4 pezzi per orchestra op.12
Prokofiev Sonata per due violini op.56
Lutoslawski Grave Métamorphoses per piano e violoncello
Sciostakovic Tre duetti per violino e Preludio
JS Bach Sonata violoncello e klavier BWV ??
Bartok Concerto per violino e orchestra op. post.
Esther Lamandier La rosa enflorece (canzone in stile ebraico o provenzale)
Sciostakovic Sonata violoncello e pianoforte in re bemolle D Moll op.40
Schubert Trio piano violino violoncello n.2 Es dur op.100
Schubert Notturno op.148
- Quanti figli ha suo marito, signora?La signora, che si chiama Augustine Assemat, ha un bel volto luminoso e cordiale; è l’ultima moglie di Jean Bedel Bokassa, madre del suo figlio più piccolo. Augustine sorride e risponde:
- Lui dice che sono cinquantaquattro.
- E da quante madri?Augustine arrossisce un po’, sorride ancora, fa un piccolo gesto imbarazzato: non lo sa di preciso, ma sono tante.
Jean Bedel Bokassa (1921-1996) è stato, insieme all’ugandese Idi Amin Dada, uno dei dittatori più famosi degli ultimi decenni. Un personaggio da favola, per molti versi: una favola cattiva, quella del capo africano crudele e sanguinario, che si circonda di sfarzo e di lusso, che si ispira a Napoleone e si dichiara Imperatore, con tanto di festa interminabile in abiti primo Ottocento e cerimonia cattolica. Intanto su di lui circolano voci che sembrano ancora più incredibili, voci non solo di sevizie e torture agli oppositori, ma anche di cannibalismo.
« Je ne suis pas cannibal! » dice Bokassa stesso, con forza, in un filmato tratto dal processo che si sta celebrando a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, nei giorni in cui Werner Herzog decide di raccontarne la storia in questo documentario. Per girarlo, si serve della collaborazione di Michael Goldsmith, corrispondente dal Sudafrica della Associated Press. Goldsmith, considerato una spia, fu incarcerato e condannato a morte da Bokassa in persona; è lui ad aprire il film e ad intervistare, con molto tatto, la signora Bokassa nel dialogo che ho riportato all’inizio. Per quest’intervista si è recato al castello di Haudricourt, in Francia, vicino a Parigi. Bokassa è in prigione quando si gira il film, è tornato a Bangui per essere processato una seconda volta. Verrà condannato a morte per la seconda volta, pena poi commutata in ergastolo; verrà graziato nel 1993 e morirà a casa sua di infarto nel 1996. Herzog è colpito da questa vicenda, il dittatore potrebbe restare tranquillo dentro questa magnifica reggia europea, e invece decide di tornare in Centro Africa e farsi processare.
Con l’aiuto di Goldsmith, Herzog va ad intervistare David Dacko, che fu presidente della Repubblica CentroAfricana prima e dopo Bokassa, e i due avvocati francesi che furono suoi difensori nel processo di Bangui. Dacko racconta che venne tenuto tre anni e mezzo in prigione senza poter parlare con nessuno; era nudo, catene ai piedi, manette, sdraiato sul cemento. In tutto, ha fatto sette anni in prigione. L’avvocato Szpiner parla di Bokassa, militare nell’esercito francese, cresciuto nel mito di De Gaulle; ricorda che Bokassa visse vent’anni lontano dall’Africa, si può dire che di africano avesse ben poco.
Seguono filmati con le cerimonie ufficiali: Bokassa è accolto con tutti gli onori e il rispetto dovuto ad un capo di Stato da De Gaulle, da Giscard d’Estaing, dal Papa, dai russi, dagli americani, da tutti. C’è il filmato dell’incoronazione, molto lungo e dettagliato: tra gli ospiti di rilievo c’è anche un cardinale. La cerimonia si svolge come se fossimo a Versailles, fra tute mimetiche e carrozze napoleoniche, mentre il bambino-principe sbadiglia e si addormenta sul trono.
Ma, soprattutto, Herzog va a cercare i familiari di Bokassa, ed è questa la parte più impressionante del film. Le figlie, al castello di Haudricourt, sono tutte belle, giovani, serene, intelligenti, molto fini. Sono figlie di madri diverse: una rumena, una cinese, una vietnamita. Anche il più piccolo, il maschietto nato dall’unione con Augustine Assemat, è molto bello e bene educato. E poi c’è la storia delle due figlie vietnamite: Bokassa sapeva di avere una figlia, nata in Indocina quando era là con l’esercito francese, e decide di cercarla. Se ne presenta una, che viene adottata con tutti gli onori ma si rivelerà falsa; e poi ne arriverà una vera, con tutte le carte in regola. Si chiamano tutte e due Martina: Bokassa perdonò la falsa e la tenne con sè come figlia, alla pari delle altre. Goldsmith intervista la vera Martina, tra le giostre di una fiera; racconta che Bokassa la riconobbe come figlia perché si ricordava di un particolare, un dito fratturato, che le raccontava sua madre. Segue il filmato del fastoso matrimonio cattolico delle due Martine, nello stesso giorno. Il marito della falsa Martina partecipò a un colpo di Stato e fu giustiziato; la falsa Martina sparì e non se ne seppe più niente. Restava un bambino, loro figlio; il marito della vera Martina, medico, fu incaricato di farlo sparire; verrà processato e condannato per l’infanticidio del nipote. Ma sua moglie, la vera Martine, nega tutto: dice a Goldsmith che in quelle circostanze è normale che si venga incolpati di qualsiasi cosa.
A Venezia, Goldsmith incontra Marie-Reine Hassen, costretta a sposare Bokassa che aveva incarcerato tutta la sua famiglia. Dice che Bokassa si comportò con lei con molta gentilezza, da vero innamorato: ma lei era stata molte settimane in prigione, era scheletrica e piangeva, disse di sì solo per poter liberare i fratelli.
Le testimonianze sono molte, sia con filmati originali che con interviste filmate da Herzog. La presenza di Michael Goldsmith è fondamentale in questo film. Goldsmith è un signore sui sessant’anni, di un’eleganza classica molto inglese; sembra quasi di rivedere Enzo Biagi, la stessa mitezza, la stessa educazione, e la stessa precisione. Da tutto questo materiale nasce un film in cui il richiamo a Shakespeare è fortissimo, e inevitabile. Questi re folli e assassini, ma anche amati e rispettati, a loro modo grandiosi e sicuramente memorabili. Qualcosa di inquietante e di memorabile, un Macbeth, un Tito Andronico, un Riccardo III. Come loro, Bokassa è stregato dal potere, commette spaventose atrocità, è amato e rispettato, ha grandi moti d’animo e bassezze inarrivabili – e ricostruire la verità non è facile.
L’avvocato Gibault, che prende la difesa di Bokassa dopo la condanna, racconta a Goldsmith che lo vede regolarmente, in carcere, dove è trattato bene. E’ diventato mistico, legge sempre la Bibbia e si firma “apostolo di Cristo”.
Non manca l’elemento magico e stregonesco: Szpiner racconta che al processo succedevano cose strane, alcune testimonianze contro Bokassa erano grottesche, tipo quella messa a verbale nel 1980 che raccontava di una mano che si stacca dal corpo di un morto messo allo spiedo, e che si mette a camminare (come negli Addams): ma Dacko conferma le accuse, dice che molte testimonianze furono volutamente alterate e che molti testimoni furono spaventati e obbligati a non presentarsi al processo. Szpiner dice anche che a un certo punto si fece il nome di una donna, che aveva tre seni e quindi era una strega. Il processo si fermò molto su quel punto, la vicenda della strega si portò via parecchie ore di dibattito, ma non aveva nulla a che vedere con il processo a Bokassa.
Goldsmith si trasferisce sul lago, tra i pescatori. Uno di loro racconta, e un altro traduce in francese:
- Parla degli spiriti malvagi che vivono sott’acqua. Ce ne sono di quelli che vengono al mattino, al levar del sole. Gli spiriti malvagi appaiono in forma di persone, si trasformano in esseri umani, voltano la schiena al sole e guardano a lungo. Anche se qualcuno viene dietro di loro con delle pietre e fa gran rumore, non si scompongono. Se li disturbano, scendono immediatamente sott’acqua, senza dire niente, e non si voltano mai. Sono donne e uomini, e tutti hanno i capelli fin dietro la schiena. Si fermano un po’, e quando sentono che il sole comincia a scaldare discendono sott’acqua immediatamente e poi si trasformano in pesci, o in ippopotami, oppure in caimani, per vivere sott’acqua. Fuori erano esseri umani, sott’acqua si trasformano in animali. Alle volte attaccano i pescatori: c’era un ippopotamo, meno di due anni fa, che ha ucciso molte persone e allora il presidente della Repubblica ha preso la decisione che lo si ammazzasse.I pescatori dicono che amavano Bokassa, ma che dopo è diventato molto cattivo, e che tutto quello che si racconta su di lui è vero. L’interprete fa molti esempi, e anche il pescatore che ha raccontato la storia degli spiriti dice che Bokassa va condannato.
Il film inizia con un sogno di Goldsmith: granchi rossi che coprono la terra, ma nessuno se ne cura. Vediamo un’immagine simile, ma vera: un treno, che avanza sul binario coperto da piccoli granchi.
Il finale è nello zoo di Bokassa, ridotto a pochi esemplari. Ne esiste un altro più grande, non lontano, ma era qui che i condannati venivano dati in pasto a leoni e coccodrilli. I leoni non ci sono più, dal 1984; i coccodrilli sono giù nel laghetto. Il custode chiede a Goldsmith una sigaretta: non è per lui, che non sa nemmeno accenderla, ma è per una scimmia, uno scimpanzé adulto che sa fumare e che per questo è diventato un’attrazione. Lo scimpanzé che fuma ha un’espressione inquietante, sembra davvero umano; non nel senso positivo che siamo abituati a dare alla parola, ma nel senso di un’umanità degradata, abbrutita. Un condannato, un prigioniero che fuma, quasi meccanicamente, più per passare il tempo che per il piacere di farlo. Goldsmith chiede a Herzog di interrompere le riprese, non sopporta questa immagine. Herzog gli spiega che non può, e insieme concordano che questa sarà la sequenza finale. Goldsmith ne ha viste tante, ma non sopporta questo scimpanzé che fuma; ed è una sequenza che davvero disturba, ma vedendola si capisce subito perché Herzog abbia voluto tenerla, in un documentario come questo.
Non avevo ben inquadrato “Echi da un paese oscuro”, fino a che non mi è capitato di leggere un intervento che ricordava le atrocità commesse dai fascisti qui in Lombardia, negli anni della Repubblica di Salò. I figli di quegli assassini sono pur sempre tra di noi, alcuni di loro hanno cariche politiche ed economiche importanti, si dichiarano alfieri del cattolicesimo e della moralità, nessuno parla più dei loro padri e forse è giusto che sia così.
Bokassa ha avuto un’enormità di figli, quindi ha vinto: biologicamente, dal punto di vista genetico, è così. Herzog ce li ha mostrati, e sono persone fini, piacevoli, eleganti, educate. Chissà cosa faranno oggi. Se non commettono reati, è più che giusto che seguano la loro strada, e che magari diventino chirurghi o politici, anche se nel loro sangue hanno il dna di un assassino o di un cannibale; ma il pensarlo un po’ mi inquieta.
D’altra parte, qualcuno ha fatto notare che Abele morì senza avere figli, e quindi siamo tutti discendenti di Caino: non è proprio così perché la Bibbia dice che Adamo ebbe altri figli in seguito, ma certamente stupratori e assassini sono stati biologicamente privilegiati, nel corso dei secoli, e forse è meglio non andare troppo a cercare tra i nostri antenati, e quindi è giusto non far pesare ai nostri Governatori le colpe dei loro padri. Forse noi tutti discendiamo da assassini, forse siamo davvero la stirpe di Caino. Ed è forse per questo che lo sguardo dello scimpanzé di Bokassa ci disturba così tanto.
PS: Come sempre in Herzog, il film è pieno di musica. Ma questo non è “Apocalisse nel deserto”, anche la qualità delle immagini è per forza di cose più bassa, perciò posso limitarmi a riportarne l’elenco così come appare nei titoli di coda:
Bartok 4 pezzi per orchestra op.12
Prokofiev Sonata per due violini op.56
Lutoslawski Grave Métamorphoses per piano e violoncello
Sciostakovic Tre duetti per violino e Preludio
JS Bach Sonata violoncello e klavier BWV ??
Bartok Concerto per violino e orchestra op. post.
Esther Lamandier La rosa enflorece (canzone in stile ebraico o provenzale)
Sciostakovic Sonata violoncello e pianoforte in re bemolle D Moll op.40
Schubert Trio piano violino violoncello n.2 Es dur op.100
Schubert Notturno op.148
domenica 27 dicembre 2009
Green Card \ The plumber
- The plumber (L’uomo di stagno, 1979) Scritto e diretto da Peter Weir. Fotografia di David Sanderson. Musica di Rory O’Donoghue e Gerry Tolland . Con Judy Morris, Ivar Kants, Robert Coleby. Durata 76 minuti
- Green Card (Matrimonio di convenienza, 1990) Scritto e diretto da Peter Weir. Fotografia di Geoffrey Simpson. Musiche di Mozart, Theodorakis, Enya, Beach Boys; Larry Wright assolo di batteria. Musiche originali di Hans Zimmer. Con Andie Mac Dowell, Gerard Depardieu, Bebe Neuwirth, Jesse Keosian, Gregg Edelman, Robert Prosky, Ethan Phillips, Lois Smith, Conrad McLaren. Durata: 103 minuti
In uno dei suoi primi film, “The plumber”, girato subito dopo “Picnic ad Hanging rock” e “L’ultima onda”, Weir mette in scena questa situazione: una giovane antropologa, in Australia, torna a casa dopo una lunga assenza dovuta ad una missione sul campo, in paesi lontani e sperduti. Ha portato con sè molte registrazioni, e adesso si accinge a studiarle e a trascriverle. E’ bella ma non appariscente, proprio il tipo che ci si aspetterebbe pensando ad una professoressa. Anche la casa è molto ordinata, ariosa, con una bella biblioteca.
Ma ecco sorgere un problema: qualcosa non va nella doccia. Bisogna chiamare un idraulico, che arriva. E’ un uomo giovane, più o meno dell’età della professoressa; è gentile ed efficiente, molto fine. Si presenta bene, e ripara subito il difetto. Ma il giorno dopo il problema si ripresenta, e la donna è costretta a richiamarlo. In breve tempo, la presenza dell’idraulico diventa una costante in quella casa: lui c’è sempre, anche quando lei lo scaccia e decide di chiamare un altro, eccolo intrufolarsi in casa, non invitato. Non ha cattive intenzioni, è sempre mite e gentilissimo, sembra non volere altro che riparare quel guasto. Che fare? Esasperata, la donna escogita un piano davvero perfido: fa trovare della refurtiva (ce la mette lei, denunciando il furto) nella macchina del giovane, e telefona alla polizia. Il piano funziona, il giovane viene portato via con il cellulare e l’antropologa può tornare tranquilla al suo lavoro, sorseggiando una tazza di tè mentre guarda fuori dalla finestra la macchina che si allontana portando via quel disgraziato.
Dopo “The plumber” inizia la stagione dei grandi successi per Peter Weir, che inizia la carriera in USA, con film come “Witness”, “L’attimo fuggente”, “Truman Show”.
In mezzo a questi film, ecco arrivare “Green Card”, nel 1989. Mi è sembrato importante riassumere “The plumber”, perché qui Weir (autore anche del soggetto) rielabora quella situazione, e la rende più commerciale e più adatta al cinema hollywoodiano. Weir ha trovato un modo eccellente di “vendersi” (mi si passi la brutta parola) senza vendersi anche l’anima, rimanendo sempre se stesso e continuando a fare film d’autore anche per il grande circuito. Prima di lui era successo a pochi, e penso a John Huston, o a Hitchcock.
E’ difficile capire in pieno “Green Card” senza pensare a quel piccolo film australiano. So che a molti “Green Card” è sembrato un filmetto rosa senza molto sangue, ma non è proprio così. Il tema dell’estraneo, di qualcosa che piomba nelle nostre vite e le cambia, o fa sorgere chiaramente visibile in noi qualcosa che prima era nascosto, è il tema principale dell’opera di Peter Weir - che è da considerarsi come un vero (e grande) autore e non come uno dei tanti bravi professionisti. Weir è sempre molto sottile, ma sta molto attento a non dispiacere al suo pubblico, e quindi non è facile accorgersi delle sue sottigliezze. Proverò qui a riassumere Green Card, dandone per scontate le caratteristiche esterne più facilmente osservabili anche a una visione distratta.
La “Green Card”, il permesso di soggiorno per gli stranieri, l’ho scoperta in occasione di questo film. Non immaginavo nemmeno che esistesse una cosa del genere, e mi sembrava strano che fosse applicabile anche a un francese, cioè a un europeo. Avrei visto meglio questo film con un protagonista maschile nero, o arabo; oggi mi rendo conto che la situazione è decisamente peggiorata, ma che già nel 1989 anche per me sarebbe stato difficile avere la Green Card, e non solo per Depardieu. Grazie a questo film ho anche scoperto l’esistenza di quei “consigli condominiali” (non so come si chiamino di preciso) che hanno la possibilità di negare l’accesso allo stabile ad alcune persone. A New York esistono, e ricordo d’aver letto che perfino a persone ricche e famose (cantanti, attori) fu negato l’acquisto di appartamenti prestigiosi: una star come Madonna (nel senso della signora Ciccone) avrebbe attirato stuoli di fotografi e curiosi, rovinando il tranquillo vivere dei condòmini.
E’ da queste due situazioni che inizia il film: Depardieu è un musicista sbandato che ha bisogno del permesso di soggiorno, Andie Mc Dowell è una signorina elegante appassionata di guardinaggio che ha messo gli occhi su un meraviglioso appartamento, trasformato in serra dal precedente proprietario. Il proprietario, curatore di quel giardino famoso tra gli appassionati, è morto; il consiglio di condominio vuole al suo posto una coppia sposata e tranquilla, senza figli perché i bambini sono maleducati e fanno baccano. E che non siano neri, per carità. Andie (che nel film si chiama Bronte, a causa un padre scrittore che ha dato ai figli nomi tratti dai libri che ama) non vuole sposarsi, anche se ha un fidanzato; e quindi si appoggia ad un amico che organizza il finto matrimonio. Sono cose che si fanno (oggi anche da noi), ma la FBI vigila e ci sono pesanti sanzioni per i falsi matrimoni.
Il film inizia con un bellissimo assolo di batteria: è un ragazzo di strada, che picchia a gran ritmo su un secchio di plastica rovesciato. Lì vicino c’è anche Andie, che impariamo a conoscere; e subito la vediamo incontrare il grosso francese, in un bar chiamato Afrika. Si sposano e si salutano, convinti di non vedersi più.
Ma poi qualcosa non funziona, l’FBI indaga e sospetta, i vicini e il portinaio annusano qualcosa che non va. I due saranno costretti a separarsi proprio quando hanno scoperto di non essere più due estranei, ma noi ormai sappiamo che questo è solo l’inizio della loro storia insieme.
C’è molta musica nel film, usata in modo curioso e di origine diversa. Tra le sequenze che ricordo più volentieri, il Valzer di Chopin suonato dalla madre di Bebe Neuwirth, poi l’improvvisazione violenta di Depardieu invitato a suonare (“non è Mozàrt” “Lo so”), seguita dalla poesia suonata con accompagnamento furbescamente romantico, che parla dei poveri che non hanno le piante e che porterà alla protagonista l’appoggio desiderato e ormai insperato. E il Mozart suonato in casa di Andie, i rappers e i martelli pneumatici per strada. Molto belle le musiche originali, molto appropriate al clima dei film di Weir.
Il personaggio di Depardieu porta il nome di un musicista importante, Fauré: ma è Georges e non Gabriel; e quando si nomina Gabriel Fauré (maestro di Ravel e di tanti altri grandi musicisti francesi) il francese alza le spalle: “E chi è?”. Nella colonna sonora anche le melodie evanescenti di Enya, una musicista irlandese che ricorda davvero molto Andie Mac Dowell anche nell’aspetto fisico. Nel finale, quando ormai è chiaro che dovrà lasciarla (ma lei ancora non lo sa), Depardieu manderà alla moglie la canzone che canticchiava, in una busta, tramite portinaio. Nel biglietto accluso, le ricorda gli “elefònti”, e i tamburi dell’Africa...
Aggiungerei due righe per gli altri atttori: meravigliosa (e tosta) la vecchina del consiglio di condominio; grande presenza Bebe Neuwirth, che interpreta l’amica di Bronte che vorrebbe soffiarle quel bel maschio francese; ottimo l’ispettore dell’immigrazione. E una menzione particolare per il doppiaggio italiano, per il quale è stato cercato e scelto un attore francese molto bravo, che parla con un vero accento francese evitando così l’effetto Pantera Rosa che avrebbe provocato un gran danno al film.
Nelle interviste, Depardieu racconta sempre volentieri che Andie Mac Dowell era timidissima, e che quando la vediamo arrossire arrossiva per davvero. In effetti, i due messi insieme danno davvero l’impressione di essere capitati lì per caso: ma nel finale ci si commuove davanti al loro abbraccio, e ricordarlo è il più bel complimento che si possa fare ad attori e regista.
- Green Card (Matrimonio di convenienza, 1990) Scritto e diretto da Peter Weir. Fotografia di Geoffrey Simpson. Musiche di Mozart, Theodorakis, Enya, Beach Boys; Larry Wright assolo di batteria. Musiche originali di Hans Zimmer. Con Andie Mac Dowell, Gerard Depardieu, Bebe Neuwirth, Jesse Keosian, Gregg Edelman, Robert Prosky, Ethan Phillips, Lois Smith, Conrad McLaren. Durata: 103 minuti
In uno dei suoi primi film, “The plumber”, girato subito dopo “Picnic ad Hanging rock” e “L’ultima onda”, Weir mette in scena questa situazione: una giovane antropologa, in Australia, torna a casa dopo una lunga assenza dovuta ad una missione sul campo, in paesi lontani e sperduti. Ha portato con sè molte registrazioni, e adesso si accinge a studiarle e a trascriverle. E’ bella ma non appariscente, proprio il tipo che ci si aspetterebbe pensando ad una professoressa. Anche la casa è molto ordinata, ariosa, con una bella biblioteca.
Ma ecco sorgere un problema: qualcosa non va nella doccia. Bisogna chiamare un idraulico, che arriva. E’ un uomo giovane, più o meno dell’età della professoressa; è gentile ed efficiente, molto fine. Si presenta bene, e ripara subito il difetto. Ma il giorno dopo il problema si ripresenta, e la donna è costretta a richiamarlo. In breve tempo, la presenza dell’idraulico diventa una costante in quella casa: lui c’è sempre, anche quando lei lo scaccia e decide di chiamare un altro, eccolo intrufolarsi in casa, non invitato. Non ha cattive intenzioni, è sempre mite e gentilissimo, sembra non volere altro che riparare quel guasto. Che fare? Esasperata, la donna escogita un piano davvero perfido: fa trovare della refurtiva (ce la mette lei, denunciando il furto) nella macchina del giovane, e telefona alla polizia. Il piano funziona, il giovane viene portato via con il cellulare e l’antropologa può tornare tranquilla al suo lavoro, sorseggiando una tazza di tè mentre guarda fuori dalla finestra la macchina che si allontana portando via quel disgraziato.
Dopo “The plumber” inizia la stagione dei grandi successi per Peter Weir, che inizia la carriera in USA, con film come “Witness”, “L’attimo fuggente”, “Truman Show”.
In mezzo a questi film, ecco arrivare “Green Card”, nel 1989. Mi è sembrato importante riassumere “The plumber”, perché qui Weir (autore anche del soggetto) rielabora quella situazione, e la rende più commerciale e più adatta al cinema hollywoodiano. Weir ha trovato un modo eccellente di “vendersi” (mi si passi la brutta parola) senza vendersi anche l’anima, rimanendo sempre se stesso e continuando a fare film d’autore anche per il grande circuito. Prima di lui era successo a pochi, e penso a John Huston, o a Hitchcock.
E’ difficile capire in pieno “Green Card” senza pensare a quel piccolo film australiano. So che a molti “Green Card” è sembrato un filmetto rosa senza molto sangue, ma non è proprio così. Il tema dell’estraneo, di qualcosa che piomba nelle nostre vite e le cambia, o fa sorgere chiaramente visibile in noi qualcosa che prima era nascosto, è il tema principale dell’opera di Peter Weir - che è da considerarsi come un vero (e grande) autore e non come uno dei tanti bravi professionisti. Weir è sempre molto sottile, ma sta molto attento a non dispiacere al suo pubblico, e quindi non è facile accorgersi delle sue sottigliezze. Proverò qui a riassumere Green Card, dandone per scontate le caratteristiche esterne più facilmente osservabili anche a una visione distratta.
La “Green Card”, il permesso di soggiorno per gli stranieri, l’ho scoperta in occasione di questo film. Non immaginavo nemmeno che esistesse una cosa del genere, e mi sembrava strano che fosse applicabile anche a un francese, cioè a un europeo. Avrei visto meglio questo film con un protagonista maschile nero, o arabo; oggi mi rendo conto che la situazione è decisamente peggiorata, ma che già nel 1989 anche per me sarebbe stato difficile avere la Green Card, e non solo per Depardieu. Grazie a questo film ho anche scoperto l’esistenza di quei “consigli condominiali” (non so come si chiamino di preciso) che hanno la possibilità di negare l’accesso allo stabile ad alcune persone. A New York esistono, e ricordo d’aver letto che perfino a persone ricche e famose (cantanti, attori) fu negato l’acquisto di appartamenti prestigiosi: una star come Madonna (nel senso della signora Ciccone) avrebbe attirato stuoli di fotografi e curiosi, rovinando il tranquillo vivere dei condòmini.
E’ da queste due situazioni che inizia il film: Depardieu è un musicista sbandato che ha bisogno del permesso di soggiorno, Andie Mc Dowell è una signorina elegante appassionata di guardinaggio che ha messo gli occhi su un meraviglioso appartamento, trasformato in serra dal precedente proprietario. Il proprietario, curatore di quel giardino famoso tra gli appassionati, è morto; il consiglio di condominio vuole al suo posto una coppia sposata e tranquilla, senza figli perché i bambini sono maleducati e fanno baccano. E che non siano neri, per carità. Andie (che nel film si chiama Bronte, a causa un padre scrittore che ha dato ai figli nomi tratti dai libri che ama) non vuole sposarsi, anche se ha un fidanzato; e quindi si appoggia ad un amico che organizza il finto matrimonio. Sono cose che si fanno (oggi anche da noi), ma la FBI vigila e ci sono pesanti sanzioni per i falsi matrimoni.
Il film inizia con un bellissimo assolo di batteria: è un ragazzo di strada, che picchia a gran ritmo su un secchio di plastica rovesciato. Lì vicino c’è anche Andie, che impariamo a conoscere; e subito la vediamo incontrare il grosso francese, in un bar chiamato Afrika. Si sposano e si salutano, convinti di non vedersi più.
Ma poi qualcosa non funziona, l’FBI indaga e sospetta, i vicini e il portinaio annusano qualcosa che non va. I due saranno costretti a separarsi proprio quando hanno scoperto di non essere più due estranei, ma noi ormai sappiamo che questo è solo l’inizio della loro storia insieme.
C’è molta musica nel film, usata in modo curioso e di origine diversa. Tra le sequenze che ricordo più volentieri, il Valzer di Chopin suonato dalla madre di Bebe Neuwirth, poi l’improvvisazione violenta di Depardieu invitato a suonare (“non è Mozàrt” “Lo so”), seguita dalla poesia suonata con accompagnamento furbescamente romantico, che parla dei poveri che non hanno le piante e che porterà alla protagonista l’appoggio desiderato e ormai insperato. E il Mozart suonato in casa di Andie, i rappers e i martelli pneumatici per strada. Molto belle le musiche originali, molto appropriate al clima dei film di Weir.
Il personaggio di Depardieu porta il nome di un musicista importante, Fauré: ma è Georges e non Gabriel; e quando si nomina Gabriel Fauré (maestro di Ravel e di tanti altri grandi musicisti francesi) il francese alza le spalle: “E chi è?”. Nella colonna sonora anche le melodie evanescenti di Enya, una musicista irlandese che ricorda davvero molto Andie Mac Dowell anche nell’aspetto fisico. Nel finale, quando ormai è chiaro che dovrà lasciarla (ma lei ancora non lo sa), Depardieu manderà alla moglie la canzone che canticchiava, in una busta, tramite portinaio. Nel biglietto accluso, le ricorda gli “elefònti”, e i tamburi dell’Africa...
Aggiungerei due righe per gli altri atttori: meravigliosa (e tosta) la vecchina del consiglio di condominio; grande presenza Bebe Neuwirth, che interpreta l’amica di Bronte che vorrebbe soffiarle quel bel maschio francese; ottimo l’ispettore dell’immigrazione. E una menzione particolare per il doppiaggio italiano, per il quale è stato cercato e scelto un attore francese molto bravo, che parla con un vero accento francese evitando così l’effetto Pantera Rosa che avrebbe provocato un gran danno al film.
Nelle interviste, Depardieu racconta sempre volentieri che Andie Mac Dowell era timidissima, e che quando la vediamo arrossire arrossiva per davvero. In effetti, i due messi insieme danno davvero l’impressione di essere capitati lì per caso: ma nel finale ci si commuove davanti al loro abbraccio, e ricordarlo è il più bel complimento che si possa fare ad attori e regista.
venerdì 25 dicembre 2009
Pinocchio tra Disney e Collodi ( I )
- Le avventure di Pinocchio, libro di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato nel 1880.
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
Avrei voluto fare con “Pinocchio” lo stesso percorso che ho fatto con “Alice”, e cioè passare in rassegna capitolo per capitolo le differenze e le corrispondenze tra il libro film; ma mi sono accorto subito che non era possibile.
Il Pinocchio di Collodi e quello di Disney sono proprio due cose differenti. Disney mantiene alcuni dei personaggi del libro e alcune situazioni, ma si tratta di una vera e propria riscrittura, che va ben al di là dei tagli necessari per una riduzione cinematografica (produrre un cartone animato era un lavoro difficile e impegnativo, oltre che molto costoso, nel 1940).
Dei personaggi di Collodi rimangono soltanto Geppetto, Pinocchio, il grillo, la Fata, Mangiafoco, il Gatto e la Volpe, l’omino di burro, Lucignolo; ma quasi tutti cambiano nome o caratteristiche. L’elenco dei personaggi tagliati è così lungo che dovrò farlo un po’ alla volta; magari lo metterò come riassunto finale. E’ chiaro che si tratta di scelte in gran parte obbligate, non si può far stare tutto “Pinocchio” in un’ora e mezza; ma dispiace ugualmente non vedere il Pescatore Verde, o Pinocchio che fa la parte del cane Melampo con le faine, eccetera.
Il primo personaggio a saltare è Maestro Ciliegia, e non è una perdita da poco: quei primi capitoli, con il bisticcio fra i due vecchietti, dà il tono a tutto quello che segue, è come l’indicazione della tonalità in un brano musicale: da qui si parte, questo è l’ambiente, questo è il ritmo da seguire.
Il Pinocchio di Disney è molto bello, ma è un musical: tutt’altra ambientazione, altri ritmi, altra tonalità.
L’inizio del film è completamente differente dal Pinocchio di Collodi, proprio un’altra cosa.Basta aprire il libro per vedere che in Collodi il pezzo di legno, all’inizio, non è nelle mani di Geppetto e ci arriverà solo dopo un po’.
Nel capitolo 1, Maestro Ciliegia comincia a lavorare un pezzo di legno e scopre che c’è qualcosa di strano. Nel capitolo 2, Maestro Ciliegia regalerà quell’inquietante pezzo di legno a Geppetto: è Geppetto che va dal vicino, e lo fa apposta per chiedergli un pezzo di legno perché vuole fare un burattino. La scena è molto buffa e giustamente famosa.
Nel capitolo 3, Geppetto inizia a fabbricare il burattino; e arrivano subito i primi dispetti. Pinocchio corre via non appena ha le gambe, e verrà fermato dai carabinieri; ma Geppetto li convince a lasciar lì “il ragazzo” e a portare via lui, il padre, che è il vero responsabile del disordine causato da Pinocchio.
In Disney non c’è Maestro Ciliegia, come abbiamo visto; e Geppetto, che ha gli occhi azzurri e somiglia molto ad Albert Einstein, è un simpatico costruttore di giocattoli molto raffinati e ingegnosi. Soprattutto, non ci sono la povertà e la miseria descritte da Collodi; e l’ambiente non è rurale ma cittadino.
Vediamo anche dei nuovi personaggi, che in Collodi mancano: un gattino (Figaro) e un pesce rosso, anzi una pesciolina (di colore dorato: si chiama Cleo).
Il Grillo in Collodi non l’abbiamo ancora incontrato, ma qui c’è fin dall’inizio: anzi, è lui il Narratore. Ha perfino un nome: Jimmy Cricket (dove “cricket” non è il gioco di squadra amato dagli inglesi, ma è proprio la parola che traduce “grillo”), e un abito di scena, all’inizio molto consunto. Il Grillo di Disney è vestito come W.C.Fields, o come i personaggi dei fumetti d’inizio secolo, Arcibaldo e Petronilla.
Nel film, il Grillo è una presenza costante e rappresenta il tutore di Pinocchio, la sua coscienza; ma va ricordato che nel libro di Collodi il ruolo di “coscienza” non è solamente del Grillo, ma è distribuito tra diversi personaggi: un merlo (cap.XII), un pappagallo (cap. XIX), una lucciola (cap.XXI), un granchio (cap.XXVII), Inoltre, in Collodi compare un altro Grillo parlante, ed è uno dei tre medici a casa della Fatina, nel cap. XVI.
Il film inizia con il Grillo che apre il libro e inizia a raccontare la storia: è subito una canzone, dove si racconta come al principio il Grillo dubitasse dell’esistenza delle Fate che esaudiscono i desideri, ma poi ha dovuto ricredersi. “Lasciate che vi racconti come ho cambiato idea”.
E questa è un’altra differenza fondamentale con Pinocchio, dove la Fata non ha niente a che vedere con l’approvazione dei desideri, ma appare per conto suo e agisce di sua iniziativa. In Collodi, la Fata è chiamata in diversi modi: la Bambina dai Capelli Turchini, ma anche sorellina (sulla lapide del cap. XXII) e anche mammina (cap.XXV). Solo da metà libro in avanti verrà chiamata apertamente “Fatina”.
E’ diverso anche il posto dove è ambientata la storia: niente Toscana, ma paesaggi vagamente tirolesi o svizzeri, montagne e paesini ben ordinati e puliti, con le strade lastricate. All’inizio il Grillo è malvestito e lacero, ed entra nella casa di Geppetto solo per scaldarsi.
La casa è piccola ma molto bella e ben arredata, piena di orologi e carillon, giocattoli e burattini; e c’è anche un bambino di legno con gli occhi azzurri.
Torna Geppetto con il gattino, prende il bambino di legno e finisce l’opera; quindi lo muove come una marionetta qualsiasi, usando i fili, da provetto burattinaio. E’ il secondo numero musicale, molto bello, dove si esibiscono la pesciolina e il gattino, e dove il Grillo è protagonista con molte gags insieme alle figurine dei giocattoli e dei carillon. Dettagli numerosi e molto belli, soprattutto si insiste sul carillon tirolese.
Infine, tutti gli orologi suonano l’ora, con dettagli molto divertenti; ed è tardi, ora di andare a letto. Geppetto mette via la marionetta, e va a dormire: in queste sequenze è protagonista il gattino Figaro, che ha un suo lettino proprio come i bambini, e che da bambino si comporta. Prima di dormire, Geppetto vede una stella cadente ed esprime un desiderio: vorrebbe tanto che la sua nuova marionetta fosse un bambino vero.
Dalla finestra (aperta poco prima dal gattino) entrerà nella notte la Fata, “The Blue Fairy”: l’unico a vederla sarà il Grillo, rimasto sveglio a causa del russare di Geppetto e del ticchettio degli orologi (un’altra sequenza molto bella e ricca di dettagli: anche la graziosa pesciolina sta russando!).
La Fata è bionda coi capelli lunghi e ha l’abito di stelle; è visibilmente ricalcata su un’attrice vera, ed è molto bella. Esaudisce il desiderio di Geppetto e Pinocchio comincia a muoversi, ma è ancora una marionetta: «Mi muovo! So parlare! Cammino!».
Come tutti i bambini, Pinocchio ha subito un sacco di “perché” da chiedere. Ma la Fata gli dice subito che se vuole diventare un bambino vero dovrà essere “bravo, coraggioso e disinteressato” (come nel Flauto Magico di Mozart?), e saper distinguere il bene dal male.
Il Grillo ne approfitta e comincia a spiegare a Pinocchio che cos’è la coscienza; la Fata vedendolo molto in parte gli dà un’investitura ufficiale: coscienza di Pinocchio, con tanto di abito nuovo ed elegantissimo.
La Fata Azzurra se ne va, e il Grillo insegna l’etica e la morale al burattino, o almeno ci prova: è il duetto “impara a fischiettar” (“quando sei in difficoltà e hai bisogno di me, fai un fischio!”). Pinocchio cerca di imitare i passi di danza del Grillo, ma è ancora molto goffo e fa cadere tutto. Il rumore sveglia Geppetto.
Danza di Geppetto con Pinocchio, altri carillon, altre gags del Grillo con i giocattoli, tutto molto bello e da rivedere. Qui c’è un piccolissimo rimando a Collodi: nel giocare, Pinocchio si brucia un dito, e il dito verrà spento nella vaschetta di Cleo. In Collodi, la scena in cui Pinocchio brucia una parte di se stesso è molto più dura e drammatica.
Infine, tutti a letto: ma Pinocchio non sa dormire, che cos’è dormire? Nascono un sacco di “perché”, e Geppetto decide che l’indomani il bimbo nuovo andrà a scuola, come tutti i bambini.
(continua)
I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”) (copia personale, ma - è d'obbligo dirlo - è una proprietà che condivido con mia sorella) .
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
Avrei voluto fare con “Pinocchio” lo stesso percorso che ho fatto con “Alice”, e cioè passare in rassegna capitolo per capitolo le differenze e le corrispondenze tra il libro film; ma mi sono accorto subito che non era possibile.
Il Pinocchio di Collodi e quello di Disney sono proprio due cose differenti. Disney mantiene alcuni dei personaggi del libro e alcune situazioni, ma si tratta di una vera e propria riscrittura, che va ben al di là dei tagli necessari per una riduzione cinematografica (produrre un cartone animato era un lavoro difficile e impegnativo, oltre che molto costoso, nel 1940).
Dei personaggi di Collodi rimangono soltanto Geppetto, Pinocchio, il grillo, la Fata, Mangiafoco, il Gatto e la Volpe, l’omino di burro, Lucignolo; ma quasi tutti cambiano nome o caratteristiche. L’elenco dei personaggi tagliati è così lungo che dovrò farlo un po’ alla volta; magari lo metterò come riassunto finale. E’ chiaro che si tratta di scelte in gran parte obbligate, non si può far stare tutto “Pinocchio” in un’ora e mezza; ma dispiace ugualmente non vedere il Pescatore Verde, o Pinocchio che fa la parte del cane Melampo con le faine, eccetera.
Il primo personaggio a saltare è Maestro Ciliegia, e non è una perdita da poco: quei primi capitoli, con il bisticcio fra i due vecchietti, dà il tono a tutto quello che segue, è come l’indicazione della tonalità in un brano musicale: da qui si parte, questo è l’ambiente, questo è il ritmo da seguire.
Il Pinocchio di Disney è molto bello, ma è un musical: tutt’altra ambientazione, altri ritmi, altra tonalità.
L’inizio del film è completamente differente dal Pinocchio di Collodi, proprio un’altra cosa.Basta aprire il libro per vedere che in Collodi il pezzo di legno, all’inizio, non è nelle mani di Geppetto e ci arriverà solo dopo un po’.
Nel capitolo 1, Maestro Ciliegia comincia a lavorare un pezzo di legno e scopre che c’è qualcosa di strano. Nel capitolo 2, Maestro Ciliegia regalerà quell’inquietante pezzo di legno a Geppetto: è Geppetto che va dal vicino, e lo fa apposta per chiedergli un pezzo di legno perché vuole fare un burattino. La scena è molto buffa e giustamente famosa.
Nel capitolo 3, Geppetto inizia a fabbricare il burattino; e arrivano subito i primi dispetti. Pinocchio corre via non appena ha le gambe, e verrà fermato dai carabinieri; ma Geppetto li convince a lasciar lì “il ragazzo” e a portare via lui, il padre, che è il vero responsabile del disordine causato da Pinocchio.
In Disney non c’è Maestro Ciliegia, come abbiamo visto; e Geppetto, che ha gli occhi azzurri e somiglia molto ad Albert Einstein, è un simpatico costruttore di giocattoli molto raffinati e ingegnosi. Soprattutto, non ci sono la povertà e la miseria descritte da Collodi; e l’ambiente non è rurale ma cittadino.
Vediamo anche dei nuovi personaggi, che in Collodi mancano: un gattino (Figaro) e un pesce rosso, anzi una pesciolina (di colore dorato: si chiama Cleo).
Il Grillo in Collodi non l’abbiamo ancora incontrato, ma qui c’è fin dall’inizio: anzi, è lui il Narratore. Ha perfino un nome: Jimmy Cricket (dove “cricket” non è il gioco di squadra amato dagli inglesi, ma è proprio la parola che traduce “grillo”), e un abito di scena, all’inizio molto consunto. Il Grillo di Disney è vestito come W.C.Fields, o come i personaggi dei fumetti d’inizio secolo, Arcibaldo e Petronilla.
Nel film, il Grillo è una presenza costante e rappresenta il tutore di Pinocchio, la sua coscienza; ma va ricordato che nel libro di Collodi il ruolo di “coscienza” non è solamente del Grillo, ma è distribuito tra diversi personaggi: un merlo (cap.XII), un pappagallo (cap. XIX), una lucciola (cap.XXI), un granchio (cap.XXVII), Inoltre, in Collodi compare un altro Grillo parlante, ed è uno dei tre medici a casa della Fatina, nel cap. XVI.
Il film inizia con il Grillo che apre il libro e inizia a raccontare la storia: è subito una canzone, dove si racconta come al principio il Grillo dubitasse dell’esistenza delle Fate che esaudiscono i desideri, ma poi ha dovuto ricredersi. “Lasciate che vi racconti come ho cambiato idea”.
E questa è un’altra differenza fondamentale con Pinocchio, dove la Fata non ha niente a che vedere con l’approvazione dei desideri, ma appare per conto suo e agisce di sua iniziativa. In Collodi, la Fata è chiamata in diversi modi: la Bambina dai Capelli Turchini, ma anche sorellina (sulla lapide del cap. XXII) e anche mammina (cap.XXV). Solo da metà libro in avanti verrà chiamata apertamente “Fatina”.
E’ diverso anche il posto dove è ambientata la storia: niente Toscana, ma paesaggi vagamente tirolesi o svizzeri, montagne e paesini ben ordinati e puliti, con le strade lastricate. All’inizio il Grillo è malvestito e lacero, ed entra nella casa di Geppetto solo per scaldarsi.
La casa è piccola ma molto bella e ben arredata, piena di orologi e carillon, giocattoli e burattini; e c’è anche un bambino di legno con gli occhi azzurri.
Torna Geppetto con il gattino, prende il bambino di legno e finisce l’opera; quindi lo muove come una marionetta qualsiasi, usando i fili, da provetto burattinaio. E’ il secondo numero musicale, molto bello, dove si esibiscono la pesciolina e il gattino, e dove il Grillo è protagonista con molte gags insieme alle figurine dei giocattoli e dei carillon. Dettagli numerosi e molto belli, soprattutto si insiste sul carillon tirolese.
Infine, tutti gli orologi suonano l’ora, con dettagli molto divertenti; ed è tardi, ora di andare a letto. Geppetto mette via la marionetta, e va a dormire: in queste sequenze è protagonista il gattino Figaro, che ha un suo lettino proprio come i bambini, e che da bambino si comporta. Prima di dormire, Geppetto vede una stella cadente ed esprime un desiderio: vorrebbe tanto che la sua nuova marionetta fosse un bambino vero.
Dalla finestra (aperta poco prima dal gattino) entrerà nella notte la Fata, “The Blue Fairy”: l’unico a vederla sarà il Grillo, rimasto sveglio a causa del russare di Geppetto e del ticchettio degli orologi (un’altra sequenza molto bella e ricca di dettagli: anche la graziosa pesciolina sta russando!).
La Fata è bionda coi capelli lunghi e ha l’abito di stelle; è visibilmente ricalcata su un’attrice vera, ed è molto bella. Esaudisce il desiderio di Geppetto e Pinocchio comincia a muoversi, ma è ancora una marionetta: «Mi muovo! So parlare! Cammino!».
Come tutti i bambini, Pinocchio ha subito un sacco di “perché” da chiedere. Ma la Fata gli dice subito che se vuole diventare un bambino vero dovrà essere “bravo, coraggioso e disinteressato” (come nel Flauto Magico di Mozart?), e saper distinguere il bene dal male.
Il Grillo ne approfitta e comincia a spiegare a Pinocchio che cos’è la coscienza; la Fata vedendolo molto in parte gli dà un’investitura ufficiale: coscienza di Pinocchio, con tanto di abito nuovo ed elegantissimo.
La Fata Azzurra se ne va, e il Grillo insegna l’etica e la morale al burattino, o almeno ci prova: è il duetto “impara a fischiettar” (“quando sei in difficoltà e hai bisogno di me, fai un fischio!”). Pinocchio cerca di imitare i passi di danza del Grillo, ma è ancora molto goffo e fa cadere tutto. Il rumore sveglia Geppetto.
Danza di Geppetto con Pinocchio, altri carillon, altre gags del Grillo con i giocattoli, tutto molto bello e da rivedere. Qui c’è un piccolissimo rimando a Collodi: nel giocare, Pinocchio si brucia un dito, e il dito verrà spento nella vaschetta di Cleo. In Collodi, la scena in cui Pinocchio brucia una parte di se stesso è molto più dura e drammatica.
Infine, tutti a letto: ma Pinocchio non sa dormire, che cos’è dormire? Nascono un sacco di “perché”, e Geppetto decide che l’indomani il bimbo nuovo andrà a scuola, come tutti i bambini.
(continua)
I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”) (copia personale, ma - è d'obbligo dirlo - è una proprietà che condivido con mia sorella) .
giovedì 24 dicembre 2009
Pinocchio tra Disney e Collodi ( II )
- Le avventure di Pinocchio, libro di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato nel 1880.
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
In Disney, Pinocchio va subito a scuola, e lo vediamo allegramente dirigersi in paese ben vestito e con un bel libro nelle mani; molto bella la panoramica sul paesino, che sembra ripresa dai film di René Clair (penso a “Il milione” e “Sotto i tetti di Parigi”).
Nel libro di Collodi, le cose vanno meno bene: Pinocchio appena nato combina subito guai, e Geppetto è stato portato via dai Carabinieri.
Nel capitolo IV, Pinocchio è rimasto da solo in casa; qui incontra il Grillo, ma Pinocchio si stanca subito di ascoltarlo e lo spiaccica contro il muro. Nel capitolo V, Pinocchio ha fame ma trova in casa soltanto un uovo; prova a cucinarlo ma quando lo rompe ne vola fuori un pulcino. Nel capitolo VI, Pinocchio si addormenta vicino al fuoco e si brucia i piedi; essendo fatto di legno non se ne accorge. Nel capitolo VII, torna a casa Geppetto, che dà a Pinocchio la sua colazione: tre pere. Pinocchio vuole che siano sbucciate, ma poi ha ancora fame e mangerà anche le bucce e i torsoli; Geppetto invece resterà senza nulla da mangiare. Nel capitolo VIII, Geppetto rifà i piedi a Pinocchio; quindi vende la sua giacca per comperargli il libro di scuola, il famoso “Abbecedario”.
Qui Collodi ha appena cominciato, ma in Disney quando Pinocchio va a scuola siamo già a un terzo della durata complessiva del film. Pinocchio versione Disney è ben vestito ed elegante (nel libro ha una giacchetta di carta e un berretto di midolla di pane), Geppetto gli dà una mela “da offrire al maestro”. Ma a scuola Pinocchio non ci arriva: trova subito il Gatto e la Volpe, che sono due attori di teatro e sembrano usciti da un romanzo di Dickens, magari “Il circolo Pickwick”.
A questo punto devo ammettere di aver rinunciato al parallelo capitolo per capitolo, perché i tagli e le differenze sono davvero tanti. L’incontro con il Gatto e la Volpe, in Collodi, ha un taglio decisamente più drammatico, addirittura oscuro: ricorderò solo che alla fine Pinocchio verrà impiccato, che l’impiccagione è descritta nei dettagli, e che si salverà perchè – essendo di legno – non può morire; sarà comunque la Fata a salvarlo e riportarlo in salute.
Tutto questo era evidentemente troppo per un cartone animato, e viene saltato o cambiato. Per esempio, il Gatto in Disney è molto simpatico ed è un evidente ricalco di Harpo Marx, così come era stato per il Cucciolo dei sette nani di Biancaneve. Niente a che vedere quindi con l’inquietante, sporco, e decisamente malavitoso Gatto del libro.
Oltretutto, in Collodi il Gatto si mangia un merlo, proprio come farebbe un gatto vero: il merlo è un’altra parte della coscienza di Pinocchio, qui interamente affidata al Grillo. E va ricordato che a questo punto, in Collodi, il Grillo è già morto: tornerà, ma come fantasma. Anche questo dettaglio, in un cartoon Disney, era sicuramente troppo forte; e poi Jimmy Cricket è troppo simpatico, mica si può farlo morire così...
Il cartoon Disney salta quindi completamente tutta la storia degli zecchini d’oro, di Melampo, della permanenza di Pinocchio in prigione; salta tutta la scena a casa della Fata, con i tre medici, i becchini, le bugie e i confetti col rosolio.
Quello che succede nel film è questo: il Gatto e la Volpe avvicinano Pinocchio perché è una marionetta semovente, quindi un’attrazione, qualcosa che si può rubare e vendere a un burattinaio: che però si chiama Stromboli e non Mangiafoco. Lo si vede bene anche nella versione italiana, dove però il doppiaggio dice “Mangiafuoco”: il pubblico italiano conosceva bene tutta la storia, e un Mangiafoco con un altro nome non era ammissibile (ma nei manifesti dello spettacolo il nome “Stromboli” è ancora ben visibile).
Ma, prima, c’è un bel numero musicale: un duetto di Pinocchio con la Volpe (il Gatto è muto, come Harpo Marx, mentre in Collodi ripete sempre l’ultima sillaba di quello che dice la Volpe). La canzone è sul mestiere dell’attore, e viene eseguita con una danza che prosegue per tutta la strada. Invano il Grillo cerca di recuperare Pinocchio alla retta via.
Il Volpone si mangia la mela destinata al maestro (è quasi identico al Luigi Proietti del “Circolo Pickwick” televisivo) e dice a Pinocchio che “ci sono vie più facili verso il successo” rispetto alla scuola, così noiosa.
Il Grillo decide che non andrà a raccontare tutto a Geppetto: in fin dei conti, si è preso un impegno con la Fata, è lui la Coscienza Ufficiale di Pinocchio e tocca a lui rimediare.
L’incontro con Mangiafoco, nel libro, è simile ma molto diverso nella sostanza; e il Gatto e la Volpe non c’entrano. Infatti vediamo Pinocchio vendere il libro di scuola per comperarsi i biglietti per lo spettacolo dei burattini; allo spettacolo i burattini accolgono Pinocchio come un fratello, poi però arriva Mangiafoco e si corrono momenti terribili. Ma, alla fine, Mangiafoco non sarà così terribile: anzi, regala a Pinocchio le cinque monete d’oro che poi saranno protagoniste della scena più cupa del libro, quella degli assassini. Dunque, per Collodi è solo dopo l’incontro con Mangiafoco che Pinocchio conoscerà il Gatto e la Volpe.
Mangiafoco: Che mestiere fa tuo padre?
Pinocchio: Il povero.
Mangiafoco: E guadagna molto?
(capitolo XII)
In Disney va così: Pinocchio diventa l’attrazione principale dello spettacolo di Stromboli-Mangiafuoco, una marionetta senza fili! Pinocchio è goffo e impacciato, ma lo spettacolo (ben documentato dal film) è comunque un successone. Il Grillo se ne va, pensando di essersi sbagliato: se davvero Pinocchio vuole fare l’attore, che male c’è?
Molto bello il duetto di Pinocchio con l’olandesina, e la canzoncina che canta dice: «Io fili non ho più, eppur sto su!”. In Collodi, tra le marionette vediamo le maschere della Commedia dell’Arte, che riconoscono Pinocchio come uno di loro e gli fanno una gran festa. Sono Arlecchino, Pulcinella, Rosaura: ad Arlecchino tocca una scena molto drammatica. Nel film le maschere non ci sono: dopo l’olandesina, arrivano le ballerine francesi e poi cosacche e cosacchi.
“Cosa se ne fa un attore di una coscienza?” dice il Grillo, e considera chiusa la sua missione, sia pure a malincuore. Ma non sarà così. (continua...)
I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”) (miracolosamente conservata attraverso i decenni, ma ne valeva la pena).
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
In Disney, Pinocchio va subito a scuola, e lo vediamo allegramente dirigersi in paese ben vestito e con un bel libro nelle mani; molto bella la panoramica sul paesino, che sembra ripresa dai film di René Clair (penso a “Il milione” e “Sotto i tetti di Parigi”).
Nel libro di Collodi, le cose vanno meno bene: Pinocchio appena nato combina subito guai, e Geppetto è stato portato via dai Carabinieri.
Nel capitolo IV, Pinocchio è rimasto da solo in casa; qui incontra il Grillo, ma Pinocchio si stanca subito di ascoltarlo e lo spiaccica contro il muro. Nel capitolo V, Pinocchio ha fame ma trova in casa soltanto un uovo; prova a cucinarlo ma quando lo rompe ne vola fuori un pulcino. Nel capitolo VI, Pinocchio si addormenta vicino al fuoco e si brucia i piedi; essendo fatto di legno non se ne accorge. Nel capitolo VII, torna a casa Geppetto, che dà a Pinocchio la sua colazione: tre pere. Pinocchio vuole che siano sbucciate, ma poi ha ancora fame e mangerà anche le bucce e i torsoli; Geppetto invece resterà senza nulla da mangiare. Nel capitolo VIII, Geppetto rifà i piedi a Pinocchio; quindi vende la sua giacca per comperargli il libro di scuola, il famoso “Abbecedario”.
Qui Collodi ha appena cominciato, ma in Disney quando Pinocchio va a scuola siamo già a un terzo della durata complessiva del film. Pinocchio versione Disney è ben vestito ed elegante (nel libro ha una giacchetta di carta e un berretto di midolla di pane), Geppetto gli dà una mela “da offrire al maestro”. Ma a scuola Pinocchio non ci arriva: trova subito il Gatto e la Volpe, che sono due attori di teatro e sembrano usciti da un romanzo di Dickens, magari “Il circolo Pickwick”.
A questo punto devo ammettere di aver rinunciato al parallelo capitolo per capitolo, perché i tagli e le differenze sono davvero tanti. L’incontro con il Gatto e la Volpe, in Collodi, ha un taglio decisamente più drammatico, addirittura oscuro: ricorderò solo che alla fine Pinocchio verrà impiccato, che l’impiccagione è descritta nei dettagli, e che si salverà perchè – essendo di legno – non può morire; sarà comunque la Fata a salvarlo e riportarlo in salute.
Tutto questo era evidentemente troppo per un cartone animato, e viene saltato o cambiato. Per esempio, il Gatto in Disney è molto simpatico ed è un evidente ricalco di Harpo Marx, così come era stato per il Cucciolo dei sette nani di Biancaneve. Niente a che vedere quindi con l’inquietante, sporco, e decisamente malavitoso Gatto del libro.
Oltretutto, in Collodi il Gatto si mangia un merlo, proprio come farebbe un gatto vero: il merlo è un’altra parte della coscienza di Pinocchio, qui interamente affidata al Grillo. E va ricordato che a questo punto, in Collodi, il Grillo è già morto: tornerà, ma come fantasma. Anche questo dettaglio, in un cartoon Disney, era sicuramente troppo forte; e poi Jimmy Cricket è troppo simpatico, mica si può farlo morire così...
Il cartoon Disney salta quindi completamente tutta la storia degli zecchini d’oro, di Melampo, della permanenza di Pinocchio in prigione; salta tutta la scena a casa della Fata, con i tre medici, i becchini, le bugie e i confetti col rosolio.
Quello che succede nel film è questo: il Gatto e la Volpe avvicinano Pinocchio perché è una marionetta semovente, quindi un’attrazione, qualcosa che si può rubare e vendere a un burattinaio: che però si chiama Stromboli e non Mangiafoco. Lo si vede bene anche nella versione italiana, dove però il doppiaggio dice “Mangiafuoco”: il pubblico italiano conosceva bene tutta la storia, e un Mangiafoco con un altro nome non era ammissibile (ma nei manifesti dello spettacolo il nome “Stromboli” è ancora ben visibile).
Ma, prima, c’è un bel numero musicale: un duetto di Pinocchio con la Volpe (il Gatto è muto, come Harpo Marx, mentre in Collodi ripete sempre l’ultima sillaba di quello che dice la Volpe). La canzone è sul mestiere dell’attore, e viene eseguita con una danza che prosegue per tutta la strada. Invano il Grillo cerca di recuperare Pinocchio alla retta via.
Il Volpone si mangia la mela destinata al maestro (è quasi identico al Luigi Proietti del “Circolo Pickwick” televisivo) e dice a Pinocchio che “ci sono vie più facili verso il successo” rispetto alla scuola, così noiosa.
Il Grillo decide che non andrà a raccontare tutto a Geppetto: in fin dei conti, si è preso un impegno con la Fata, è lui la Coscienza Ufficiale di Pinocchio e tocca a lui rimediare.
L’incontro con Mangiafoco, nel libro, è simile ma molto diverso nella sostanza; e il Gatto e la Volpe non c’entrano. Infatti vediamo Pinocchio vendere il libro di scuola per comperarsi i biglietti per lo spettacolo dei burattini; allo spettacolo i burattini accolgono Pinocchio come un fratello, poi però arriva Mangiafoco e si corrono momenti terribili. Ma, alla fine, Mangiafoco non sarà così terribile: anzi, regala a Pinocchio le cinque monete d’oro che poi saranno protagoniste della scena più cupa del libro, quella degli assassini. Dunque, per Collodi è solo dopo l’incontro con Mangiafoco che Pinocchio conoscerà il Gatto e la Volpe.
Mangiafoco: Che mestiere fa tuo padre?
Pinocchio: Il povero.
Mangiafoco: E guadagna molto?
(capitolo XII)
In Disney va così: Pinocchio diventa l’attrazione principale dello spettacolo di Stromboli-Mangiafuoco, una marionetta senza fili! Pinocchio è goffo e impacciato, ma lo spettacolo (ben documentato dal film) è comunque un successone. Il Grillo se ne va, pensando di essersi sbagliato: se davvero Pinocchio vuole fare l’attore, che male c’è?
Molto bello il duetto di Pinocchio con l’olandesina, e la canzoncina che canta dice: «Io fili non ho più, eppur sto su!”. In Collodi, tra le marionette vediamo le maschere della Commedia dell’Arte, che riconoscono Pinocchio come uno di loro e gli fanno una gran festa. Sono Arlecchino, Pulcinella, Rosaura: ad Arlecchino tocca una scena molto drammatica. Nel film le maschere non ci sono: dopo l’olandesina, arrivano le ballerine francesi e poi cosacche e cosacchi.
“Cosa se ne fa un attore di una coscienza?” dice il Grillo, e considera chiusa la sua missione, sia pure a malincuore. Ma non sarà così. (continua...)
I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”) (miracolosamente conservata attraverso i decenni, ma ne valeva la pena).
mercoledì 23 dicembre 2009
Pinocchio tra Disney e Collodi ( III )
- Le avventure di Pinocchio, libro di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato nel 1880.
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
Il Pinocchio di Disney è un musical, e le canzoni portano via molto tempo: penso che sia questa la ragione principale dei tagli e della riscrittura (penso ai duetti di Pinocchio con la Volpe, o all’esibizione nel teatro delle marionette). Il film finisce anche per somigliare molto ai cartoons meravigliosi e leggendari degli anni ’30, i primi del sonoro, con molti numeri musicali e anche con l’esibizione degli oggetti animati; e a me piacciono molto queste sequenze, perché permettono un grande sfogo alla fantasia. In questo senso, notevolissime sono le sequenze dedicate ai giocattoli e agli orologi nel laboratorio di Geppetto.
Avevamo comunque lasciato Pinocchio al culmine del successo; lo vediamo ora in compagnia di Stromboli (cioè Mangiafoco) che, tutto contento, si gode l’incasso. Ma ora Pinocchio pensa al suo babbo, e vorrebbe tornare a casa; il burattinaio non ne vuole sapere e lo chiude in una gabbia da canarini. Qui Disney ha qualcosa della cupezza del libro, e i dettagli delle marionette morte nel carro di Stromboli è ben degno anche del famoso “lato oscuro” della Disney, presente fin da Biancaneve.
Qui torna il Grillo, che vorrebbe solo salutare l’amico e invece si trova a constatare quello che è successo. Cerca invano di aprire il lucchetto che chiude la gabbia (è un’altra scena molto buffa), ma se non arrivasse in soccorso la Fata non ci sarebbe nulla da fare.
Intanto, veniamo a sapere che Geppetto è partito per cercare Pinocchio.
Nella scena con la Fatina Azzurra, vediamo l’unico momento del film in cui il naso di Pinocchio si allunga a causa delle bugie: molto ben fatto e molto divertente. Il naso di Pinocchio fa anche i germogli, poi le foglie, poi diventa un ramo con un nido e degli uccellini...
“Alcune bugie hanno le game corte, altre hanno il naso lungo”: che è anche in Collodi, cap.XVII.
La Fata perdona Pinocchio, ma gli ricorda che “Se del perdono non sarai degno, tutta la vita sarai di legno”. La Fata sparisce, il Grillo e Pinocchio scappano via dal carro di Mangiafuoco.
A questo punto, Disney riprende l’Osteria del Gambero Rosso (“Red Lobster Inn”) e vi mette il Gatto e la Volpe (come nel libro, ma era il cap.XII) ma in compagnia del Postiglione, che è l’Omino di Burro di Collodi:
(...) Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da uomo di vacchetta bianca. E il conduttore del carro?...
Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d'un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di « Paese dei Balocchi ». (...) (Le avventure di Pinocchio, capitolo XXXI)Il Postiglione cerca “ragazzi svogliati, disobbedienti che non vanno a scuola” e i due compari gli vendono Pinocchio. Il Postiglione a questo punto si trasforma in mostro spaventoso: “dal Paese dei Balocchi non tornano mai più, non come ragazzi!”
Seguono i buoni propositi di Pinocchio: “meglio istruito che attore!”, che però non durano: Pinocchio viene ripescato subito dal Gatto e dalla Volpe. La Volpe si finge dottore, il Gatto lo aiuta: ancora gags nello stile dei Fratelli Marx. Il medico-volpone trova Pinocchio esaurito e gli consiglia di andare nel Paese dei Balocchi. (Cartoon simili, sull’esaurimento e lo psicanalista, li troviamo anche con protagonista Paperino).
Poi arriva il Grillo che cerca Pinocchio, ma ormai è tardi.
Vediamo la carrozza con Lucignolo (che si chiama Gideon) e altri bambini, ma poi anche una nave a vapore, un portone enorme, un luna park che sembra Metropolis di Fritz Lang, una citazione dal Monello di Chaplin (il vilain di quel film diventa un grande pupazzo). Tabacco e sigarette sono protagonisti del Paese dei Balocchi: oggi forse ci sarebbero droghe e super alcolici. I bambini spaccano tutto, vediamo vetrate e specchi andare in frantumi; e sporcano la Gioconda, perché odiano i Musei e la cultura.
Arriva anche il Grillo e cerca subito Pinocchio, ma trova tutto deserto. Corre dappertutto e infine trova Pinocchio con Lucignolo al biliardo. Pinocchio non sa fumare, Lucignolo gli insegna: fumare è disgustoso, ma è figo. Il Grillo fa la morale anche a Lucignolo, ma non serve.
Il Grillo, deluso, se ne va; ma prima di andar via scopre i bambini che si trasformano in asini.
Ne vediamo la metamorfosi a vista, come in Jekyll e Hyde, come nell’Uomo Lupo... Di Lucignolo non sapremo più niente, Pinocchio fugge col Grillo prima che la metamorfosi sia compiuta, ma ha già coda e orecchie (come il bambino di “Jumanji”). C’è una citazione dal “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare: “Cosa si crede che io sia, un somaro?”(...) Rientra Puck con Bottom, che ha sulle spalle una testa d'asino.
BOTTOM: (continuando a recitare) «Se tale fossi, o Tisbi, al certo io tuo sarei...»
QUINCE: O mostruoso! o inusitato! siamo stregati! Compari, scappate tutti! Compari, aiuto!
(Exeunt Quince, Snug, Flute, Snout e Starveling.) (...)
BOTTOM Perché scappano via? dev'essere una qualche birberìa per mettermi spavento.
Rientra SNOUT.
SNOUT: O Bottom, come t'hanno cambiato! che cosa ti vedo addosso?
BOTTOM Che cosa vedi? vedi la tua propria testa di ciuchino, non è così?
Rientra QUINCE.
QUINCE Dio ti benedica, Bottom! Dio ti benedica! t'hanno tutto trasformato!
BOTTOM Ho capito la loro birberìa. Vogliono farmi passar da somaro. E vedere se riescano a spaventarmi. Ma io non mi muovo di qui, facciano pure quel che vogliono. Passeggerò su e giù qui intorno, e mi metterò anche a cantare per far vedere che non ho paura. [Canta.]
(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, atto III scena prima, traduzione Gabriele Baldini)
Il Grillo e Pinocchio scappano dal Paese dei Balocchi prima che si compia la metamorfosi. Fuggono sulla montagna, poi in mare; tornano finalmente a casa, ma Geppetto non c’è e la casa è deserta e in rovina. Una colomba celeste porta il messaggio: Geppetto è stato ingoiato dalla Balena.
Ma la Balena in Collodi non c’è: c’è il Pesce-cane. E’ un’altra delle differenze fondamentali tra il libro e il film, e ne approfitto per tornare a Collodi.
Abbiamo saltato tutte queste cose: il merlo che avverte Pinocchio di non fidarsi di Gatto e Volpe ma che viene mangiato dal Gatto, l’oste del Gambero Rosso, l’ombra del Grillo parlante, tutta la scena del Campo dei Miracoli, gli assassini (cioè il gatto e la volpe, ma molto più inquietanti), la Quercia Grande a cui viene appeso Pinocchio; la Bambina dai capelli turchini che parla di morte nel cap.XV, uno dei momenti più inquietanti del libro.
E ancora: il falco che la Bambina invia in soccorso di Pinocchio impiccato (cap.XVI), il Can-barbone in livrea da cocchiere, i tre medici: Corvo, Civetta, Grillo Parlante.(cap.XVI) Nel cap. XVI la Bambina comincia ad essere chiamata Fata. Saltati via anche i becchini (quattro conigli neri: cap.XVII); sempre nel cap.XVII, altro allungamento di naso.
Nel cap.XVII tornano gatto e volpe, Pinocchio si fida ancora di loro e seppellisce gli zecchini.
Nel cap.XIX un pappagallo deride Pinocchio che scava per cercare i suoi zecchini; Pinocchio vuole denunciare il furto al giudice-scimmione (della razza dei Gorilla), e il Giudice dà la sua sentenza: «Quel povero diavolo è stato derubato dei suoi zecchini, pigliatelo dunque e mettetelo in prigione». I due giandarmi (scritto così, alla fiorentina) eseguono: sono due can-mastini. Poi l’Imperatore di Acchiappacitrulli fa un’amnistia, ma solo per i malandrini; siccome Pinocchio non è un malandrino non ha diritto ad essere liberato.
- Domando scusa, sono un malandrino anch’io.
- In questo caso avete mille ragioni. – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”)(un consiglio: mai mettere il nastro adesivo per riparare i libri! poi quando invecchia lascia un segno che non va più via) .
- Pinocchio, film a disegni animati, produzione Walt Disney del 1940. Diretto da Hamilton Luske e Ben Sharpsteen sceneggiato da Ted Sears, Otto Englander, Webb Smith, William Cottrell, Joseph Sabo, Erdman Penner, Aurelius Battaglia. Musica di Leigh Harline & Paul J. Smith Durata 88 minuti
Il Pinocchio di Disney è un musical, e le canzoni portano via molto tempo: penso che sia questa la ragione principale dei tagli e della riscrittura (penso ai duetti di Pinocchio con la Volpe, o all’esibizione nel teatro delle marionette). Il film finisce anche per somigliare molto ai cartoons meravigliosi e leggendari degli anni ’30, i primi del sonoro, con molti numeri musicali e anche con l’esibizione degli oggetti animati; e a me piacciono molto queste sequenze, perché permettono un grande sfogo alla fantasia. In questo senso, notevolissime sono le sequenze dedicate ai giocattoli e agli orologi nel laboratorio di Geppetto.
Avevamo comunque lasciato Pinocchio al culmine del successo; lo vediamo ora in compagnia di Stromboli (cioè Mangiafoco) che, tutto contento, si gode l’incasso. Ma ora Pinocchio pensa al suo babbo, e vorrebbe tornare a casa; il burattinaio non ne vuole sapere e lo chiude in una gabbia da canarini. Qui Disney ha qualcosa della cupezza del libro, e i dettagli delle marionette morte nel carro di Stromboli è ben degno anche del famoso “lato oscuro” della Disney, presente fin da Biancaneve.
Qui torna il Grillo, che vorrebbe solo salutare l’amico e invece si trova a constatare quello che è successo. Cerca invano di aprire il lucchetto che chiude la gabbia (è un’altra scena molto buffa), ma se non arrivasse in soccorso la Fata non ci sarebbe nulla da fare.
Intanto, veniamo a sapere che Geppetto è partito per cercare Pinocchio.
Nella scena con la Fatina Azzurra, vediamo l’unico momento del film in cui il naso di Pinocchio si allunga a causa delle bugie: molto ben fatto e molto divertente. Il naso di Pinocchio fa anche i germogli, poi le foglie, poi diventa un ramo con un nido e degli uccellini...
“Alcune bugie hanno le game corte, altre hanno il naso lungo”: che è anche in Collodi, cap.XVII.
La Fata perdona Pinocchio, ma gli ricorda che “Se del perdono non sarai degno, tutta la vita sarai di legno”. La Fata sparisce, il Grillo e Pinocchio scappano via dal carro di Mangiafuoco.
A questo punto, Disney riprende l’Osteria del Gambero Rosso (“Red Lobster Inn”) e vi mette il Gatto e la Volpe (come nel libro, ma era il cap.XII) ma in compagnia del Postiglione, che è l’Omino di Burro di Collodi:
(...) Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da uomo di vacchetta bianca. E il conduttore del carro?...
Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d'un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di « Paese dei Balocchi ». (...) (Le avventure di Pinocchio, capitolo XXXI)Il Postiglione cerca “ragazzi svogliati, disobbedienti che non vanno a scuola” e i due compari gli vendono Pinocchio. Il Postiglione a questo punto si trasforma in mostro spaventoso: “dal Paese dei Balocchi non tornano mai più, non come ragazzi!”
Seguono i buoni propositi di Pinocchio: “meglio istruito che attore!”, che però non durano: Pinocchio viene ripescato subito dal Gatto e dalla Volpe. La Volpe si finge dottore, il Gatto lo aiuta: ancora gags nello stile dei Fratelli Marx. Il medico-volpone trova Pinocchio esaurito e gli consiglia di andare nel Paese dei Balocchi. (Cartoon simili, sull’esaurimento e lo psicanalista, li troviamo anche con protagonista Paperino).
Poi arriva il Grillo che cerca Pinocchio, ma ormai è tardi.
Vediamo la carrozza con Lucignolo (che si chiama Gideon) e altri bambini, ma poi anche una nave a vapore, un portone enorme, un luna park che sembra Metropolis di Fritz Lang, una citazione dal Monello di Chaplin (il vilain di quel film diventa un grande pupazzo). Tabacco e sigarette sono protagonisti del Paese dei Balocchi: oggi forse ci sarebbero droghe e super alcolici. I bambini spaccano tutto, vediamo vetrate e specchi andare in frantumi; e sporcano la Gioconda, perché odiano i Musei e la cultura.
Arriva anche il Grillo e cerca subito Pinocchio, ma trova tutto deserto. Corre dappertutto e infine trova Pinocchio con Lucignolo al biliardo. Pinocchio non sa fumare, Lucignolo gli insegna: fumare è disgustoso, ma è figo. Il Grillo fa la morale anche a Lucignolo, ma non serve.
Il Grillo, deluso, se ne va; ma prima di andar via scopre i bambini che si trasformano in asini.
Ne vediamo la metamorfosi a vista, come in Jekyll e Hyde, come nell’Uomo Lupo... Di Lucignolo non sapremo più niente, Pinocchio fugge col Grillo prima che la metamorfosi sia compiuta, ma ha già coda e orecchie (come il bambino di “Jumanji”). C’è una citazione dal “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare: “Cosa si crede che io sia, un somaro?”(...) Rientra Puck con Bottom, che ha sulle spalle una testa d'asino.
BOTTOM: (continuando a recitare) «Se tale fossi, o Tisbi, al certo io tuo sarei...»
QUINCE: O mostruoso! o inusitato! siamo stregati! Compari, scappate tutti! Compari, aiuto!
(Exeunt Quince, Snug, Flute, Snout e Starveling.) (...)
BOTTOM Perché scappano via? dev'essere una qualche birberìa per mettermi spavento.
Rientra SNOUT.
SNOUT: O Bottom, come t'hanno cambiato! che cosa ti vedo addosso?
BOTTOM Che cosa vedi? vedi la tua propria testa di ciuchino, non è così?
Rientra QUINCE.
QUINCE Dio ti benedica, Bottom! Dio ti benedica! t'hanno tutto trasformato!
BOTTOM Ho capito la loro birberìa. Vogliono farmi passar da somaro. E vedere se riescano a spaventarmi. Ma io non mi muovo di qui, facciano pure quel che vogliono. Passeggerò su e giù qui intorno, e mi metterò anche a cantare per far vedere che non ho paura. [Canta.]
(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, atto III scena prima, traduzione Gabriele Baldini)
Il Grillo e Pinocchio scappano dal Paese dei Balocchi prima che si compia la metamorfosi. Fuggono sulla montagna, poi in mare; tornano finalmente a casa, ma Geppetto non c’è e la casa è deserta e in rovina. Una colomba celeste porta il messaggio: Geppetto è stato ingoiato dalla Balena.
Ma la Balena in Collodi non c’è: c’è il Pesce-cane. E’ un’altra delle differenze fondamentali tra il libro e il film, e ne approfitto per tornare a Collodi.
Abbiamo saltato tutte queste cose: il merlo che avverte Pinocchio di non fidarsi di Gatto e Volpe ma che viene mangiato dal Gatto, l’oste del Gambero Rosso, l’ombra del Grillo parlante, tutta la scena del Campo dei Miracoli, gli assassini (cioè il gatto e la volpe, ma molto più inquietanti), la Quercia Grande a cui viene appeso Pinocchio; la Bambina dai capelli turchini che parla di morte nel cap.XV, uno dei momenti più inquietanti del libro.
E ancora: il falco che la Bambina invia in soccorso di Pinocchio impiccato (cap.XVI), il Can-barbone in livrea da cocchiere, i tre medici: Corvo, Civetta, Grillo Parlante.(cap.XVI) Nel cap. XVI la Bambina comincia ad essere chiamata Fata. Saltati via anche i becchini (quattro conigli neri: cap.XVII); sempre nel cap.XVII, altro allungamento di naso.
Nel cap.XVII tornano gatto e volpe, Pinocchio si fida ancora di loro e seppellisce gli zecchini.
Nel cap.XIX un pappagallo deride Pinocchio che scava per cercare i suoi zecchini; Pinocchio vuole denunciare il furto al giudice-scimmione (della razza dei Gorilla), e il Giudice dà la sua sentenza: «Quel povero diavolo è stato derubato dei suoi zecchini, pigliatelo dunque e mettetelo in prigione». I due giandarmi (scritto così, alla fiorentina) eseguono: sono due can-mastini. Poi l’Imperatore di Acchiappacitrulli fa un’amnistia, ma solo per i malandrini; siccome Pinocchio non è un malandrino non ha diritto ad essere liberato.
- Domando scusa, sono un malandrino anch’io.
- In questo caso avete mille ragioni. – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.I disegni di Attilio Mussino vengono dalla mia copia personale di “Pinocchio”, cioè l’edizione Bemporad-Marzocco del 1961 (“dodicesima ristampa”)(un consiglio: mai mettere il nastro adesivo per riparare i libri! poi quando invecchia lascia un segno che non va più via) .
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