venerdì 30 ottobre 2009

Full metal jacket


Full Metal Jacket (1987) Regia di Stanley Kubrick. Dal romanzo “Nato per uccidere” di Gustav Hasford. Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Michael Herr, Gustav Hasford,. Fotografia: Douglas Milsome. Musica: canzoni originali anni ’60. Musiche originali di Abigail Mead. Effetti speciali: John Evans. Interpreti: Matthew Modine (soldato Joker), Lee Ermey (sergente istruttore Hartman), Vincent D'Onofrio (soldato Pyle), Adam Baldwin (Animal Mother), Arliss Howard (soldato Cowboy), Dorian Harewood (Eightball), Kevyn Major Howard (Rafterman), Ed O'Ross (tenente Touchdown), John Terry (tenente Lockhart), Ngoc Le (ragazza cecchino). Durata: 116 minuti

Stanley Kubrick faceva film per il cinema. In passato, sarebbe stata una battuta così ovvia da far quasi ridere, ma non è più così. Oggi i film si fanno per la tv, e (purtroppo) Kubrick pare un dinosauro.
Vedere "2001 Odissea nello spazio" in tv è sempre una sofferenza, per esempio; e "Barry Lyndon" , così lento e ben rifinito in ogni piccolo particolare, è quanto di più antitelevisivo si possa immaginare. Ricordo poi l'impressione che mi fece "Full metal jacket" , il suo ultimo film completo (ad "Eyes wide shut", a mio parere, manca ancora il taglio finale: è un film quasi finito). Ho avuto anche la fortuna di vederlo in lingua originale, a metà anni '80, al cinema: il primo tempo è un martellamento continuo, con l'istruttore dei marines che ti grida nelle orecchie per tre quarti d'ora. Alla fine, si capisce perché il ragazzo protagonista impazzisce e spara: prima al sergente, poi a se stesso. E' come se il lavaggio al cervello l'avessero fatto a te, allo spettatore. La seconda parte del film è la logica conseguenza della prima: ormai i ragazzi sono stati addestrati ad uccidere, e lo fanno. Il sergente istruttore ha svolto bene la sua missione, anche se gli è costata la vita. Si tratta di un film duro, ma il messaggio di Kubrick è chiaro; ancora più chiaro era stato in "Orizzonti di gloria", un quarto di secolo prima, e anche nel "Dottor Stranamore".
Ma poi "Full metal jacket" è finito nella programmazione televisiva. Il film è stato fatto a pezzi, e ad ogni quarto d'ora di film corrispondeva un quarto d'ora di pubblicità. Cos'è rimasto del messaggio di Kubrick, del bombardamento selvaggio e scientifico del sergente istruttore? Proprio niente: "Full metal jacket" è diventato un banalissimo film di guerra, più violento e più brutto di tanti altri. La stessa sorte, in tv, è toccata a "Shining" e ad "Arancia meccanica".
Ma il problema non è la tv, è il modo in cui questi film vengono trasmessi. Chi si ricorda ancora i lamenti (di dolore!) di Fellini quando vide i suoi film scempiati dalle prime programmazioni su Canale 5 ? Chi si ricorda ancora che vent'anni fa fu necessaria una legge varata dal Parlamento (con tutto quello che c'era da fare...) per impedire che i tagli fossero ogni 5 minuti, e almeno un po' studiati per evitare interruzioni brusche?
Penso a queste cose ogni volta che vedo in tv il “bollino rosso”: dice che adesso non ci sono più pericoli, e che la tv è più sicura. Il bollino di Canale 5 o la farfallina rossa della Rai io li vedo come simboli dell’ipocrisia e della mancanza di buonsenso di chi ci governa. Vedete come siamo stati bravi? sembrano dire i dirigenti tv. Che tristezza: prima dell'arrivo delle televisioni commerciali queste cose non erano necessarie. Non servivano: negli anni '70 e nei primissimi anni '80 i film si vedevano come al cinema, e senza nessuna interruzione si era costretti a seguire il discorso dell’autore; e in prima serata arrivavano i film migliori, magari con un po' di ritardo perché c'erano ancora i cinema di seconda visione e i cineforum. E, soprattutto, i film violenti in tv non ci arrivavano proprio: né quelli brutti né quelli d'autore. Ma erano altri tempi, per l'appunto... Chi se li ricorda più?

Quando penso a Full Metal Jacket, di solito il discorso che mi viene in mente è questo: che io non ho fatto il servizio militare, ma che se lo avessi fatto molto probabilmente sarei stato come il soldato Pyle. Gli somiglio anche un po’ fisicamente. La differenza fondamentale è questa: Leonard Pyle è un ottimo tiratore, io invece non ho fatto il militare perchè, pur abile e arruolato, ero molto miope e portavo lenti spesse e pesanti. Con la riduzione dei contingenti, operata proprio quando io avevo vent’anni, molti della mia leva sono rimasti a casa; e dei miopi con dieci diottrie l’esercito può ben fare a meno.
Detto questo, il destino finale di Pyle è terribile: è un ragazzo buono e gentile, ma l’addestramento lo fa diventare un assassino. Guai a chi va a provocare i miti, insomma: per un po’ lasciamo fare, ma poi si sbotta. E, se si sbotta avendo un’arma in mano, questi sono i risultati. Però è stato fatto giustamente notare che in questo modo il sergente vince la sua partita, sia pure a caro prezzo: perché un soldato in guerra DEVE essere preparato a uccidere. Altrimenti, che soldato è? Si farà spazzare via alla prima ondata, e non va bene. Il discorso vale ancora di più per un marine.
“Born to kill”, “nato per uccidere”, è il titolo originale del libro, basato su esperienze personali, dal quale Kubrick ha tratto il film: l’autore si chiama Gustav Hasford ed ha collaborato alla sceneggiatura. Il soldato Pyle non era nato per uccidere, da qui il disastro. Gli altri, chissà: sono sopravvissuti all’addestramento, ma è nei casi estremi che scopriamo la nostra vera natura; forse è per questo che Matthew Modine, protagonista e narratore, porta sul casco il simbolo pacifista e il motto “Born to kill”, uno accanto all’altro come due facce della stessa medaglia. Del resto, la follia è compagna di strada dei militari: molti di loro se la sono portata a casa, e le cronache ne hanno purtroppo parlato – non solo in USA ma anche da noi, come nel caso del tiratore scelto che aveva in casa un arsenale e che si mise a sparare sui passanti (poco fuori Roma, un paio d’anni fa).
A questo punto, vengono a galla le analogie con altri film di Kubrick, in primo luogo con “Arancia Meccanica”. E’ del libero arbitrio che si sta discutendo, e dei condizionamenti, più o meno occulti, che subiamo dalla società in cui viviamo e dal nostro prossimo. Alex, il protagonista di “Arancia Meccanica”, è l’esatto opposto di Pyle: nasce violento e viene “rieducato” ad odiare la violenza.
E diventa fondamentale un altro quesito, che riguarda direttamente noi. Kubrick passa per essere stato un cantore della violenza, ma non era certo questo il suo intento (il suo parere e quello di Anthony Burgess, autore di “Arancia Meccanica”, sono qui in archivio) e basterà pensare a “Spartacus” o a “Orizzonti di gloria”.
Scrivendo di “Arancia Meccanica” mi sono trovato a chiedermi: perchè ci viene spontanea l’identificazione con Alex, e non con una delle sue vittime? Perché non riusciamo ad assumere il punto di vista dello scrittore, che giace per terra e assiste alle violenze sulla moglie? Qui, in “Full Metal Jacket”, la domanda potrebbe essere: perché la vera star di questo film è diventata il sergente dei marines?
Qui c’è qualcosa che non funziona. E’ vero che la maestria tecnica e narrativa di Kubrick crea immagini di violenza molto forti e molto suggestive, ed è anche vero che Kubrick appare spesso ambiguo; ma se si va a guardare bene, nel film le immagini di violenza sono relativamente poche, questo non è un film di Rambo e sequenze di altro tipo ce ne sono molte. Quando Kubrick girò Shining, molti patiti dell’horror e di Stephen King rimasero delusi per lo stesso motivo: le scene horror vere e proprie non sono molte, non vediamo nemmeno un centesimo degli squartamenti presenti in altri film del genere; eppure le poche scene veramente horror in “Shining” rimangono impresse fortemente e non si dimenticano. Kubrick era una persona mite, appassionato al suo lavoro e alla famiglia; chi ha visto “Orizzonti di gloria” sa quale era la sua opinione su guerra e violenza. Ed anche qui, in Full Metal Jacket, per chi voglia vedere il film fino in fondo, fino alla marcia di Topolino, e non solo le sequenze che gli fanno comodo, la sua opinione è chiara
Tanti anni fa mi capitò di leggere una riflessione fatta davanti a una foto presa dai lager nazisti. Ci si chiedeva: voi chi vorreste essere, l’ufficiale SS in divisa, elegante pulito e ordinato e armato, oppure il prigioniero lacero, nudo, magro e sporco?
Insomma, vorreste essere chi picchia o chi è picchiato? La fascinazione verso il mondo nazista che alcuni provano, in fin dei conti, è tutta qui: ed è una riflessione che dà i brividi. E’ la stessa riflessione che si può fare davanti a un film di Kubrick: voi chi vorreste essere, il soldato muscoloso e ben nutrito che uccide, o il vecchio del villaggio vietnamita con la sua famiglia? Voi chi vorreste essere, l’Alex di Malcolm McDowell o una delle sue vittime? La risposta, forse, si può trovare in Konrad Lorenz, “L’anello di Re Salomone”: per queste ricerche lo scienziato fondatore dell’etologia vinse il Nobel per la Medicina, e non è cosa da poco.

giovedì 29 ottobre 2009

Centochiodi


Centochiodi (2007) scritto e diretto da Ermanno Olmi. Fotografia di Fabio Olmi. Musiche: Maurice Ravel, Sonata per violino e pianoforte; la canzone “Non ti scordar di me” .Musiche originali di Fabio Vacchi. Con Raz Degan, Luna Bendandi, Andrea Lanfredi, e altri attori non professionisti. Durata: 92 minuti

“Centochiodi” di Ermanno Olmi è un film dove un gruppo di persone più o meno anziane viene “sfrattato” (anzi, no: sfrattati e multati) dal posto dove si trovavano insieme fin da quand’erano bambini, sulla riva mantovana del Po: per la precisione, tra Bagnolo San Vito e San Giacomo Po.
Questa piccola storia mi ha colpito molto, perché purtroppo è vera. Negli ultimi 10-15 anni, inseguendo parole d’ordine stravolte e presunte politiche di federalismo e di liberismo, siamo stati travolti da un’ondata di burocrazia e di tasse che non si erano mai viste prima. Io sono cresciuto senza mai vedere un parcometro, oggi non c’è più uno spazio in cui non si debba pagare qualcosa; in nome di questo “meno tasse a Roma” ogni pezzo di suolo pubblico, anche il più piccolo, è diventato a pagamento o a disco orario (con multe salatissime e spropositate); non stupisce che le nostre amministrazioni vadano a vedere perfino che cosa si fa sulle rive di un fiume, e che ci voglia un’autorizzazione anche per prendere il sole e bere un caffè (o un bicchier di vino, o una birra) con un amico; e tutto questo avviene nell’indifferenza generale, sembra perfino che nessuno se ne accorga. Abbiamo le tasche piene di tesserine magnetiche, ci siamo ridotti a dialogare con le macchine, tra un po’ spariranno nel mondo dei ricordi anche le biglietterie delle stazioni e le cassiere del supermercato. Eccetera: guardatevi in giro e provate a pensare a quanta burocrazia nuova c’è, e con quante macchine – dal bancomat alle segreterie telefoniche del “digiti uno digiti due digiti tre” – vi trovate a conversare ogni giorno.
Mi ha fatto piacere veder contrastare, almeno per una volta, questa generazione di burocrati che è venuta crescendo negli ultimi vent’anni. Mi fa piacere trovarmi dalla parte di Ermanno Olmi e avere gli stessi pensieri, anche se la differenza di età tra me e lui è notevole. E mi ha dato da pensare il fatto che di questa parte del film, che è importante e che costituisce la vera ossatura del film, io non avessi avuto notizia prima di vedere il film. Nelle critiche sui giornali e nelle anteprime, perfino negli spot promozionali, si è sempre parlato d’altro: e soprattutto ha riempito le pagine e i canali tv la faccia di Raz Degan, famoso fotomodello, e si è parlato più che altro della sequenza iniziale, quella che dà il titolo al film. Che è una sequenza forte, su un ragionamento forte, ed è giusto che se ne sia parlato; ma poi l’ossatura del film è questa, l’andatura della vita sulle rive del grande fiume e i cambiamenti che il fiume ha visto passare. Cercando immagini del film in rete, non ho trovato niente di queste sequenze: c’è molto, ma sono quasi tutte foto di Raz Degan.
L’aver letto quasi soltanto della storia dei libri inchiodati mi fa pensare (come sempre con tristezza) che critici e recensori del film abbiano guardato soltanto i primi 5-10 minuti, e poi se ne siano andati via: capita spesso. Il che è comprensibile per uno spettatore qualsiasi (se si annoia, si alzi pure e se ne vada), ma è grave per un critico cinematografico che dovrebbe capire e raccontare.
Un critico degno di questo nome dovrebbe sapere (e spiegare) che un film di Olmi va guardato tutto, dall’inizio alla fine; e che anche se il film non è perfetto e a tratti (qui capita) ci si annoia davvero, ci sono grandi motivi di vera attualità che meriterebbero di essere ripresi e diffusi. Invece, niente. Anzi, in prima visione tv “Centochiodi” è andato in onda tra mezzanotte e l’una: come sempre, da quando qualcuno (sappiamo chi) ha deciso una volta per tutte che conta solo ciò che vende e che attira pubblicità – come se le cose più belle della vita non fossero del tutto gratuite e riservate a pochi spettatori (un bacio, la nascita di un figlio, un caffè con un amico...).
E’ un film con molti difetti, mi è piaciuto molto ma ho subito pensato che mi piacerebbe rifarlo, e nel rifarlo partirei da quando il professore lascia la sua macchina e butta via le sue cose dal ponte: così si darebbe forse un po’ di suspence, che non guasta; e si darebbe un po’ di respiro al pubblico “normale” che dei libri inchiodati non sa cosa farsene. E poi non userei Raz Degan come protagonista, ha una bella immagine ma è poco comunicativo e poco espressivo (ma forse bisognava trovare finanziamenti...).


Metto qui le cose che mi sono segnato, al volo, durante la visione; ripromettendomi di tornarci sopra dopo aver lasciato passare un po’ di tempo. Faccio presente che le trascrizioni che ho fatto sono spesso poco precise, vedrò di essere più preciso alla prossima rilettura.
1. “La religione non salva il mondo”. 2. “C’è più verità in una carezza che in tutti questi libri”; replicato più avanti in “...nel prendere un caffè con un amico” (la scena con il carabiniere). 3. Trovare salvezza nella follia? Si tratta di un altro aggancio a Dostoevskij, con Olmi tutt’altro che casuale. Penso soprattutto a “L’idiota” e alla “parabola del Grande Inquisitore” nei Fratelli Karamazov (cosa succederebbe se Gesù tornasse oggi sulla Terra?). 4. Tra le musiche, il blues di Ravel dalla sua Sonata per violino e pianoforte, “Non ti scordar di me” in varie versioni, e forse Ligeti, come in “Odissea nello spazio” di Kubrick. 5. L’anziano che si rivolge a Raz Degan e gli chiede di ripetergli “la storia di un figlio che ha voluto i soldi dal padre per andar via di casa”: e l’inizio della parabola evangelica del figliol prodigo diventa così di enorme attualità. L’inizio, le prime righe: e non la fine, che conosciamo tutti. E ‘ una grande finezza di Olmi. 6. Molte somiglianza anche con Isaac B. Singer, soprattutto la conclusione di “Il mago di Lublino”: se la gente viene da te, significa che tu sei un rabbi...Ma anche la storia di Siddharta, con il Po che diventa come il Gange. 7. La meditazione sulla riva del fiume, con le donne che prendono il sole, è interrotta dal motocross e dalla volgarità dei bagnanti: arroganza e volgarità a sfondo pesantemente sessuale. 8. L’antico e il moderno insieme, una parabola ben radicata nel presente, come forse mai in Olmi. 9. Oggi ci vuole un’autorizzazione anche solo per trovarsi in compagni di amici lungo il fiume (“terreno demaniale”), cosa mai vista prima. Lo fanno da quand’erano bambini, non c’è mai stato bisogno di permessi; ma questa è una generazione di burocrati. “La Natura si ribellerà” è il messaggio-profezia che ci affida Olmi tramite il volto da Cristo ispirato di Raz Degan; ed è già successo più volte, che i fiumi si siano ribellati alla nostra arroganza. 10. “Ci mandano via di qui per mandarci al cimitero!” “Ti fanno anche il funerale gratis, basta che muori!” E’ la risposta del messo comunale, che tiene a precisare di aver portato multe e sfratti solo per lavoro; e che comunque consegna ai vecchietti mantovani una multa di 27.600 euro per “occupazione abusiva di suolo demaniale”. 11. “Insegnare è un atto eversivo” dice Raz Degan al carabiniere che lo interroga (segue la battuta del bere un caffè con un amico) 12. “Dio non parla per mezzo dei libri. I libri accettano qualsiasi padrone. La sapienza del mondo è tutta una truffa.” dice Raz Degan al prete bibliotecario. 13. La carta dei libri e la carta della burocrazia, parole nei libri e parole di avvocati e di burocrati. 14. La storia dei libri distrutti rimanda in qualche modo al “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury e di Truffaut. Ricordo sempre, in questo caso, la reazione di un mio compagno di scuola, alle medie, quando il film di Truffaut fu proiettato in tv: lui era contento perchè finalmente si bruciavano i libri. Col tempo, avrei scoperto che a pensarla così erano in molti; e adesso questi molti sono ministri e governatori e sindaci. Penso che inchiodare i libri la considererebbero una fatica inutile, meglio un bel rogo, magari nell’inceneritore. 15. Questo soggetto lo avrebbe girato magnificamente Jean Renoir.
Ragionando in questo modo sul film, è finita che sono andato a cercarmi la data di nascita del grande regista bergamasco: Olmi è del ’31. Come accade con Giorgio Bocca nel giornalismo (classe 1920) e con altri amatissimi “vecchioni” dei nostri tempi, viene da chiedersi chi prenderà il testimone, chi di noi saprà essere così lucido e così pieno di buon senso; e viene da concludere il pensiero dicendo che non esiste più quasi nessuno di quella stoffa, la mia generazione è andata quasi tutta buca, da quel punto di vista, e anche nei trentenni e quarantenni non vedo niente di paragonabile a Olmi, a Bocca, e Enzo Biagi... Non resta che sperare nei giovanissimi: qualche segnale buono c’è, ma se si crede che basti svecchiare per migliorare (la politica e non solo film e giornali), c’è da rimanere sicuramente delusi. Il peggio, forse, deve ancora venire: ma finché abbiamo qui i nostri vecchi – quelli buoni, si badi bene - qualche speranza c’è.

lunedì 26 ottobre 2009

Eyes wide shut


Eyes wide shut(1999). Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura di Stanley Kubrick e Frederick Raphael, tratta dal racconto di Arthur Schnitzler "Doppio sogno". Musica: Dimitri Shostakovic, Gyorgy Ligeti, Franz Liszt, W.A. Mozart. Musiche originali di Jocelyn Pook. Fotografia: Larry Smith. Con Tom Cruise, Nicole Kidman, Sydney Pollack, Jackie Sawiris, Leslie Lowe, Peter Benson, Todd Field, Julienne Davis, Vinessa Shaw, Leelee Sobieski. Durata: 159 minuti
Ho sempre avuto grandi perplessità riguardo ad “Eyes wide shut”, a partire proprio dal titolo: dopo averlo visto, appena uscito nei cinema, ero andato a leggermi “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler, il racconto da cui è tratto il film, e ho scoperto con sorpresa che il film e il libro coincidono quasi perfettamente; Kubrick ha solo spostato il tempo dell’azione, dal primo Novecento ai nostri giorni. “Doppio sogno” era un titolo magnifico, perché Kubrick non l’ha usato?
Le perplessità riguardo al film si spiegano facilmente: il film non è del tutto finito, quella che vediamo era una copia “quasi” definitiva. Certamente, Kubrick avrebbe limato ancora qualcosa, ma non ne ha avuto il tempo. Oltretutto, Kubrick era molto lento e meticoloso e, di conseguenza, il film era in lavorazione da diversi anni: chi ha messo i soldi per produrlo cominciava a diventare impaziente. C’era anche la questione del protagonista, Tom Cruise: che personalmente trovo del tutto inadeguato (e in questo sono assistito da un illustre parere femminile: "attore senza finezze e senza mistero" dice Irene Bignardi di Tom Cruise su Repubblica 1.10.1999 ). Per un ruolo così, l’ideale sarebbe forse stato Jack Nicholson da giovane, all’epoca di “Easy rider” o di “Cinque pezzi facili” o forse – è un paradosso, ma mi serve per spiegare cosa intendo – Ugo Tognazzi da giovane, nel suo versante drammatico. Insomma, qualcosa di terragno e di sanguigno, di affidabile ma ambiguo; tutte qualità che Tom Cruise non ha mai avuto, e penso che Kubrick ne fosse cosciente ma che se lo sia fatto andar bene pur di poter fare il film.
Tante perplessità, dicevo, che mi sono portato dietro fino a ieri sera, quando – per puro caso, come capita sempre – ho ripreso in mano un libro di un autore con il quale ho un rapporto continuo da più di trent’anni, e il cui nome forse non vi dirà niente. Si tratta di Adolfo Bioy Casares, argentino, amico e collaboratore di Jorge Luis Borges. Il dialogo che mi ha colpito è questo:
(...) Vidal immaginò Faber, in agguato delle ragazze, acquattato vicino ai gabinetti, Rey che sbaciucchiava le mani di Tuna, Jimi eccitato come un cane.
"Sembrano grotteschi, ma non fanno ridere," commentò. "Offendono, piuttosto."
"A me non mi offendono. La gente è diventata troppo delicata. Io trovo che ogni vecchio si trasforma in una caricatura. C'è da morir dal ridere."
" O di tristezza."
"Tristezza? Perché? Non sarà che hai paura di entrare anche tu a far parte di questo carnevale? "
"Forse hai ragione."
"Alla grande sfilata di maschere."
"Ciascuno tira fuori a poco a poco il suo travestimento. "
"Che del resto non gli si adatta tanto bene," rispose Jimi, visibilmente stimolato dalla collaborazione dell'amico. "Sembra un costume preso in affitto. Di tessuto ce n'è in abbondanza. Uno spettacolo buffo. "
"Orribile, eh! È tutta un'umiliazione, ci si rassegna a essere deficienti, come i mascalzoni." (...)
(Adolfo Bioy Casares, “Diario della guerra al maiale”, 1969, editore Bompiani)

Ecco, questa associazione fra il Carnevale e il passare del Tempo, e la morte, mi ha fatto balzare davanti agli occhi alcune immagini: e sono proprio quelle di “Eyes wide shut”. Chi ha visto il film se le ricorda di certo: le lunghe sequenze di Tom Cruise nel negozio delle maschere, la lunga scena dell’orgia, che di maschere è piena, e altro ancora. Ma la scena dell’orgia, che purtroppo è diventata subito famosa e imitata, non è delle migliori di Kubrick: è goffa, sembra girare a vuoto, non convince, e per di più la musica è molto brutta. E per un perfezionista come Kubrick questa imperfezione è molto strana; e non mi basta sapere che il film non è completamente finito, significa che qui c’è sotto qualcosa.
E finalmente ho capito: anche questo film, come “Io ballo da sola” di Bertolucci, è una Vanitas. “Vanitas” è il nome che viene dato ad alcuni dipinti del 500-600, dove al centro del quadro c’è una giovane donna fiorente, per lo più nuda, attorniata da simboli del passare del Tempo: una candela che si consuma, una clessidra, un teschio... Esempio clamoroso di Vanitas è il dipinto del Cagnacci che riporto qui, dove tutti questi simboli sono esposti in maniera chiarissima. In altri dipinti, tutto è più sfumato: si possono considerare “vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità, dice il libro dell’Ecclesiaste, nella Bibbia) anche le nature morte, con un cestino di frutta meravigliosa destinata a non durare, e il famoso “Et in Arcadia Ego” del Guercino.


Una volta svelati questi passaggi (proprio nel senso di “togliere il velo”), il messaggio di Kubrick diventa chiaro, chiarissimo. E mi chiedo come mai non c’ero arrivato prima: il film comincia proprio con una giovane donna nuda, nel suo momento di massima bellezza, per di più davanti ad uno specchio. E’ una scena di nudo molto lunga, che ha fatto protestare i censori e che ha fatto sorridere molti per il “voyeurismo” di questo anziano regista, e dei suoi spettatori. Una volta ammesso (ebbene, sì) che vedere Nicole Kidman in quelle condizioni è una cosa molto piacevole per la quale noi maschi ringraziamo molto Kubrick, va però detto che la lunghezza di questa scena non è casuale, che l’insistenza sul nudo della Kidman non attiene strettamente alla sfera sessuale, e che Kubrick non la avrebbe di certo mai tagliata. Questa scena è il punto di partenza di una Vanitas, che poi verrà sviluppata nel seguito della narrazione: appunto con le scene del Carnevale e delle Maschere. Se guardate bene nel fermo immagine, i simboli delle Vanitas cinquecentesche ci sono quasi tutti: a partire dalle candele che si consumano.


Non conosco bene Schnitzler, e non so cosa avesse in mente quando scriveva “Doppio sogno”; ma per quanto riguarda Kubrick c’è un altro fattore fondamentale, ed è la musica. Si sa quanto sia importante la musica per Kubrick: e per questo film, come già accadde per “Lolita”, Kubrick ha scelto di non avere grande musica, ma musiche piuttosto convenzionali, da colonna sonora normale, commissionate per l’occasione. Con alcune eccezioni, tra le quali è memorabile proprio la scena iniziale della Kidman davanti allo specchio. La musica è un valzer, un valzer piacevole e leggero, ma è opera di un autore ben dentro al Novecento, Dimitri Sciostakovic. Sciostakovic, come Bioy Casares, è un autore che mi accompagna da parecchio tempo, e del quale posso dire molto cose. Per esempio, e Kubrick non poteva non saperlo, che ha due aspetti (all’apparenza opposti e poco conciliabili) che convivono in lui: una vena clownesca, divertita e divertente come in questo valzer, e una seria e profonda riflessione sui temi della guerra, e della morte. Sciostakovic trascorse la sua vita sotto Stalin, era socialista ma vide fin da subito scomparire nei gulag amici e parenti, come il regista di teatro Mejerchold, con il quale aveva collaborato; e della morte sapeva quindi molto. Non solo il percorso della sua musica segna il passare del Tempo, ma anche le fotografie che lo ritraggono, prese anno dopo anno, dicono molto.
Mi fermo qui, perché il post è già molto pesante. Questo è il testamento di Kubrick, e lui ne era più che cosciente. Continuo a pensare che sia un film poco riuscito, ma comincio a guardarlo con occhi diversi.
Bisognerebbe soprattutto tornare sulla sequenza in cui recita Sydney Pollack, quella del biliardo, all’inizio del film: c’è qualcosa di faustiano in quel dialogo, e mi riprometto di tornarci sopra con la dovuta attenzione.
PS: Quando ho finito di scrivere questo pezzo, mi sono accorto che su Canale 5 era in programmazione “Eyes wide shut”. Che i diritti di questo film (e di altri) siano in quelle mani è veramente una cosa disgustosa. Spero che questa voga di spezzettare i film con la pubblicità finisca presto, dura ormai da un quarto di secolo e sarebbe ora di darci un taglio (a chi spacca i film in questo modo indecente, non ai film...)

venerdì 23 ottobre 2009

Il dottor Stranamore


Dr. Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero: Come imparai a smettere di preoccuparmi e ad amare la bomba) Regia: Stanley Kubrick (1964) Sceneggiatura: Stanley Kubrick, Terry Southern, Peter George (dal suo romanzo Red Alert) Fotografia: Gilbert Taylor Musica: Laurie Johnson Scenografia: Ken Adam Arredamento: Peter Murton Musica: Laurie Johnson
Interpreti: Peter Sellers (capitano Lionel Mandrake/presidente Muffley/dottor Stranamore), George C. Scott (generale «Buck» Turgidson), Sterling Hayden (generale Jack D. Ripper), Keenan Wynn (colonnello «Bat» Guano), Slim Pickens (maggiore T.J. «King» Kong, pilota), Peter Bull (ambasciatore De Sadesky), James Earl Jones (tenente Lothar Zogg), Tracy Reed (Miss Scott) Durata: 94 minuti

Il Pakistan ha la bomba atomica. Non lo ricorda quasi nessuno, nemmeno gli speakers dei telegiornali, mentre scorrono le immagini dell’omicidio di Benazir Bhutto, proprio in questi giorni a cavallo tra Natale e Capodanno.
Quando Kubrick girò “Il dottor Stranamore”, più di quarant’anni fa, l’atomica ce l’avevano solo gli USA e l’URSS; oggi le bombe atomiche sono un po’ dappertutto, l’URSS non c’è più e al suo posto ci son tanti Stati più piccoli, ognuno con qualche missile o qualche deposito di scorie o qualche centralina nucleare. Per esempio, il Kazakhistan: cosa ne sappiamo del Kazakhistan? E’ uno stato immenso, da quelle parti (non so di preciso in quale Stato) c’è perfino Baikonur, da dove partono le navette spaziali. Chi comanda in Kazakhistan? Chi comanda in Pakistan? Chi comanda in India? Cosa farà Israele? E la Corea del Nord? E ormai, e anche questa non è più una novità in questo inizio di millennio, non sono più solo gli Stati a poter avere l’atomica, ma anche organizzazioni criminali e terroristiche, privati cittadini, mafie varie americane o italiane o russe o cinesi o giapponesi, Al Qaeda...
Mamma mia! Meglio continuare a non pensarci, e a smettere di avere paura della Bomba.

Il film è famosissimo, su questo film (e su tutto il cinema di Kubrick) libri e articoli abbondano, e il doppio dvd pubblicato dalla Columbia Classics contiene molti extra che saranno utilissimi a chi volesse approfondire, compresa un’intervista con Robert McNamara, ministro degli esteri USA negli anni in cui uscì il film. Per queste ragioni, sul soggetto del film mi soffermo brevemente: da un errore umano, dall’ordine di un ufficiale impazzito, nasce il bombardamento atomico che produrrà la fine del mondo. Il soggetto è trattato in chiave umoristica, con momenti di comicità irresistibile, ed è questo trattamento (che solo a un grande del cinema poteva riuscire) a renderlo ancora più agghiacciante.
Il titolo del film, che è la traduzione italiana dell’originale “Dr. Strangelove”, si riferisce a uno dei personaggi chiave: lo scienziato che è alla base dei progetti americani sulle nuove tecnologie belliche. E’ di origine tedesca, ed è chiaramente ispirato a Werner von Braun, un esperto di missilistica che lavorò con Hitler e poi fu assunto dalla NASA, e al quale devono molto i grandi successi dell’esplorazione spaziale USA negli anni ’60. Nel corso del film veniamo anche a sapere il nome originale del personaggio: Merkwurdichliebe, in inglese Strangelove, in italiano Strano Amore.

E’ il primo film di Kubrick in cui la musica assume un ruolo importante, narrativo e non decorativo. I titoli di testa dicono che la musica è di Laurie Johnson, ma quello che ascoltiamo per tutto il film, un vero e proprio leitmotiv soprattutto nelle sequenze a bordo dell’aereo, è l’arrangiamento di una famosa canzone tradizionale americana, “When Johnny comes marching home”. Nel finale, le immagini della bomba sono associate in maniera geniale a una vecchia canzone d’amore, “One day we’ll meet again” (le sue parole dicono: “un giorno ci incontreremo ancora, non so dove, non so quando”: e a questo punto verrebbe da aggiungere: “non so sotto quale forma”...) ; e, all’inizio del film, le immagini del rifornimento degli aerei in volo hanno come sottofondo “Try a little tenderness”, un’altra canzone d’amore.

(...) «Ormai la bomba non è quasi più reale ed è diventata un'astrazione completa, rappresentata da alcune inquadrature di cinegiornale con il fungo atomico», ha dichiarato Kubrick. «La gente reagisce soprattutto all'esperienza diretta, non alle astrazioni: è molto raro trovare qualcuno che riesca a provare coinvolgimento emotivo per un'astrazione. Più a lungo esisterà la a bomba senza che succeda nulla, meglio la gente riuscirà a negarne l'esistenza dal punto di vista psicologico. È diventata astratta quanto il fatto che prima o poi moriremo tutti, cosa che di solito siamo abilissimi a negare. Per questo motivo, alla maggior parte della gente interessa pochissimo la guerra nucleare. È diventata un problema molto meno interessante, per esempio, del governo delle città; e più a lungo viene rimandato un evento nucleare, più cresce l'illusione che la nostra sicurezza stia aumentando costantemente, come gli interessi su un deposito bancario. Col passare del tempo il pericolo aumenta, credo, perché quel problema diviene sempre più remoto nella mente delle persone. Nessuno può prevedere il panico che si genera all'improvviso quando si spengono tutte le luci, quel qualcosa di indefinibile che può condurre un leader ad abbandonare i suoi piani tanto ben congegnati. Sono state spese molte energie per cercare di immaginare possibili incidenti nucleari e cercare una protezione. Ma dubito che gli esseri umani siano davvero in grado di immaginare le minime varianti e alternative psicologiche di quell'eventualità. Le strategie nucleari che concepiscono tutti i possibili scenari di guerra non sono mai fantasiose quanto la realtà, e i capi politici e militari non sono mai tanto sofisticati quanto credono di essere».
(Stanley Kubrick, intervista al New Yorker, 12 dicembre 1966) (da “Non ho risposte semplici”, editore Minimumfax, pag.57)


Arancia Meccanica


A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura: Stanley Kubrick, dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess Fotografia: John Alcott Montaggio: Bill Butler Scenografia: John Barry Arredamento: Russell Hagg, Peter Sheilds Costumi: Milena Canonero Musica: Rossini, Beethoven, Purcell, e altri. Interpreti: Malcolm McDowell (Alex), Patrick Magee (lo scrittore), Adrienne Corri (moglie dello scrittore), Michael Bates (capo delle guardie), Anthony Sharp (ministro dell'Interno), Godfrey Quigley (cappellano della prigione), Warren Clarke (Dim), Miriam Karlin (la signora dei gatti), Paul Farrell (il vagabondo), Philip Storie (padre di Alex), Sheila Raynor (madre di Alex), Aubrey Morris (signor Deltoid), Carl Duering (dottor Brodsky), Steven Berkoff (poliziotto), David Prowse (Julian), Michael Tarn (Pete) Durata: 137 minuti
“Arancia meccanica” non è un film per tutti. Purtroppo l’hanno visto tutti, l’hanno visto in troppi verrebbe da dire. E’ il discorso opposto a quello che si potrebbe fare, per esempio, con “L’istruttoria” di Peter Weiss: che non è un film ma una composizione per il teatro, dove – se andate a vederlo – troverete sempre un sacco di brave persone già più che sensibilizzate all’argomento, ma non troverete mai i negazionisti, i naziskin e i nostalgici del Buce. Ci sono persone che non leggerebbero mai, nemmeno sotto tortura, Platone o Plutarco; né tantomeno prenderebbero in mano un libro, se non per scagliarvelo contro.
Queste persone guardano le figure, di più non possono fare; capiscono quello che arrivano a capire, e se gli mettete davanti la Cappella Sistina vi diranno che è piena di nudi, perché fin lì ci arrivano e queste cose le capiscono. Magari i nudi di Michelangelo gli piaceranno, magari no: in ogni caso non andranno oltre ai commenti sui nudi. Se per caso leggono Goethe decidono che è osceno e lo vietano; se leggono Dante decidono che è una palla (pardon: una gran palla) e lo butteranno via alla prima occasione, chiedendosi perché mai lo insegnino a scuola. Non è una colpa essere ignoranti: è una colpa esserne fieri. Una volta, persone come queste erano scusabili, oggi non più: oggi se uno è ignorante è proprio perché vuole esserlo. Una volta, gli ignoranti erano simpatici: li trovavi magari al bar, davanti ad un buon bicchiere, erano divertenti. Oggi gli ignoranti (coloro che sono fieri di non conoscere, e si vantano di non aver mai letto un libro) li si trova in Parlamento e nei consigli comunali, si occupano della programmazione delle tv, dirigono giornali di successo, e anche con internet cominciamo ad essere messi male.
“Arancia meccanica” è un capolavoro, ma non è per tutti. Pur con tutti i distinguo che fa l’autore (gli articoli di Burgess sono qui sotto) non si può non ammirare la perfezione formale che ha dato Kubrick al racconto, la simmetria perfetta tra le parti del film, la perfezione delle scenografie (lo scenografo è lo stesso di Odissea nello spazio). Certo, è un film con molte scene violente: e la violenza girata dalla mano di un maestro è ancora più impressionante, così come sono impressionanti i nudi di Michelangelo. Le persone adulte e responsabili le troveranno più o meno piacevoli, più o meno giuste nel contesto del film; altri, di questo film e di questo ragionamento così complesso sulla natura dell’uomo e sul libero arbitrio, terranno a mente solo quello che riescono a capire: gli stupri, i nudi, la violenza. Il mondo funziona anche così: non va solo avanti, va anche all’indietro.


Metto qui di seguito alcuni interventi di Anthony Burgess, autore del libro e inventore del personaggio di Alex. Penso che siano importante per la comprensione del film (ammesso che lo si voglia capire).

Ritorno al futuro. Alex e i suoi compagni arrivano in teatro, trent'anni dopo l'uscita del romanzo. Burgess li presenta così.
2004, ODISSEA NELL'ARANCIA
di Anthony Burgess, corriere della sera 21 gennaio 1990
Debutta in prima mondiale venerdì 26 al Barbican Theatre di Londra "A Clockwork Orange 2004". Lo spettacolo, prodotto dalla Royal Shakespeare Company, è la riduzione per la scena del fortunato romanzo di Anthony Burgess adattato in forma teatrale dal suo stesso autore. E' una rivisitazione, a quasi trent'anni di distanza (il libro uscì nel 1962) delle celebri avventure di Alex e della sua banda. La regia della commedia è firmata da Ron Daniels, la musica è di The Edge degli U2 e il ruolo di Alex è interpretato da Phil Daniels. Qui sotto pubblichiamo il testo che Burgess stesso ha scritto per presentare al pubblico la nuova versione della sua opera.
Qualche anno fa, ho pubblicato una breve riduzione teatrale del mio romanzo Un'arancia a orologeria, con i testi e i suggerimenti per la colonna sonora (Beethoven, principalmente). Questo non perché io ami quel mio libro di un amore così appassionato, ma perché sono ventotto anni che vari gruppi pop dilettanti mi assillano chiedendomi l'autorizzazione a mettere in scena una loro versione. Ma queste sono, di solito, così terribili che mi sono trovato costretto, a un certo punto, a scriverne una di mio pugno, per prevenire ulteriori perversioni. Ora il testo definitivo è finalmente pronto, ed è quello presentato dalla Royal Shakespeare Company. Ron Daniels, che la dirige, mi ha dato un grande aiuto trasformando il romanzo in un'opera drammatica adatta al più vasto pubblico, e desidero ringraziarlo di cuore per l'ottimo risultato e per la grande energia che ha dedicato ad un'impresa tutt'altro che facile. L'origine del titolo è ormai nota: A clockwork orange è un'antica espressione cockney che si usa per tutto ciò che è "queer", cioè al tempo stesso bizzarro e ambiguo - un'ambiguità che non comporta, necessariamente, una connotazione omosessuale. In effetti, niente può essere più singolare di un'arancia a orologeria. Quando insegnavo inglese in Malesia e chiedevo ai miei studenti di raccontare in un tema una giornata passata nella giungla, essi spesso facevano un curioso errore e raccontavano di aver portato con sé una "orang squash", invece della "orange squash", cioè la spremuta di arancia. "Orang" è una parola malese molto comune e significa essere umano. Le due espressioni, quella malese e quella cockney, si sono fuse nella mia mente, e hanno dato vita ad un'immagine di un essere umano succoso e dolce, come le arance, ma costretto alla condizione di un oggetto meccanico.
Questo è quello che accade al mio giovane delinquente Alex, la cui dolce e succosa criminalità, che egli si gode pienamente, viene abolita da un programma di condizionamento, che annulla la sua volontà - quella stessa volontà che gli permetteva di essere un delinquente, ma anche, se lo desiderava, un onesto adolescente provvisto di notevole talento musicale. Il mio giovanotto ha peccato, ma il vero male è, in realtà, proprio nel processo che ha annientato il suo peccato: Alex è costretto ad assistere alla proiezione di filmati violenti mentre una droga iniettata nelle vene gli provoca conati di vomito. Ma i film sono accompagnati da una musica fortemente emozionante, e il giovane è condizionato a reagire con la nausea sia all'ascolto di Mozart e Beethoven, sia alla contemplazione della violenza. La musica, che dovrebbe essere un paradiso neutrale, viene trasformata in un inferno.
Ma quella che potrebbe sembrare una celebrazione della violenza - con molta più forza sul palcoscenico che nel libro, o nel film che ne ha tratto Stanley Kubrick (ora inspiegabilmente vietato in Gran Bretagna) - è invece una ricerca sulla vera natura del libero arbitrio. Si tratta, infatti, di un vero e proprio dramma teologico: se gli esseri umani sono incapaci di compiere il male, essi sono anche incapaci di compiere il bene, perché entrambi dipendono da quello che Sant'Agostino chiama "liberum arbitrium", cioè la libera volontà. Che ci piaccia o no, il potere della scelta morale è quello che ci rende esseri umani. Ma perché la scelta morale possa esistere, ci devono essere oggetti opposti di scelta: in altre parole, deve esistere il peccato, ma anche il bene. E ci deve essere un'area dove non sia applicata la scelta morale - quella zona neutrale nella quale beviamo vino, facciamo l'amore e ascoltiamo la musica. Ma questa zona neutrale può diventare, troppo facilmente, una zona morale: passiamo buona parte della nostra vita - o dovremmo farlo - a compiere scelte morali.
Da quando è uscito Una arancia a orologeria nel 1962, mi tortura il pensiero che, in realtà, esistono due libri diversi - uno americano ed un altro per il resto del mondo. L'edizione britannica, infatti, ha ventuno capitoli mentre quella americana, almeno finora, ne ha solo venti. Al mio editore americano non è piaciuto il finale: lo riteneva troppo britannico e troppo molle. Questo vuoi dire che trovava qualcosa di non plausibile - o forse semplicemente non vendibile nella mia tesi secondo la quale gli adolescenti più intelligenti, tra quelli dediti alla violenza insensata e al vandalismo, smettevano al primo assalto della maturità. Questo succede perché la gioventù ha molta energia, ma raramente sa come impiegarla.
Ai giovani non si insegna - e lo si fa sempre meno - a mettere l'energia al servizio della creazione (scrivere un poema, costruire la cattedrale di Salisbury con i fiammiferi o imparare l'ingegneria elettronica). Di conseguenza, la gioventù è capace di usare questa energia solo per picchiare, prendere a calci, sfregiare, stuprare o distruggere. Le nostre cabine telefoniche sono un palese monumento ai peggiori istinti della gioventù. Alla fine di questa commedia, si dovrebbe vedere Alex crescere, innamorarsi, contemplare l'idea di un'eventuale paternità in altre parole diventare un uomo. La violenza, egli scopre, è cosa da bambini. Ma il mio editore americano non ha amato questo finale e Stanley Kubrick naturalmente ha ricavato il suo film dall'edizione americana, ignorandone completamente l'esistenza. Ecco perché il film ha sconvolto i lettori europei del romanzo: bisogna decidere quale finale si preferisce.
Un'ultima cosa. L'anno 1990 è pieno di aspettative per un brillante futuro europeo. Il Muro di Berlino è crollato, Michail Gorbaciov predica la perestrojka (una parola che il giovane Alex è destinato a conoscere, dato che buona parte del suo vocabolario è russo) e il Tunnel sulla Manica sta scavando la sua strada verso il continente. Stiamo diventando, almeno per quello che riguarda la politica, ottimisti. Ma Ron Daniels, insieme ai suoi attori di talento, ed io stesso, suggeriamo con discrezione che la politica non è tutto. Era questa, almeno in parte, l'essenza del mio libro.
Il giovane Alex e i suoi amici parlano un misto dei due principali linguaggi politici del mondo - angloamericano e russo - e questa era un'intenzione ironica, vista la loro totale estraneità al mondo della politica. I problemi del nostro tempo non hanno niente a che fare con le organizzazioni politiche ed economiche, ma con quello che si usa chiamare "il vecchio Adamo". Cioè, se volete, il peccato originale. Ovvero, la brama del possesso, l'avidità, l'egoismo. E, soprattutto, l'aggressione per il gusto puro e semplice della violenza. Qual è lo scopo del terrorismo? La risposta è: il terrorismo. Alex è un esemplare giovanile, buono o cattivo che sia, di uomo eterno. Ecco perché chiama tutti fratelli.
Non ho dubbi che, con questa nuova versione del mio libriccino, mi si accuserà di promuovere altra violenza nei giovani. Un uomo che aveva ucciso suo zio diede tutta la colpa alla lettura dell'Amleto di Shakespeare. Un ragazzo che aveva cavato gli occhi a suo fratello diede la colpa a un'edizione scolastica di Re Lear. Gli autori letterari sono sempre stati accusati di aver inventato il male. Il loro vero compito, o meglio uno dei tanti, è proprio quello di mostrare che il male esiste da molto tempo, da molto prima che essi prendessero in mano per la prima volta una penna o un word processor. Se uno scrittore non dice la verità, è meglio che non scriva affatto. Questa che state guardando è la verità.
(traduzione di Marina Mei Gentilucci)


Anthony Burgess confessa di non poter più difendere, nell'era del video,
il suo romanzo e il film che ne trasse Kubrick
"ARANCIA MECCANICA" E' VIOLENTA? SI', SONO COLPEVOLE
"Il sangue scorre anche nella Bibbia e in Shakespeare. Ma la pubblicità è peggio."
di Anthony Burgess, corriere della sera 25 marzo 1993
Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili. Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente.
Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello di non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, di certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è "Tito Andronico". Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film pornoviolento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in "Re Lear", l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori ("Fuori, vile gelatina").
Nella "Tragedia spagnola", Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La "Tragedia spagnola" in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale "Re Lear" e "Amleto" appartengono. E più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza.
Si può affermare l'impossibilità dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore.
Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato "Arancia meccanica" in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione - anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori - Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità - nello specifico, i suoni di una lingua inventata - i cliché della confusione e del delitto.
Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società?
Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto. Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, "Arancia meccanica" si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa.
Se "Arancia meccanica" può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no? Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film in un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film, o da un dramma.
Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio. Dagli USA giungeva la notizia secondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di "Arancia meccanica" avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie, mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo.
Dal film "Arancia meccanica" la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio. Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto del pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere "Amleto" e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se "Il silenzio degli innocenti" abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina del suo protagonista.
Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da "Justine" del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore).
Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito considerarmi un innocuo arrivista della penna.
Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale.
Negli Anni 50 la Bbc trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza del cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti.
Di principio - ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta -sono favorevole alla censura ai danni del piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: "Ne ho abbastanza, basta". E' improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo.
Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nel fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare. Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della Bbc, le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere.
Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità che "Arancia meccanica" raggiunga lo schermo.
traduzione di Rossana Rapisarda

Un altro film cult torna d'attualità per i rimorsi di Burgess.
INTERVISTA AD ANTHONY BURGESS
di Luigi Amicone, Il Sabato 3 aprile 1993
Potenza degli archivi elettronici. Ci rammentano che il nostro incontro con Anthony Burgess risale al febbraio dello scorso anno. Il settantottenne scrittore inglese si trovava allora in Italia per presentare il suo ultimo libro (L'antica lama ), e in quell'occasione, prima di ripartire per Londra, nella hall di un albergo milanese, si concesse volentieri a una lunga conversazione. Di quel colloquio, uscì allora solo un estratto (Sabato febbraio '92), mentre l'intervista che vi presentiamo finì in un cassetto. E ciò anche per rispettare la volontà dello scrittore inglese, che a quel tempo iniziava a riflettere criticamente sul più violento e discusso dei suoi romanzi, A clockwork orange, pubblicato in Inghilterra (e subito messo all'indice dalla censura) nel 1962 e tradotto per la prima volta in Italia dieci anni dopo da Emaudi (Un'arancia ad orologeria). Nel 1972, il regista inglese Stanley Kubrick trasse dal romanzo di Burgess un grande film, Arancia meccanica, che è passato alla storia come un cult della cinematografia europea, sebbene (per espressa volontà del regista) sia stato ritirato dalle sale cinematografiche della Gran Bretagna fin dal lontano 1973.
La settimana scorsa, dalle colonne del Corriere della Sera, Anthony Burgess ha preso ufficialmente le distanze da questo suo profetico romanzo. Ecco come, un anno fa, Anthony Burgess aveva iniziato a pensare a una pubblica abiura del suo romanzo di maggior successo.
- Signor Burgess, in Inghilterra A clockwork Orange fu accolto da critiche durissime e rimane tutt'oggi un libro all'indice della censura. Come spiega questo ostracismo?
- Purtroppo il romanzo nella sua versione italiana non è bello, perché la traduttrice Floriana Bossi non ha osato tradurre alla lettera e ha utilizzato una specie di dialetto milanese che non rende l'originale. Il linguaggio del mio romanzo è un'invenzione totale in cui vengono mescolati insieme elementi anglo americani, russi, zigani. La versione italiana è troppo debole, troppo blanda. Nell'originale la lingua ha una forza particolare. Ho ritenuto necessario inventare questo linguaggio per congelare un po' la violenza, perché non volevo che i lettori la potessero vedere. Il libro non era un pezzo di pornografia, ma nel film tutto era troppo visibile. Però adesso sono io ad essere considerato il padrino della violenza, non Kubrick.
- E come giudica oggi questo suo romanzo di trent'anni fa?
- Vorrei dimenticarlo totalmente, ma non mi è possibile, perché i giovani continuano a leggerlo. Purtroppo.
- Anche in Russia...
- Sì, perché grazie alla glasnost oggi abbiamo anche una versione russa di A clockwork orange.
- Ricorda in quale occasione e perché ha scritto questo libro?
- L'ho scritto quando in Inghilterra si discuteva della concreta possibilità di introdurre nelle carceri i metodi neopavloviani. In Parlamento si sentivano interventi che sostenevano questa proposta. Dicevano che siccome le prigioni erano troppo affollate, sarebbe stato più utile cambiare la personalità dei delinquenti attraverso il condizionamento. Mi sembrava che ciò fosse il peccato più grave, più grave anche della violenza. Perché provocare la perdita totale del libero arbitrio è un'azione assolutamente condannabile. Naturalmente la mia è un'attitudine totalmente cattolica.
- Perché?
- Perché noi cattolici crediamo nel libero arbitrio, mentre l'inglese no, in generale non ci crede.

La musica in "Arancia Meccanica"


A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura: Stanley Kubrick, dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess Fotografia: John Alcott Montaggio: Bill Butler Scenografia: John Barry Arredamento: Russell Hagg, Peter Sheilds Costumi: Milena Canonero Musica: Rossini, Beethoven, Purcell, e altri Interpreti: Malcolm McDowell (Alex), Patrick Magee (lo scrittore), Adrienne Corri (moglie dello scrittore), Michael Bates (capo delle guardie), Anthony Sharp (ministro dell'Interno), Godfrey Quigley (cappellano della prigione), Warren Clarke (Dim), Miriam Karlin (la signora dei gatti), Paul Farrell (il vagabondo), Philip Storie (padre di Alex), Sheila Raynor (madre di Alex), Aubrey Morris (signor Deltoid), Carl Duering (dottor Brodsky), Steven Berkoff (poliziotto), David Prowse (Julian), Michael Tarn (Pete) Durata: 137 minuti
Henry Purcell (1659-1695) è il più grande musicista inglese, ed uno dei più grandi in assoluto. E’ sua la musica con la quale si apre “A Clockwork Orange”, il film di Stanley Kubrick girato nel 1972. Il suo nome non compare nei “credits” del film, dove viene invece riportato quello di Walter Carlos che si è limitato ad arrangiare la musica di Purcell. Henry Purcell ci ha lasciato molta musica, per nostra fortuna: musica strumentale e per coro, canzoni bellissime anche per la scelta dei testi (raccomando l’ascolto di “Music for a while”, giusto per nominarne una sola) raccolte alla sua morte sotto il titolo “Orpheus britannicus”. E poi scrisse molto per il teatro, per un genere che non è propriamente l’opera lirica come la intendiamo di solito, ma una via di mezzo tra il teatro recitato, l’opera vera e propria, il balletto, e qualsiasi altra cosa, alternando comico e drammatico, possa fare teatro e divertire il pubblico. E’ la continuazione del “mask”, genere teatrale tipicamente inglese, radicato in varie forme fin dai tempi di Shakespeare: per esempio in “The fairy queen” la Regina delle Fate compare per davvero, ma ha gran parte il Poeta, che appare ubriaco cantando: “I am drunk, boys, I am drunk, as I live, drunk...”. In “King Arthur” ci sono re Artù e i cavalieri, ma l’aria più famosa è l’aria del Gelo, il freddo invernale imitato dall’orchestra e dal canto del basso solista in una scena che è rimasta unica nella storia della musica. E in “Dido and Aeneas”, il suo capolavoro, appare l’eroe troiano e la regina cartaginese ha un’aria meravigliosa, ma streghe e fantasmi rubano la scena.
Henry Purcell ebbe molto a che fare con la famiglia reale inglese: e per la morte della regina Mary, moglie di Guglielmo III, scrive il brano scelto da Kubrick: “Music for the funeral of Queen Mary”, la cui marcia introduttiva è mescolata con l’antico tema del “Dies Irae”, un tema impressionante che Kubrick riprenderà anche in Shining, sempre con l’aiuto di Carlos. Il tema del dies irae è davvero molto antico e risale alla musica sacra liturgica; fu trascritto per la prima volta da Tommaso da Celano, un frate che fu discepolo e biografo di san Francesco d’Assisi. Viene dalla “Messa di Requiem” in latino e il testo si riferisce al giorno del giudizio: ”Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla, teste David cum Sibylla...”. E’ un tema forte ed impressionante, che percorre tutta la storia della musica e che si può ascoltare, per fare due esempi famosi, in Berlioz (Sinfonia fantastica) e in Liszt (Totentanz).
La marcia funebre di Purcell, fusa con il dies irae e mixata da Walter Carlos, si ascolta in quattro momenti: 1) titoli di testa 2) a 1h35’, nell’incontro di Alex con gli ex drughi ora diventati policemen 3) a 1h21’ con la donna nuda nel “test” per vedere se la cura ha funzionato, cui segue la discussione filosofica tra il Ministro e il Cappellano su libero arbitrio e autodifesa. 4) a 1h57’, senza dies irae e in arrangiamento leggero, con Alex in via di guarigione dopo la caduta dal tetto dello scrittore.
“Le donne di Dublino hanno un aspetto divino”, canta il barbone, quando comincia il film. “Un vecchio sporco e ubriaco che canta le canzonacce care ai suoi padri”, come dice Alex. Si tratta di una famosa canzone irlandese, "Molly Malone": "In Dublin's fair city, where girls are so pretty...".


Walter Carlos è stato uno dei pionieri nell’uso “leggero” del computer in musica. C’erano stati in precedenza anni e anni di sperimentazione, da parte di musicisti importanti come Bruno Maderna e Luigi Nono, nei “laboratori di fonologia”; ma è alla fine degli anni ’60, con l’invenzione del sintetizzatore di suoni, il moog e il mellotron (che imitava gli archi dell’archi dell’orchestra) che nasce il successo di quello che oggi è un banale mezzo casalingo, e che invece quando uscì “Arancia Meccanica” era una novità epocale: il computer in musica. Kubrick era un grande appassionato di musica, e sempre attento alle novità della tecnica: quando si è rivolto a Carlos è facile immaginare che gli abbia fatto delle richieste esplicite, molto mirate: usare la grande musica ma senza usarla. Per questa storia di violenza non ci possono essere Beethoven, Purcell e Rossini in persona, ma dei loro simulacri. Walter Carlos svolge benissimo il suo compito, e – se ci fate caso - durante le scene di violenza non ascoltiamo mai Beethoven, ma il sintetizzatore di Carlos, o una voluta storpiatura della grande musica.

Gioacchino Rossini (1792-1868) non ha bisogno di presentazioni, almeno lo spero; in ogni caso è facile reperirle su qualsiasi enciclopedia. E’ l’autore del “Barbiere di Siviglia”, della “Cenerentola” e di molte altre opere, buffe oppure serie (“Mosè in Egitto”, “Guglielmo Tell”...). Ma “La Gazza Ladra” non è un’opera buffa, è una commedia con risvolti molti drammatici, che riguarda la pena di morte. Al tempo in cui viveva Rossini, prima dell’unità d’Italia, in molti posti vigeva ancora la pena di morte, anche per reati da poco come il furto di argenteria. L’opera racconta quindi un fatto vero, anche se incredibile: una ragazza condannata a morte perché creduta ladra, in balia del terribile Podestà. Ci sarà un lieto fine, quando si scoprirà il nido della Gazza. L’ouverture dalla “Gazza Ladra” è famosissima, e Claudio Abbado sostiene che sarebbe perfetta come inno italiano (se solo avesse un titolo diverso...). Kubrick la usa in diversi momenti del film: all’inizio, dopo il pestaggio del barbone, nella scena dello stupro nel teatro (stupro che non avviene, la ragazza riesce a fuggire perché i suoi aggressori vengono distratti dall’arrivo di Alex e dei suoi: questi maschi preferiscono le scazzottate al sesso). “La Gazza Ladra” continua fino all’arrivo nella villa dello scrittore, dove si interrompe: la scena successiva dello stupro e della violenza è senza musica, fatta eccezione per Alex che canta “Singing in the rain”. Alla ripresa, c’è ancora Carlos con Purcell. Al minuto 31, “La Gazza Ladra” torna nella scena in cui Alex pesta i suoi che gli si stavano ribellando e li getta in acqua, e prosegue nella scena dell’irruzione in casa della donna dei gatti.
Ancora di Gioacchino Rossini è l’ouverture dal “Guglielmo Tell”. E’ un brano molto lungo, dura quasi un quarto d’ora; qui se ne ascoltano due estratti, il famoso “galoppo” e il solo di violoncello che precede il temporale. Si ascolta per la prima volta nella scena con le due ragazze a casa di Alex, minuto 24: ma è molto accelerata e caricaturale, come tutta la scena. Al minuto 44, nel penitenziario, brevemente il solo di violoncello. A 1h28’ ancora il violoncello per Alex respinto dai genitori, prima nell’appartamento poi sul ponte fino all’incontro col mendicante.
Edward Elgar (1857-1934) è uno dei grandi musicisti inglesi del Novecento. L’Inghilterra, dopo Purcell, non ha avuto grandissimi musicisti; hanno adottato Haendel, che di nascita era tedesco e che deve molto all’Italia, ma per avere dei grandi musicisti davvero inglesi abbiamo dovuto aspettare Elgar, Britten, Vaughan Williams...
Di Elgar Kubrick sceglie il brano più famoso, “Pomp and Circumstance”: marcia n.1 e marcia n.4. Al minuto 58, nel carcere, dopo il colloquio con il cappellano, e ancora a 1h05’, il dottor Brodskij e la visita al carcere del Ministro degli Interni. Elgar è di solito un compositore molto sobrio e misurato, enigmatico; ma questo brano è diverso dalla sua solita produzione, ed è diventato quasi un secondo inno nazionale. E’ usato con evidenti fini caricaturali, ed è curioso notare il profluvio di ritratti di Beethoven durante la visita del Ministro nella cella di Alex, proprio mentre scorre la musica (peraltro bellissima) di Elgar.
Al minuto 53, nella scena in cui Alex in carcere si immagina come centurione romano , ascoltiamo brevemente la Sheherazade di Nikolaj Rimskij-Korsakov (solo di violino) . Rimskij-Korsakov (1844-1908) è un compositore fondamentale nella storia della musica, maestro di orchestrazione di un’intera generazione di musicisti, da Stravinskij ad Ottorino Respighi.
Di Ludwig van Beethoven (1770-1827) tutto sommato ascoltiamo poco: quasi sempre c’è di mezzo Walter Carlos, e io direi che è una scelta voluta. Kubrick sceglie di non far ascoltare davvero Beethoven, anche perché sarebbe stato difficile rendere nel film l’idea originale del romanzo di Anthony Burgess (le opinioni di Burgess su questo film e sulla violenza in genere sono qui nell’archivio del blog). Carlos storpia la marcia turca (dal quarto movimento della Nona di Beethoven) per l’incontro con le ragazze al minuto 24, nel negozio di dischi: il testo di Schiller, in origine cantato da un tenore e qui reso inintelligibile, recita: “Froh, wie seine Sonnen fliegen durch des Himmels prächt’gen Plan; Laufet, Brüder, eure Bahn, Freudig, wie ein Held zum Siegen” (“Felici, così come volano i suoi Soli attraverso le magnifiche piane del Cielo: così, fratelli, seguite il vostro cammino, gioiosamente, come un eroe alla vittoria”).
In quello che segue, una parte dell’Ouverture dal Guglielmo Tell di Rossini corre a velocità caricaturale, così come le immagini, in una scena famosissima e molto divertente .
La Nona Sinfonia si sente bene, senza distorsioni o storpiature, solo quando Alex è a casa sua e mette una cassetta (dal minuto 18), che termina quando Alex esce dalla sua stanza, la mattina dopo. Prima, al bar, un soprano aveva cantato “Alle Menschen werden brüder”, “Che tutti gli uomini diventino fratelli” (inizio del quarto movimento della Nona Sinfonia) e Alex aveva pestato duramente il suo compagno che aveva detto “basta, ma che cos’è questa roba”.
Il campanello dello scrittore, nella scena in cui ritorna Alex prima del finale, suona le prime tre note dalla Quinta (che non è la Nona, attenzione!). A 1h53’, Beethoven ancora distorto, questa volta dall’amplificazione esagerata: la Nona usata contro Alex dallo scrittore. Prima dei titoli di coda ascoltiamo il finale della Nona Sinfonia, con il Coro, non distorto.
Ed è Walter Carlos, e non Beethoven, durante il filmato dei nazisti a 1h12’: una finezza di Kubrick, perché due minuti dopo Alex si ribella e grida: “E’ un delitto usare Ludwig van Beethoven a quel modo! Lui non ha mai fatto del male a nessuno!” Purtroppo, è storicamente vero che i nazisti usarono ripetutamente per i loro scopi la musica di Beethoven (il cantore della fratellanza), e anche di Anton Bruckner (l’uomo più mite del mondo). E’ una cosa tristissima, che purtroppo si ripete spesso – e i musicisti non possono più difendersi, così come non può difendersi Giuseppe Verdi dall’uso improprio che si fa oggi, in alcune sedi, del “Va pensiero” (oltretutto scandito e gridato e non cantato con dolcezza, un peccato gravissimo che grida vendetta dal Cielo).
“Singing in the rain”, scritta da Arthur Freed e Nacio Herb Brown, dal film di Stanley Donen (1952) è cantata da Gene Kelly nei titoli di coda, e da Malcolm Mc Dowell in due momenti del film: due momenti molto diversi, ma sempre nella casa dello scrittore.
Al minuto 52, in carcere, ascoltiamo un inno al Redentore.
Terry Tucker (Overture to the sun) ed Erika Eigen (I want to marry a lighthouse keeper) pubblicarono dei dischi nel 1969, dai quali sono tratti i due brani, ma di loro non sapevo niente e ho fatto una breve ricerca su internet. Suppongo che della Tucker sia la musica in stile medievale a 1:18 durante gli insulti ad Alex per vedere se la cura ha funzionato, però potrei sbagliarmi (e poi c’è anche la musica delle scene dei film che Alex è obbligato a vedere). Ho trovato su internet un sito dove il disco di Terry Tucker, un lp del 1969 intitolato “Sounds of Sunforest”, è valutato la bellezza di 140 dollari: per chi fosse interessato...
Invece la canzone della Eigen è chiaramente ascoltabile a 1:24, quando Alex torna a casa dopo la cura e trova un inquilino al suo posto. “I want to marry a lighthouse keeper” è una canzone piuttosto semplice (ne ho trovato il testo intero su internet) che parla di una ragazza che vuole sposare un guardiano del faro, e che dopo lo aiuterà a tenere la luce accesa. Una metafora molto chiara, e probabilmente anche un doppio senso da cogliere.
Alla lista della musica, per quanto mi riguarda, aggiungo la voce di Romolo Valli (la più bella voce del cinema italiano), che doppia il Ministro degli Interni e che purtroppo qui si sente poco, mentre in Barry Lyndon è il narratore nella versione italiana.

Ma, soprattutto, “Arancia Meccanica” è il trionfo della forma. Ogni volta che rivedo il film rimango colpito dalla sua simmetria, che immagino cercata e voluta. Non è una simmetria “generica”, ma rispecchia la forma sonata, come fu codificato da Haydn a metà del Settecento:
1)Esposizione: primo tema, nella tonalità principale. Ponte o transizione. Secondo tema, alla dominante o al relativo maggiore. Gruppo cadenzale conclusivo.
2)Parte centrale: sviluppo tematico di elaborazione del primo tema, talvolta del secondo.
3)Ripresa: ritorno del primo tema, nella tonalità principale. Ponte. Ripresa del secondo tema, nella tonalità principale. Gruppo cadenzale, pure nella tonalità principale.
4) Coda (facoltativa)
(da: Breve storia della musica, di Massimo Mila)
E’ abbastanza facile identificare i vari “temi”, nella storia di Alex: temi che verranno ripresi, con variazioni, nella seconda parte del film. In mezzo c’è qualcosa come un Adagio, o un Andante: il carcere e la cura. Le Sonate non hanno queste dimensioni, non durano due ore e passa, e per questo la simmetria può sfuggire; però va detto che sia Burgess che Kubrick erano appassionati di musica, e questa struttura non è certamente casuale.
Aggiungo che questo non è un film che rivedo volentieri. E’ un film violento, del quale si è discusso molto; però basta mettersi dalla parte delle vittime, assumere la visuale dello scrittore quando è a terra, e tutto prende un altro significato. Invece viene spontaneo assumere la visuale di Alex, e anche questa è una bella domanda sulla quale dovremmo meditare.

giovedì 22 ottobre 2009

Barry Lyndon e la Follia di Spagna


Barry Lyndon (1975) Regia di Stanley Kubrick. Sceneggiatura di Stanley Kubrick, dal romanzo “Le memorie di Barry Lyndon” di William Makepeace Thackeray. Fotografia di John Alcott. Montaggio di Tony Lawson. Scenografia di Ken Adam Costumi di Milena Canonero e Ulla Britt Söderlund. Direttore artistico: Roy Walker. Musica: Schubert, Purcell, Mozart, J.S. Bach,Paisiello,Vivaldi, Haendel, The Chieftains, e altri. Musiche originali e adattamenti a cura di Leonard Rosenman.
Interpreti: Ryan O'Neal (Redmond Barry), Marisa Berenson (Lady Lyndon), Patrick Magee (Chevalier de Balibari), Hardy Krüger (capitano Potzdorf), Steven Berkoff (Lord Ludd), Marie Kean (madre di Barry), Murray Melvin (reverendo Samuel Runt), Godfrey Quigley (capitano George Grogan), Leon Vitali (Lord Bullingdon), Diana Körner (ragazza tedesca), Frank Middlemass (Sir Charles Lyndon) Durata: 184 minuti


Chi ha visto i film di Stanley Kubrick sa quanto importante sia in essi la musica, sia dal punto di vista del commento che da quello narrativo. E, da questo punto di vista, cioè della musica che sorregge e accompagna la narrazione, il film esemplare, il punto più alto, è “Barry Lyndon”.
C’è molta musica in “Barry Lyndon”, ed è difficile entrare nel dettaglio; ma si possono distinguere tre fasi principali. Nella prima, all’inizio (la giovinezza di Barry Lyndon) predomina la musica folk dei Chieftains. I Chieftains sono un gruppo famoso, fondamentale, attivo da più di mezzo secolo: cornamuse, zampogne, uilleann pipes, percussioni, melodie tipiche dell’Irlanda, della Scozia e dell’Inghilterra; Kubrick pesca a man bassa dal loro repertorio e ha solo l’imbarazzo della scelta. Ci sono poi le marce militari e le fanfare: la “Hohenfriedberger March” dei prussiani, ma anche (nel primo arruolamento di Barry) il “Lillaburlero”, che da lettore di Sterne e del Tristram Shandy non posso passare sotto silenzio.
La seconda parte, quella centrale del film con l’ascesa di Barry fino al rango di gentiluomo, è dominata da Schubert: per la precisione, l’Andante (secondo movimento) dal Trio in mi bemolle maggiore per violino, violoncello e pianoforte D929. Su questo brano, e su questo momento del film di Kubrick, sono state scritte molte pagine: vi invito ad andarle a cercare, i libri su Kubrick sono tanti e quasi tutti molto belli e ben informati. Da parte mia, mi limito a sottolineare – ancora una volta – come Kubrick costruisca le sequenze, fotogramma per fotogramma, sul Trio di Schubert: contando le battute, e andando a tempo come farebbe un musicista.
Poi ci sono delle piccole curiosità, come l’aria del Barbiere di Siviglia che si ascolta come sottofondo a una delle tante partite a carte: ovviamente non è Rossini, è Giovanni Paisiello (1782: il Figaro di Rossini fu un remake di successo, andato in scena nel 1816). In questo film c’è così tanta musica che sono costretto a sorvolare sul Concerto in mi minore per violoncello di Vivaldi, su Purcell e su Mozart (marcia dall’opera “Idomeneo”), e perfino sul “Concerto per due clavicembali” di Johann Sebastian Bach; non sorvolerò invece sulla musica che accompagna la scena dell’illusionista, il mago che diverte il bambino figlio di Barry. Si tratta ancora di Schubert, e delle sue “Danze tedesche”: Schubert fece arrangiamenti di diverse danze, dal valzer al minuetto, ed è un ascolto così bello e piacevole che posso solo raccomandarvi di cercare un disco che le contenga tutte. Di Schubert ascoltiamo anche (ma solo per un attimo) l’Improvviso op.90 n.1, per pianoforte.
Ma a questo punto inizia la terza parte, ed è l’inizio della fase discendente nella carriera del libertino, e cominciamo ad ascoltare un nuovo tema conduttore: è il tema che verrà ripreso nei titoli di coda, alla grande, e che rimane in testa per un bel po’ dopo la fine del film. Su questo tema musicale, i titoli di coda sono piuttosto reticenti. Sì, è vero: è la sarabanda (cioè un tempo lento e solenne) dalla Suite XI per clavicembalo di Georg Friedrich Haendel. Ma c’è sotto un arrangiamento (magnifico, bisogna dirlo) di Leonard Rosenman, musicista nato nel 1924, che fu allievo di Schoenberg. E, soprattutto, sotto questo tema musicale riecheggia uno dei grandi cavalli di battaglia di tutta la storia della musica: il tema della “Follia di Spagna”.
La “follia” (l'immagine qui sopra viene dalla "Garzantina della Musica") era una danza che fu popolarissima, attestata a partire dal secolo XVI. Come molte altre danze dell’epoca, si presume una sua origine americana; e del resto le composizioni musicali, con Johann Sebastian Bach in testa, sono ricche di nomi di danze: ciaccona, sarabanda, allemanda, giga, gavotta, minuetto, corrente...Ma il tema della follia, così come quello de “L’homme armé” nel ‘400 e ‘500, è forse quello che ha ispirato la maggior parte di compositori, anche in secoli diversi.
L’elenco è lunghissimo: il primo a scrivere delle variazioni sulla “Follia di Spagna” fu Arcangelo Corelli, a Roma, verso la fine del ‘600; ne circolavano molte versioni diverse, ma la sua “Sonata in re minore op.5 n..12 per violino e basso continuo” è da considerarsi la versione di riferimento. A Corelli seguirono Geminiani, Vivaldi, Lully, Marin Marais (due volte, per organici diversi), Mauro Giuliani, Carl Philipp Emmanuel Bach, e tanti altri fino a Rachmaninov, ormai nel Novecento. La “follia” è citata anche da Mozart e Lorenzo Da Ponte, nel “Don Giovanni”: “Senza alcun ordine la danza sia / chi il minuetto, chi la follia, chi l’allemanda / farai ballar...”; dall’elenco mi manca Beethoven, ed è un peccato. Ma Beethoven scrive dopo il 1789, non è più tempo di follia, di follia ce ne è già stata a sufficienza, verrebbe da dire – ma sarebbe una battuta troppo facile.
Preferisco invece ricorrere ad uno dei miei maestri, un Maestro che conosco solo per le conversazioni radiofoniche (in realtà, vere e proprie lezioni universitarie, sotto forma di chiacchierata). Si tratta di Paolo Terni, che su Radiotre ha parlato spesso di questi temi; e spero di non farlo troppo arrabbiare con questa sintesi. La danza ha origini religiose, antichissime: musica e danza erano uno dei mezzi per entrare in contatto con l’aldilà, così come hanno fatto per secoli gli sciamani, e come fanno ancora oggi, nel mondo sufi, i “dervisci rotanti”. Danzare fino allo stordimento, e anche allo svenimento: era tipico dei riti orfici e dionisiaci, ed è qualcosa che davvero si può definire “follia”. Tutto questo è ben presente anche nelle forme più ordinate di musica, in Beethoven e Haydn così come nel canto gregoriano.
Ma la danza, e la musica, nascono anche (o soprattutto?) dai ritmi del lavoro. Il lavoro del fabbro, o quello del seminatore, richiedono ritmo. L’andare a tempo è indispensabile, e lo è anche (e soprattutto) per i lavori che vanno fatti insieme. Anche questa è una forma di stordimento, di follia: ordine e stordimento, in questo caso, vanno finalmente d’accordo.
Con il lavoro non va molto d’accordo, invece, il povero Barry Lyndon: è forse il suo difetto principale. Gli è stato insegnato di tutto, ma non questo: conosce l’onore, la violenza, i trucchi, i giochi d’azzardo e gli assi nella manica; non conosce il lavoro duro e paziente, e non so se questa sia davvero la lettura giusta del film – ma è la mia lettura, e – bisognerà pur dirlo prima di finire - il film di Kubrick è meraviglioso da qualsiasi parte lo si guardi, o lo si ascolti. Non è importante la mia lettura, ma la vostra. (E spero di non aver fatto troppi errori: l’argomento è davvero complesso).
PS: Per chi volesse approfondire, sulla “Musica secondo Stanley Kubrick” esiste un libro intero: l’ha scritto Sergio Bassetti per le edizioni Lindau, e mi è stato prezioso per alcune cose che mi erano sfuggite. (Passi per la “Hohenfriedberger March”, ma che mi sfugga qualcosa dell’Idomeneo di Mozart è davvero grave...).