lunedì 24 gennaio 2011

Il settimo sigillo ( III )

IL SETTIMO SIGILLO (Det sjunde inseglet, 1956). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren - Scenografia: P.A. Lundgren – Con: Max von Sidow (il cavaliere Antonius Block), Gunnar Björnstrand (lo scudiero Jöns), Nils Poppe (il giullare Jof), Bibi Andersson (Mia, moglie di Jof), Bengt Ekerot (La morte), Ake Fridell (il fabbro Plog), Inga Gill (Lisa), Erik Strandmark (il capocomico Skat), Bertil Anderberg (Raval), Gunnel Lindblom (la donna muta), Inga Landgré (la moglie di Antonius Block), Anders Ek (il monaco), Maud Hansson (la giovane al rogo), Gunnar Olsson (il pittore di chiese), Lars Lind (il giovane monaco), Benkt-Ake Benktsson (l'oste), Gudrun Brost (la donna all'osteria), Ulf Johanson (il capo dei soldati). Durata: 96 minuti

Ingmar Bergman, da “Immagini”:
Con l'eccezione del prologo, girato negli atri del Cortile Reale - dove fu filmata anche la cena a base di fragole di Jof e Mia - l'intero film venne realizzato nella Città del cinema. Ci muovevamo in uno spazio estremamente ristretto. Ma avemmo fortuna con il tempo e filmammo dal sorgere del sole alla sera tardi. Ogni costruzione fu fatta quindi entro lo spazio della Città del cinema. Il ruscello nell'oscura foresta, dove i viandanti incontrano la strega, fu realizzato con l'aiuto del corpo dei vigili del fuoco e causò vere e proprie inondazioni. Se si guarda bene, dietro gli alberi si vede un misterioso riflesso di luce. Proviene dalla finestra di un alto edificio lì vicino.
La scena finale con la Morte, che danza allontanandosi con i viandanti, fu girata negli atri del Cortile Reale. Dopo che avevamo già impacchettato ogni cosa per la sera, cominciò il maltempo. All'improvviso vidi una nube strana. Gunnar Fischer tirò su la cinepresa. Molti degli attori erano già tornati nei propri alloggi. Alcuni inservienti e turisti danzavano ai loro posti, senza avere idea di che cosa si trattasse. Quell'immagine, divenuta poi così famosa, fu improvvisata in pochi minuti.
Così andarono le cose. Il film fu fatto in 35 giorni.
Il settimo sigillo è uno dei pochi film che mi stiano veramente a cuore, ma non so perché. Non si tratta, infatti, di un'opera priva di pecche. Viene fatta funzionare grazie ad alcune pazzie, e si intravede che è stata realizzata in fretta. Non credo però che sia un film nevrotico; è vitale ed energico. Inoltre, elabora il suo tema con desiderio e passione.
A quel tempo ero ancora duramente legato alla problematica religiosa. Qui sono compresenti due opinioni in proposito. Ognuna di esse parla la propria lingua. Perciò regna una relativa tregua tra la devozione infantile e l'aspro razionalismo. Non ci sono complicazioni nevrotiche tra il Cavaliere e il suo Scudiero.
E così è con la Santità dell'Uomo. Jof e Mia rappresentano per me qualcosa di urgente: tolta la teologia, rimane il Sacro.
C'è, inoltre, una scherzosa cordialità nell'immagine della famiglia. Il bambino giungerà al miracolo: l'ottava palla del giocoliere rimarrà sospesa in aria in un momento frenetico... per una frazione di secondo.
Il settimo sigillo non zoppica da nessuna parte.
Si possono soppesare le negligenze del film con il fatto che feci una cosa che oggi non oserei più fare. Il Cavaliere esegue la sua preghiera mattutina, e al momento di riporre la scacchiera si volge e lì si trova davanti la Morte. «Chi sei?», domanda il Cavaliere. «Sono la Morte».
Bengt Ekerot e io eravamo d'accordo sul fatto che la Morte dovesse portare una maschera da clown, quella del clown bianco, o, meglio, una combinazione tra la maschera da clown e il teschio.
E un rischioso numero d'illusione che poteva benissimo fallire. All'improvviso avanza un attore con il volto dipinto di bianco, vestito di nero, e dice di essere la Morte. Noi lo accettiamo come la Morte, invece di dire: su, dai, smettila, non ci inganni! Sappiamo bene che sei un attore di talento dipinto di bianco e vestito di nero! Non
sei affatto la Morte! Nessuno protesta. Anzi, questo fatto ci rende coraggiosi e allegri.
A quel tempo vivevo con alcuni poveri resti della mia devozione infantile, un'idea del tutto ingenua di ciò che si potrebbe chiamare la salvazione extraterrena.
Nel frattempo la mia convinzione attuale aveva cominciato a manifestarsi.
L'Uomo è portatore della sua propria Santità, che però ha luogo su questa terra, senza alcun bisogno di spiegazioni extraterrene. Nel mio film vive, dunque, un rimasuglio abbastanza privo di nevrosi di una devozione sincera e infantile, che si accorda serenamente con un aspro e razionale concetto della realtà.
Il settimo sigillo è in definitiva una delle ultime espressioni di fede, delle idee che avevo ereditato da mio padre e che portavo con me dall'infanzia.
Quando realizzai Il settimo sigillo, preghiere e intercessioni erano realtà centrali nella mia vita. Dire una preghiera era un atto perfettamente naturale.
In Come in uno specchio l'eredità infantile fu liquidata. Là si sostiene che ogni idea di Dio creata dagli uomini non può che essere una mostruosità. Un mostro a due facce o, come dice Karin, «il Dio Ragno».
Nel franco incontro del cavaliere con Albertus Pictor nel Settimo sigillo, presento senza imbarazzo la mia convinzione artistica: Albertus afferma che lui si trova in uno showbusiness, dove la sola cosa che occorre è mantenersi in vita evitando di rendere gli uomini troppo disperati.
Jof è un predecessore del ragazzo in Fanny e Alexander: è nervoso perché incessantemente deve stare a contatto con fantasmi e dèmoni, nonostante ne abbia paura. D'altronde non può smettere di raccontare le sue fandonie, per lo più per rendersi interessante. Jof è insieme fanfarone e visionario. Ma Jof e Alexander sono, a loro volta, imparentati con il bambino Bergman. Certo, molte erano le cose che vedevo, tuttavia il più delle volte raccontavo balle. Quando mancavano le visioni, allora inventavo.
Per quanto mi ricordo, avevo un dannato terrore della morte, che durante la pubertà e i primi venti anni poteva impennarsi sino a farmisi intollerabile.
Il fatto che io, morendo, dovessi essere eliminato, che dovessi passare attraverso la porta buia, che ci fosse qualcosa che non potevo controllare, aggiustare o prevedere, era per me fonte di continuo spavento. Che, poi, all'improvviso, io abbia preso il coraggio di raffigurare la Morte come un clown bianco, come un personaggio conversante, che giocava a scacchi e non deteneva alcun segreto, questo fu il mio primo passo nella lotta contro la paura della morte.
Nel Settimo sigillo c'è una scena che prima mi riempiva di terrore e insieme mi affascinava. E quando Raval muore dietro l'albero nell'oscura foresta. Conficca la testa nel suolo e urla per il terrore.
L'intenzione originaria era di fare un primo piano. Ma poi scoprii che con la distanza l'effetto terrificante si rafforzava. Quando Raval era morto, lasciai girare la cinepresa senza alcun motivo, e su quella radura del bosco pieno di mistero - che è come una scena teatrale - cadeva una pallida luce solare. Era stato nuvoloso per tutta la giornata, ma proprio quando Raval veniva ucciso scendeva una luce che pareva fosse stata preparata.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti)
(fotografie dal sito "Bergmanorama")

(continua)

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