sabato 8 settembre 2012

Toby Dammit ( I )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

Negli anni ’60 sono stati prodotti molti film a episodi, spesso anche con registi diversi ad ogni episodio. Per Fellini, “Tre passi nel delirio” non era una novità, dato che aveva realizzato da poco un episodio di “Boccaccio 70”, altro film a più mani.
Il progetto inziale prevedeva almeno sette film, tutti tratti da Poe e tutti con registi diversi (compresi Luchino Visconti e Orson Welles), e Fellini fu molto riluttante ad accettare, perché aveva in mente altri progetti.
La storia completa della nascita di “Tre passi nel delirio” è stata ben riassunta da Claudio G. Fava:
Alla realizzazione di Toby Dammit, Fellini pervenne dopo la solita girandola di avventure e disavventure produttive, in un intervallo in cui aveva ripreso ad occuparsi dell'ormai mitico Viaggio di G. Mastorna; che evidentemente ritorna ogni tanto nella sua "filmografia inesistente" con la tenacia di un fantasma in un castello inglese. Toby Dammit avrebbe dovuto far parte di un'opera a molte mani, tutta ispirata a racconti di Poe. Fu inizialmente il produttore Raymond Eger ad immaginare una "antologia" ad alto livello con almeno 7 registi diversi. Oltre ai tre che rimasero nel progetto definitivo, poi realizzato, Joseph Losey avrebbe sceneggiato "Il contratto", Claude Chabrol "Il sistema del dottor Catrame e del prof. Piuma", Orson Welles preparato un episodio che fondesse insieme "La maschera della morte rossa" e "La bottiglia di Amontillado", Luchino Visconti un altro testo che assommava "Il giocatore di scacchi di Maelzel" e "Il cuore rivelatore". Le vicissitudini che portarono poi al fallimento del progetto iniziale sono minutamente raccontate da Liliana Betti nella parte da lei curata, e dedicata appunto all'episodio felliniano, nel libro edito da Cappelli riguardante Tre passi nel delirio. Liliana Betti racconta, fra l'altro, come Fellini conobbe Zapponi: Fellini (a cui inizialmente era stato proposto proprio "Il cuore rivelatore") non lo voleva fare. In quei giorni Zapponi aveva pubblicato, con la prefazione di Goffredo Parise, una raccolta di novelle intitolata "Gobal". Parise ne parla a Zapponi, Fellini si incapriccia di uno dei racconti, intitolato "C'è una voce nella mia vita", scopre che Zapponi abita proprio di fronte ad un nuovo ufficio, che si è fatto arredare in quei giorni in Via della Fortuna.
Fellini riprende contatto con i produttori francesi (metà del racconto della Betti riguarda le interminabili rotture e riappacificazioni di Fellini con Dino De Laurentiis, sempre a proposito del favoloso Mastorna, ma qui non ho lo spazio per riassumerlo), scopre che i diritti sul racconto di Zapponi sono già stati acquistati da un altro regista italiano, propone allora un secondo racconto di Zapponi, "L'autista", viene respinto dai francesi che gli dicono di essere disposti soltanto ad accettare un episodio di Poe, finalmente Fellini capitola e, dice la Betti «si orienta con una sorta di provocazione verso un Poe che è tra i più tenebrosi e convenzionali: il racconto che prende di mira si chiama "Un seppellimento prematuro", e lo stravolge subito in una farsa sanguigna alla quale presta, però, tutto il peso della sua immaginazione».
Neppure questa proposta va a buon fine, ed allora Fellini riprende di nuovo "Non scommettete la testa col diavolo". La proposta viene accettata, Fellini si mette al lavoro sulla sceneggiatura (col risultato, come dice ancora Liliana Betti, che «dopo due mesi di ipotesi, dubbi, scelte subito rinnegate e poi riconfermate... ricerche incontentabili, a volte divertenti, spesso litigiose, del racconto del caro Edgar Allan Poe non è rimasto che un titolo, un ponte, una scommessa, soverchiante».
A questo punto comincia la fase finale, affannosa come al solito: tutto l'episodio è stato pensato da Fellini in funzione di Peter O' Toole protagonista: dopo prove, contatti e trattative d'ogni genere, il protagonista prescelto (s'era pensato anche a Richard Burton, a Marlon Brando) è Terence Stamp.
Due giorni prima dell'inizio delle riprese Fellini riceve una telefonata di De Laurentiis che offre a Fellini un film, che nessuno avrebbe mai pensato si potesse offrire a Fellini: Waterloo. Il regista è sbalordito e affascinato e conquistato, ma ovviamente non accetta. Inizia a girare. Le riprese durano 26 giorni. La Betti racconta che a lavorazione terminata, mentre il film è quasi montato, Fellini, a cena con Nino Rota, si entusiasma parlando di Poe e gli confessa di aver letto per la prima volta, "Non scommettete la testa col diavolo" la sera prima. (c.g.f.)
(da “I film di Federico Fellini” di C.G.Fava, ed. Gremese)
Le ultime due righe sono da sottolineare: Fellini non aveva mai letto il racconto di Poe, e non lo ha letto nemmeno durante la lavorazione del film. Di sicuro se lo sarà fatto raccontare, così come accadrà col “Casanova” dieci anni dopo; la cosa può sembrare strana perchè, a differenza delle memoria di Casanova che occupano parecchi volumi, il racconto di Poe è molto breve e bastano dieci minuti per leggerlo dall’inizio alla fine. Ma così era fatto Fellini, che andava avanti nei suoi progetti (pur saldissimi) un po’ come un rabdomante quando cerca l’acqua, si sa che c’è ma di preciso non si sa dove, e bisogna fidarsi del proprio istinto o di qualche motivazione segreta, o inconscia.
Il risultato finale è questo: “Toby Dammit” è diversissimo da “Non scommettete la testa con il diavolo”, eppure il risultato finale è sorprendentemente simile a Poe, e ne rende benissimo sia il lato comico e satirico che il disagio e lo sgomento finale. Fellini racconta per immagini, Poe usa le parole: questa è l’unica differenza, alla fine.
Gli altri episodi del film sono “Metzengerstein” per la regia di Roger Vadim (il soggetto è la metempsicosi, la migrazione delle anime) e “William Wilson” (l’uomo che combatte con se stesso) diretto da Louis Malle. I titoli sono gli stessi dei racconti di Poe; i due film sono ben fatti ma piuttosto banali, belle immagini e bravi attori ma entrambi sembrano un compito eseguito da ottimi professionisti ma senza troppa convinzione.
Invece Fellini ne fa qualcosa di veramente suo, e nel contempo molto fedele a Poe; si può trovare un po’ lunga la prima metà, anche perché Terence Stamp vi deve per forza di cose apparire addormentato e imbambolato, mentre lascia a bocca aperta, mozzafiato, miracolosa, da antologia del cinema, la lunga scena della corsa notturna della diabolica automobile nella Roma notturna, deserta. Questa sequenza, a partire dalla consegna della Ferrari, occupa quasi tutta la seconda metà del film ed è un capolavoro assoluto, imperdibile. Mai visto niente di simile, forse solo alcuni momenti di Fritz Lang nei primi Mabuse degli anni ‘30. Durante la corsa, i fermo immagine dei pochi presenti (una donna, un cameriere, un pastore con le sue pecore immobili, solo un matto ubriaco gli risponde) rendono tutto ancora più spettrale, e rimandano al René Clair di “Paris qui dort”. Per controllare che non sia tutto un sogno, Stamp investe una sagoma fuori da un ristorante: è una statua vera, è di cartone, e quindi può ricominciare a correre...
E’ molto forte all’inizio l’impressione di rivedere “Block Notes di un regista”, girato nello stesso periodo: è ancora, quindi, il “Viaggio di Mastorna”. All’inizio dei due film vediamo le stesse facce, le stesse luci, perfino l’aereo. L’impressione diventa quasi identità assoluta nei primi fotogrammi dell’intervista a Stamp: è l’identica posa di Mastroianni nelle scene col violoncello.
Ed è quasi impossibile non pensare a Stanley Kubrick, il viaggio verso Giove di “Odissea nello spazio” e la corsa in Ferrari di Toby Dammit si assomigliano molto: i due film sono contemporanei, tutti e due del 1968. E viene in mente ancora Kubrick per “Arancia Meccanica” (del 1972): sono molte le somiglianze tra Terence Stamp e Malcolm Mc Dowell, e questa somiglianza tra Kubrick e Fellini non finisce mai di stupirmi. Non è una vera e propria somiglianza, ma piuttosto la sensazione che i due registi, così diversi tra loro, vadano ad attingere ad una fonte comune (si potrebbe aggiungere: Casanova e Barry Lyndon) sia per l’immaginario che per le fonti iconografiche, e che forse, chissà, siano perfino in qualche modo parenti fra loro.
(continua)

Toby Dammit ( II )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

Nel racconto di Poe il nome del protagonista è lo stesso, Toby Dammit: ma non si tratta di un attore e nemmeno di una persona famosa, è semplicemente un amico del narratore. Come viene spiegato nel racconto, il cognome Dammit suona come “damn it”, un’imprecazione che si può tradurre perfettamente con “dannazione, che sia dannato”. Bisogna sempre far caso alle parole che diciamo: dannazione significa inferno.
Inoltre, nel film di Fellini non ascoltiamo mai Terence Stamp dire la frase che invece ripete continuamente il protagonista del racconto di Poe, “ci scommetterei la testa col diavolo”, e quindi rischia di non essere comprensibile il rapporto con quello che succede nel finale, ma è sicuramente una scelta stilistica, più che approvabile visti i risultati.
La differenza fondamentale è però nella figura del diavolo, che in Poe appare come da tradizione (un uomo anziano con la barbetta e il piede caprino) e che invece in Fellini ha due sembianze: non solo la bambina bionda, ma anche (soprattutto) la Ferrari.
Questo è il finale del racconto di Poe:
Qui il vecchio gentiluomo lo prese per un braccio e lo condusse sotto l'ombra del ponte - a qualche passo di distanza dall'ostacolo. - Mio buon uomo - disse - considero mio scrupoloso dovere concedervi questa lunga rincorsa. Attendete qui, finché avrò preso posto accanto al cancelletto, in modo da poter vedere se lo saltate elegantemente, trascendentalmente e senza omettere alcun remeggio. Una pura formalità, sapete. Io dirò « uno, due, tre, via ! » Badate di partire al « via! » - E, messosi accanto al cancelletto, fece una pausa, come se fosse immerso in una profonda riflessione, quindi guardò in alto, e, a quanto mi parve, sorrise impercettibilmente; poi si strinse i legacci del grembiale, rivolse a Dammit una lunga occhiata, e, finalmente, pronunciò le parole convenute - Uno- due- tre-via!
Puntualmente, alla parola « via », il mio amico partì al galoppo serrato; lo stilo non era altissimo, come lo stile di Mr. Lord - né bassissimo, come lo stile dei suoi critici, e, nel complesso, mi tenevo sicuro ch'egli l'avrebbe superato. Ma che sarebbe accaduto, in caso contrario ? Questo era il problema - che sarebbe accaduto, in caso contrario ? - Che diritto ha questo vecchio signore - dissi, - di far saltare un altro signore ? Chi è lui - quel piccolo gambacorta? Se chiede a me di saltare, io non lo faccio, questo è chiaro, e non m'importa affatto chi diavolo egli sia -. Il ponte, come ho detto, era a vòlta, coperto internamente in una maniera ridicola e animato da un'eco - assai sgradevole - un'eco che non avevo mai così particolarmente notata, come quand'ebbi proferito le ultime quattro parole della mia osservazione.
Ma ciò che dissi o ciò che pensai o ciò che udii non durò che un istante. In meno di cinque secondi dalla partenza, il mio povero Toby aveva già saltato: lo vidi passar come un fulmine e balzare maestosamente dal suolo, tracciando coi piedi, mentre si alzava, i più spettacolosi mulinelli. Lo vidi sospeso in aria, che remeggiava a meraviglia, proprio sopra la punta dello stilo, e, com'è naturale, pensai che sarebbe stato assai singolare che non continuasse il suo volo. Ma l'intero balzo non fu che l'affar d'un baleno; e, prima che mi fosse possibile fare alcuna profonda riflessione, Mr. Dammit ricadde piattamente sul dorso, dalla stessa parte dello stilo, da cui era partito. Nel medesimo istante, vidi il vecchio signore fuggire, arrancando quanto più in fretta poteva, dopo aver raccolto e avvolto nel suo grembiale qualche cosa che vi era piombato dentro, cadendo dall'arco oscuro che stava sopra il cancelletto. Rimasi attonito, ma non ebbi agio di formulare alcun pensiero, perché Mr. Dammit giaceva disteso in una immobilità particolare, che mi fece concludere che dovesse sentirsi ferito nei suoi sentimenti e bisognoso della mia assistenza. Gli corsi subito accanto, e scopersi che aveva riportato una seria ferita; in verità era rimasto senza la testa, che, nonostante un'accurata ricerca, non riuscii a trovare in nessun angolo. Stabilii, quindi, che lo avrei portato a casa e avrei mandato a chiamare gli omeopatici. Ma, nel frattempo, colpito da un'idea, spalancai una finestra vicina, e allora la triste verità mi apparì : a circa cinque piedi d'altezza sopra la punta dello stilo, traversava l'arco sovrastante il marciapiedi uno dei molti tiranti che rafforzavano la struttura del ponte, in tutta la sua lunghezza : una sbarra di ferro, la cui parte piatta si stendeva orizzontalmente. Precisamente col taglio di questo tirante - appariva manifesto - il collo del mio sfortunato amico era venuto a contatto.
Non sopravvisse a lungo alla terribile mutilazione; gli omeopatici non gli somministrarono abbastanza poche medicine, e le poche che gli diedero egli esitava a prendere. Così finì con lo star peggio e alfine morì - lezione a tutti i viventi dissoluti. Io irrorai la sua tomba delle mie lacrime, tracciai una sbarra sinistra sul suo scudo di famiglia, e, per le spese generali del suo funerale, mandai il mio modestissimo conto ai trascendentalisti. Ma quei ribaldi rifiutarono di pagarlo; così feci immediatamente disseppellire Mr. Dammit e lo vendetti come carne per i cani.
(E. A. POE - Racconti Umoristici - ed. Sansoni 1974)
(continua)

Toby Dammit ( III )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

La bambina che ossessiona Toby Dammit è tra le immagini più disturbanti di tutto il cinema, e non solo quello di Fellini. Appare per pochissimi istanti, ma non si dimentica facilmente e si presta a molte osservazioni, per esempio rimanda ai Demoni di Dostoevskij: quindi l’ombra della pedofilia, un fantasma generato dalla colpa. Il palloncino può far pensare che la ragazzina sia rimasta incinta, però un pallone simile c’è anche in Raul Ruiz, “La città dei pirati”, con un significato completamente diverso; in ogni caso mi sembra una lettura un po’ troppo facile, questo simbolo è davvero molto complesso e non lo si risolve facilmente.
Forse il vero significato è proprio nei dialoghi del film, il diavolo come qualcosa di bello, lieve e attraente: «...io non sono cattolico, sono inglese...per me il demonio è qualcosa di agile e di bello» è la risposta di Toby Dammit all’intervistatrice della tv (Milena Vukotic).
La bambina è un demone e spettro bergmaniano, davvero impressionante; ma probabilmente il vero diavolo nel film è la Ferrari. Qui non ci sono complessi di colpa da scontare, la Ferrari è il potere, il possesso, il “faccio quello che mi pare e vado dove voglio”, davvero un’impresa faustiana. E’ alla Ferrari che mira Toby fin dall’inizio, non è il sesso e nemmeno la fama, è la macchina. Solo la macchina lo risveglia dal suo torpore, correndo veloce il mondo viene cancellato, solo a trecento all’ora il mondo vale la pena di essere vissuto: una sindrome molto comune anche nella realtà, oggi ancora più che nel tempo in cui fu girato il film. Anche noi stiamo scommettendo la testa col diavolo, prima o poi la nostra corsa ci porterà a un baratro: una lettura possibile del film?
E’ da sottolineare anche la scelta del brano recitato da Toby Dammit: Toby recita il Macbeth di Shakespeare, lo accenna appena – non credo che sia una scelta casuale, nel Macbeth sono le streghe (il diavolo, la bambina sorridente...) a trarre in inganno il protagonista, qui la storia di Poe è molto simile. Il brano è molto famoso, nel finale del dramma quando Macbeth sta per essere sconfitto, e gli arriva la notizia della morte della Regina, sua moglie, che lo aveva spronato nella corsa al potere e che gli era stato al fianco nei momenti difficili. Ormai gli enigmi delle streghe sono stati svelati, Lady Macbeth non c’è più, Macbeth non ha figli a cui trasmettere il potere, a cosa è servito tutto questo tramare e combattere?
ATTO QUINTO, SCENA QUINTA
(...)Rientra SEYTON.
MACBETH: Perché quelle grida?
SEYTON La regina, mio signore, è morta.
MACBETH Sarebbe pur morta, un giorno o l'altro. Il tempo per quella parola sarebbe pur dovuto venire... domani, e domani e domani. Striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei pazzi il cammino verso la polverosa morte. Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strèpito e di furore, e senza alcun significato. (...)
(William Shakespeare, Macbeth. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)
Il nome del protagonista si presta a un facile gioco di parole: Dammit si pronuncia come “damn it”. “dannazione, che sia dannato”. Nel racconto di Poe viene detto esplicitamente, nel film non se ne fa mai cenno.
Terence Stamp sembra più una rockstar che un attore, ricorda un po’ Mick Jagger; e ha la faccia bianca di un trucco molto evidente, come nel teatro Nô giapponese, volutamente evidente. Fellini userà qualcosa di simile nel suo ultimo film, “La voce della luna”: la faccia di Terence Stamp è bianca come quella di Roberto Benigni, ed è un pallore da manichino, da zombie, da Pierrot, qualcosa simile lo vediamo anche con Johnny Depp in “Dead man” di Jim Jarmusch (1995).
Questo pallore e questa continua sonnolenza (si veda proprio Johnny Depp in “Dead man”) è lo stato in cui attraversiamo la vita, in bilico tra veglia e coscienza, come nei sogni. Nella nostra vita reale, anche quando siamo svegli e coscienti, non sappiamo mai bene cosa ci capiterà tra due minuti. Siamo sempre in bilico tra la vita e la morte, o meglio tra la nascita e la morte; è quindi perfetta la citazione dal “Macbeth” ma nel film ci starebbe bene anche quest’altra cosa di Shakespeare, sempre molto famosa:
Jaques: All the world's a stage,
and all men and women merely players.
They have their exits and their entrances,
and one man in his time plays many parts,
his act being seven ages.
(William Shakespeare, “As you like”, atto 2 scena 7 )
Ma poi, a togliere ogni dubbio, ecco arrivare la scena in cui Toby Dammit si addormenta su una sedia: è identico a Pinocchio, un manichino senza vita abbandonato su una sedia.
(l’ultima immagine è dal Casanova di Federico Fellini, la scena con la bambola meccanica; Pinocchio è disegnato da Attilio Mussino, Benigni con Pinocchio è nel finale di La voce della Luna)
(continua)

Toby Dammit ( IV )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

“Toby Dammit” è un film tutto in notturna, dove anche noi finiamo per essere abbagliati e accecati dalla luce, come il protagonista. E’ anche un film serissimo, questa volta Fellini non sta giocando e gli incubi sono veri, verissimi. E’ di questi anni la grave malattia di Fellini, successiva a “Giulietta degli spiriti”: Fellini si trovò fra la vita e la morte ed ebbe bisogno di lunghe cure. Un’intossicazione alimentare, se non ricordo male, o un’infezione.
C’è anche molto di autobiografico, per esempio la scena della premiazione, le interviste tv con giornalisti che sembrano quelli della Rai di quegli anni (la giacca di Lello Bersani, per esempio). Va considerata autobiografica, a mio parere, anche la battuta “non sono un grande attore”: non è vero che sono un grande artista, ci sta dicendo Fellini.
Come molti attori e rockstar di quegli anni, Toby Dammit ha provato tutte le droghe possibili; anche Fellini volle provare l’LSD, ma sotto controllo medico. Per scoprire che in fin dei conti non ne aveva bisogno, l’immaginario di Federico Fellini era già abbastanza grande per sua natura:
FELLINI E LA FANTASIA
di Enzo Biagi, corriere della sera-7, febbraio 1998
Lo hanno iscritto, quelli della BBC, nella lista dei personaggi, cento in tutto, che hanno fatto la storia culturale del secolo. C'è anche un certo Hirst, che ha esibito, come opera d'arte, «una pecora intera morta e latte di mucca in contenitori trasparenti pieni di formalina». Mah. Strana compagnia: con lui ci sono Albert Camus, Walt Disney, Francis Bacon; ma tra gli esclusi John Ford, Marguerite Yourcenar, Luigi Pirandello, Giorgio Morandi e Amedeo Modigliani. Ma si sa: tutte le classifiche comportano anche una dose di faziosità.
Federico Fellini diceva: «Quante volte ho sentito definire i miei film “fantastici". Debbo quindi considerarmi un uomo che vive, che commercia con la fantasia. Ma non mi sono mai chiesto che cos'è. Provo l'imbarazzo, diciamo: la vergogna, di un palombaro al quale chiedessero che cos'è il fondo del mare e non sapesse che cosa dire. Già: ma forse io sono un palombaro che sa dire com'è. Per un momento avrei la tentazione di cavarmela così: “La fantasia è un ghiribizzo"».
Poi ci ripensava e si lasciava andare. «Voglio spudoratamente raccontare che cosa mi succedeva quando avevo sette od otto anni. Avevo battezzato i quattro angoli dei mio letto con i nomi dei quattro cinematografi di Rimini: Fulgor, Opera Nazionale Balilla, Savoia (come si chiamava quell'altro?...) e Sultano. Andare a letto era per me una festa, allora».
Mi sembra la rivelazione del segreto della sua arte.
«Non ho mai fatto capricci per restare alzato la sera: tutto quello che dicevano i grandi attorno alla tavola esauriva presto ogni interesse per me, sicché, appena potevo, correvo nella mia camera e mi infilavo sotto le lenzuola, spesso, anzi, con la testa sotto il cuscino. Chiudevo gli occhi, aspettavo buono buono col fiato trattenuto e un po' di batticuore, fino a quando, di colpo, silenziosissimo, cominciava lo spettacolo. Uno spettacolo tra i più straordinari. Che cos'era? Difficile raccontarlo, descriverlo: era un mondo, una fantasmagoria rutilante, una galassia di punti luminosi, sfere, cerchi lucentissimi, stelle, fiamme, vetri colorati, un cosmo notturno e scintillante che si proponeva, prima immobile, poi in un movimento sempre più vasto e avvolgente, come un immenso gorgo, un'abbagliante spirale. Ero succhiato e stordito in mezzo a questa esplosione, in una specie di vertigine che non mi dava nausea. Durava un tempo che non saprei stabilire, non troppo a lungo in ogni caso; infine si esauriva silenziosamente com'era venuto, perdendo forza come gli ultimi bagliori del fuoco che si spegne. Aspettavo qualche minuto, poi andavo a mettere la testa in un altro angolo, e le immagini riprendevano. La terza volta erano più sbiadite, avevano smalti meno lucidi. Raramente lo spettacolo notturno si ripeteva quattro volte. Alla fine, un po' stanco, ma soddisfatto e ancora riverberato da tutto quel bombardamento di stelle e di scintille solari, sprofondavo nel sonno».
(di Enzo Biagi, corriere della sera-7, febbraio 1998)
L’incontro di Fellini con Carlos Castaneda è ampiamente documentato, e ne ho già parlato per “Il viaggio di Mastorna” e per “Block notes di un regista”; non mi sembra però importante per “Toby Dammit”, che parla di altri incubi e altre visioni.
 Terence Stamp è un ottimo protagonista, ma viene da pensare che Marlon Brando sarebbe stato ancora più perfetto, in alcuni primi piani di Stamp sembra già di vedere il Kurtz di Apocalypse now (nel 1968 Brando aveva ancora età e fisico giusti per la parte). Fellini aveva pensato a Peter O’Toole, che però era già impegnato; un altro attore che sarebbe stato perfetto per la parte è sicuramente Richard Burton, anche per via dell’alcool: ”non ho lavorato per un anno perché ero alcolizzato”, confessa Toby Dammit – Terence Stamp a un certo punto, nel film.
La bottiglia metallica col whisky da tenere sotto la giacca sembra presa da Ombre rosse, o da qualche altro film americano famoso: un dettaglio ben studiato, con la consueta cura dei particolari che contraddistingue tutti i film di Fellini.
Salvo Randone appare all’inizio ed è doppiato, peccato. Fellini lo usa male, come se fosse una delle tante facce dei suoi film, dimenticandosi della grandezza di questo attore; comunque è una piccola parte, pochi minuti, il prete che accoglie Stamp all’aeroporto (“un western cattolico, la Redenzione vista attraverso il mito del Far West...”). Che sia anche questo un ricordo vero di Fellini? Probabile che fra le tante proposte strane, da Waterloo a Flash Gordon, gli sia arrivata anche questa.
Nel film c’è anche un omaggio a Totò, scomparso proprio mentre si girava il film; l’attore che lo interpreta somiglia molto di più a Toni Servillo (che all’epoca era poco più che un bambino), e si può osservare che un altro “finto Totò” apparirà brevemente in “La voce della Luna”, tra le vetrine dei negozi durante la festa di paese.
E’ molto bella Milena Vukotic, alla sua seconda apparizione felliniana dopo la parte della cameriera in “Giulietta degli spiriti”; vedendola qui viene da pensare che ha avuto molto spirito nell’imbruttirsi per interpretare la moglie di Fantozzi accanto a Paolo Villaggio, una decina d’anni dopo.
Nelle sequenze iniziali si intravede già “Roma”, l’arrivo in città attraverso il caos sull’autostrada; e guardandolo oggi viene da dire che “Toby Dammit” contiene il germe di tutti i film successivi di Fellini, compresi Roma, Ginger e Fred, Casanova e La voce della luna. Cronometro alla mano, il film dura 40 minuti: ma c’è scritto 37 un po’ ovunque. (l'immagine qui sotto verrà ripresa e sviluppata in "I clowns")
Altre mie note sparse: 1) il prete di Salvo Randone ha la sciarpa e il cappello di Fellini, e quando appare di spalle sembra che sia proprio Fellini 2) echi della Luna di Méliès all’inizio, l’aeroporto; è anche un anticipo del finale di La voce della Luna, e c’è una scena simile in Le soulier de satin di Oliveira 3) la bambina con la voce fessa non è qui come mi sembrava di ricordare, ma è in “Le tentazioni del dottor Antonio”; questa apparizione non parla ed è molto più inquietante. In sostanza, si tratta dello stesso film ma questo è un vero incubo e non ha nulla della commedia che lo precede, resa sorridente dalla presenza Anita Ekberg e Peppino de Filippo. 4) sempre Claudio G. Fava nel libro che ho citato all’inizio fa notare che «dopo anni ed anni, non ci si imbatte più nei nomi qui famigliari di Pinelli e Flaiano e Brunello Rondi fra gli scenaristi: fa capolino un nuovo collaboratore, Bernardino Zapponi, che ritroveremo poi altre volte a fianco dell'ultimo Fellini. Non mi pare che la critica abbia sufficientemente analizzato questo "cambio di marcia". E se è vero che un film di Fellini è soprattutto un film di Fellini, chiunque sia a figurare fra gli sceneggiatori ed i soggettisti, è probabilmente anche vero che il tipo di suggestioni e suggerimenti che potevano essere via via avanzati da Pinelli (il quale proveniva da un intenso passato di commediografo, anche dialettale: il suo primo lavoro ad essere rappresentato fu una commedia intitolata "L Sofa d'la Marchesa 'd Monbaron", in torinese) e da Flaiano (che fu quel grande, brillante e personale saggista e moralista che sappiamo; elogiato a denti stretti in vita e portato alle stelle da morto) appaiono in certo modo insostituibili; e segnano tutto un momento non soltanto di Fellini ma di tutto il cinema italiano postbellico.»
(continua)

Toby Dammit ( V )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

Ed infine, parlando di “Toby Dammit”, non si può evitare di fare il nome di Carl Gustav Jung, che Fellini conosceva benissimo. Il discorso però qui diventa molto complesso, troppo complesso per me; la materia diventa molto profonda e pericolosa, questo è il vero tema del film. Il discorso completo lo lascio a persone competenti e qui mi limito a portare qualche appunto.
Carl Gustav Jung, da un’intervista del 1939
(...)Tra le forme in cui l'inconscio si presenta a un uomo c'è la figura femminile, e, analogamente, l'inconscio personificato appare alla donna sotto forma di una figura maschile. Uno dei problemi più importanti per l'individuo è arrivare ad avere il giusto tipo di rapporto con queste figure dentro di lui, che possono assumere le forme più diverse. L'uomo poco evoluto chiamerà la figura femminile « Madre », intendendo la sua madre personale. E anche quando poi la madre muore, in realtà in molti uomini essa non muore mai, come forza. Se un uomo non stabilisce un giusto rapporto con questa figura femminile, finisce per esserne posseduto, ed essa diventa un fattore di squilibrio e di disgregazione.
(dal volume “Jung parla” edito da Adelphi, pag. 189)
Questo frammento di intervista risale al 1939, l’argomento di partenza è quindi terribile ed estremamente importante, ma non ha molto a che vedere con questo film. Mi interessava invece iniziare ad affrontare l’argomento, il concetto di “Anima” in Jung. Detto molto in breve (troppo in breve...) “anima” è la parte femminile dell’uomo, “animus” è la parte maschile nelle donne. Con queste parti nascoste del nostro inconscio, presenti in tutti gli individui, dobbiamo imparare a convivere. Dobbiamo conoscerle per diventare persone complete, e per essere in grado di controllare le nostre potenzialità distruttive.

Jung ipotizzava inoltre la presenza di una parte negativa in ognuno di noi, che potremmo indicare sbrigativamente come “il male”; o, se preferite (in fin dei conti qui si sta parlando di cinema) “il lato oscuro della forza”. Ognuno di noi ha dentro di sè anche questo lato negativo, distruttivo: con esso dobbiamo imparare a convivere, dobbiamo sapere che esiste. Questa intuizione era già presente nella letteratura prima di Jung: con il “Dr. Jekyll e Mr. Hyde” di Robert Louis Stevenson, per esempio, ma anche con tutta la tematica del doppio, con il Libro di Giobbe, con il Faust di Goethe, il mito di Don Giovanni, e via elencando. Jung non ha fatto altro che esporre chiaramente ciò che era stato intuito da molti altri, sia pure in forma letteraria. Del resto, guardando il film al completo, cioè “Tre passi nel delirio”, si scoprirà che questo tema era già stato affrontato anche dallo stesso Poe: il racconto intitolato “William Wilson” che qui ha la regia di Louis Malle, con Alain Delon che interpreta due volte se stesso.
Un’altra celebre questione posta da Jung è quella sull’inconscio, quello personale e quello collettivo. Quanto è grande il nostro inconscio, quali sono i suoi confini? Non ci è dato saperlo, e quando ce lo troviamo davanti e ne scopriamo le dimensioni tendiamo a ritirarci spaventati. E’ l’abisso che vediamo aprirsi davanti alla Ferrari di Toby Dammit, nel film di Fellini: forse potremmo riuscire a saltarlo in lunghezza, ma quanto è profondo? Ci sono forse dei tranelli o dei trabocchetti lungo il percorso, come nella Zona di “Stalker” raccontata da Andrej Tarkovskij?
Quanto è profondo il nostro inconscio, quale è il tuo limite personale? L’inconscio è profondo come i crepacci in montagna, oppure come i pozzi e i tombini tutti collegati fra loro che Fellini ed Ermanno Cavazzoni hanno visualizzato in “La voce della Luna”: profondità inaspettate, collegamenti sotterranei impossibili da vedere.
Quest’ultimo frammento invece l’ho già riportato qui in un’altra occasione, e mi sembra un’ottima chiusura. Fellini non c’è più da molto tempo, gli ultimi vent’anni non li ha visti: la lezione non è servita, e la realtà è andata ancora peggio di quello che si poteva immaginare.
La Stampa, 4 luglio 1987
Ilona felliniana - Parla il regista: «Sono sconfitto da Cicciolina».
ROMA - Federico Fellini parla di Ilona Staller. Del caso unico al mondo di una diva della pornografia divenuta deputata al Parlamento sono pieni giornali e televisioni internazionali, mentre intellettuali e analisti sociali italiani conservano il silenzio del disagio. Non il nostro maggiore regista: «Cicciolina è un sogno della società italiana Dico "sogno" non nel senso di una realtà desiderata, ma nel senso di qualcosa di profondo che affiora involontariamente e con cui si devono fare i conti. Di questo tipo di sogno, che può essere terrificante, l'apparizione di Cicciolina ha l'aspetto trasgressivo, sacrilego». Fellini è stato impressionato dalle immagini, dalle cronache dell'inaugurazione della decima legislatura a Montecitorio, con quel confondersi così felliniano di spogliarelliste e istituzioni, fascisti e neonati, striscioni, biciclette Verdi, afa romana, discorsi, segretari di partito, polizia: «Da uomo di spettacolo, mi ha colpito l'accostamento tra figure di Padri della Patria ottocentesche come Pertini o Spadolini, e questo misterioso sberleffo che è Cicciolina». L'ha trovata somigliante alla bambina-demone bionda, delicata, enigmatica e invitante che conduceva soavemente a morte il protagonista del suo breve film «Toby Dammit», tratto da «Non scommettete la testa col diavolo», un racconto di Edgar Allan Poe: «La sua sessualità è mitologica, non spaventa: una che recita l'accoppiamento col pitone o col cavallo assolve gli uomini da ogni timore sulla propria virilità. Quelle risatine, quel parlare mielato e balbettante come di chi si rivolge a bambini piccoli, quel sorriso costante incomprensibile come un geroglifico, quegli abiti bianchi da sposina o da comunicanda danno a Cicciolina l'impenetrabilità d'un simbolo chiuso, di un sogno incubatico». Ilona Staller in Parlamento, dice Fellini: «E’ una situazione del sogno come radiografia di qualcosa di non risolto, come smania buia che agita in sé contenuti profondi e allarmanti. Ai sogni scomodi, tutti reagiamo con fastidio e rimozione: più sono contro il buon senso, l'accettato, il conforme, più si cerca di allontanarli, dimenticarli. E infatti tutte le chiacchiere che si fanno intorno a Cicciolina sono difensive. Chi si dichiara sgangheratamente a favore, chi condanna, chi non sa cosa dire, chi non deplora per non apparire moralista, chi si abbandona a ribalderie e volgarità, chi rimane nell'imbarazzo, chi ostenta solidarietà, chi fa finta di niente: sono tutti atteggiamenti di difesa. Di questo caso non vogliamo prendere atto, con questa cosa non ci vogliamo identificare. Ma la cosa è ormai accaduta». E quali sarebbero, secondo lui, i «contenuti profondi» di questo speciale Staller-Sogno? «Chissà, in questo Paese in bilico tra le contraddizioni. Però so che l'episodio Cicciolina è provvidenziale: dovrebbe far riflettere su quali e quante siano le stratificazioni di cui dobbiamo tener conto, nella realtà italiana». Questa realtà s'è fatta ora più felliniana di Fellini: «Mi ha completamente scavalcato. Dovrò mettermi a fare film austeri, asciutti e rigorosi, alla Bresson».
Federico Fellini sull’elezione di Ilona Staller in Parlamento, da La Stampa 4.7.1987 (l.t.)
PS: nello scrivere questi post sono incorso in numerosi errori di battituta, alcuni veramente curiosi. Per esempio, ho scritto un paio di volte “prendere” con due erre: un pernacchione, insomma, come quello che Toby Dammit fa nel film rivolto alla giornalista. Vuoi vedere che Federico Fellini è qui in giro che mi spia e mi controlla e mi fa anche i dispetti? Caro Federico, spero di non aver scritto troppe fesserie...