martedì 28 aprile 2020

Orfeo negro


Orfeo negro (Orfeu negro, 1959) Regia di Marcel Camus. Soggetto di Vinicius de Moraes. Sceneggiatura di Marcel Camus e Jacques Viot. Fotografia di Jean Bourgoin. Musiche di Carlos Jobim e Luis Bonfà Interpreti: Breno Mello, Marpessa Dawn, Lourdes de Oliveira, Lea Garcia, Adhemar Ferreira da Silva, Alexandro Costantino, Waldemar de Souza, Aurino Cassiano, Jorge Dos Santos, e molti altri. Durata: 1h45'
 
"Orfeo negro" è un film del 1959 girato a Rio de Janeiro, diretto dal francese Marcel Camus (nessuna parentela con lo scrittore), tratto da un romanzo di Vinicius de Moraes e ispirato al mito classico di Orfeo ed Euridice. In una delle primissime sequenze, Orfeo va con la sua fidanzata a preparare le carte per il matrimonio, e l'impiegato sentendo il nome di lui conclude ridendo che la futura moglie non può che essere una Euridice, suscitando le ire della gelosissima Mira. Guardando questa scena mi sono chiesto quanti davvero conoscono la storia di Orfeo ed Euridice, o se la ricordino anche solo vagamente: io a diciott'anni, per esempio, non credo che avrei saputo cogliere i rimandi del testo. Quindi provo a mettere un po' di punti di riferimento, prima di cominciare a parlare del film. In estrema sintesi, la storia è questa: mentre si preparano le nozze di Orfeo con Euridice, la promessa sposa muore fuggendo da Aristeo che la insidiava. Orfeo discende negli inferi e con il suo canto riesce a commuovere anche gli spiriti dell'Oltretomba; le divinità degli Inferi gli concedono di riportare Euridice nel mondo dei viventi, a patto però che non si volti a guardarla durante il cammino. Ma Orfeo si volta, ed Euridice ritorna nel mondo dei morti.
 

Quello di Orfeo è un mito molto antico, quasi una religione a sè stante; le prime notizie storiche si trovano in Ibico di Reggio, VI secolo a.C. Notizie e testi sul culto di Orfeo si possono trovare in "Frammenti orfici" (ed. TEA) e in "I mistici dell'Occidente" di Elemire Zolla, con l'avvertenza che si tratta di libri non facili, da specialisti. Di Orfeo parlano o accennano anche Eschilo, Euripide, Platone (nel Simposio), oltre a numerosi frammenti anonimi come le "lamine orfiche". Orfeo fa anche parte degli Argonauti alla ricerca del Vello d'Oro, come raccontato da Apollonio Rodio in "Le Argonautiche", dove però non si parla di Euridice.

La storia di Orfeo ed Euridice è descritta da Ovidio (Metamorfosi, libro decimo) ed è citata da Virgilio (Eneide, libro sesto) per la discesa di Enea nell'Ade. Nel Rinascimento ha grande rilievo l'Orfeo del Poliziano, a cui si rifarà Ottavio Rinuccini sul finire del '500 scrivendo un libretto per Iacopo Peri e per Giulio Caccini: è una "Euridice" che viene rappresentata per la prima volta nell'anno 1600, data di nascita dell'opera lirica. Sette anni dopo, nel 1607, Claudio Monteverdi mette in musica il suo "Orfeo" che sarà di modello per molti musicisti negli anni successivi. Un altro "Orfeo" fondamentale è quello di Gluck, datato 1762: in queste opere liriche la storia di Orfeo ed Euridice è esposta con molta chiarezza e con musica splendida. Al cinema, sono fondamentali i due film di Jean Cocteau: "Orfeo" del 1950 e "Il testamento di Orfeo" del 1959; si può forse aggiungere "Solaris" di Andrej Tarkovskij, che ha molti punti in comune con il mito, ma Hari non è un'Euridice e il protagonista del film non è un Orfeo.
In "Orfeo negro" la prima metà del film è leggera, in tono da commedia; di drammatico c'è solo un accenno iniziale all'uomo che ha costretto Euridice a lasciare la sua casa e a rifugiarsi dalla cugina, in città. Dal minuto 45, con l'apparizione della Morte, le cose cambiano ma ha comunque gran parte il Carnevale di Rio. La giovane Euridice arriva in città, a Rio de Janeiro, per sfuggire un uomo che la minaccia; andrà ad abitare con una cugina, ma ha tempo di conoscere Orfeo, un giovane che lavora come tranviere ma che è molto conosciuto perché musicista e animatore del Carnevale. Orfeo ha modi semplici e cordiali, piace molto alle donne, ed è fidanzato con la gelosissima Mira. Siamo in un clima da commedia, ma l'apparizione di una maschera misteriosa con il costume della Morte cambia improvvisamente tutto: è l'uomo da cui sta fuggendo Euridice. L'apparizione spinge inoltre Orfeo a capire che è Euridice la donna di cui è innamorato, suscitando la rabbia e la gelosia di Mira. Il finale sarà tragico, ma i due bambini amici di Orfeo incontrano una bambina, suonano insieme mentre sorge il sole, e il mondo potrà rinascere.
 

Gli attori: Orfeo è Breno Mello, Euridice è l'americana Marpessa Dawn. La gelosissima Mira è Lourdes de Oliveira, Lea Garcia interpreta la cugina, il resto del cast è composto da ottimi attori brasiliani da noi poco conosciuti, dai due bambini amici di Orfeo (Aurino Cassiano e Jorge Dos Santos), e dalla bambina che li accompagnerà nel finale. Una curiosità riguarda l'interprete della maschera della Morte, che è Adhemar Ferreira da Silva, un atleta brasiliano che vinse nel salto triplo la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Le musiche sono di Antonio Carlos Jobim e Luis Bonfà.

Altri miei appunti presi durante la visione: 1) Mira è una furia, gelosissima e violenta, e forse per questo, da Furia, alla fine ucciderà il suo Orfeo anche senza volerlo, tirandogli la pietra che gli farà perdere l'equilibrio. 2) Hermes, cioè Mercurio, è il nome del vecchio tranviere, collega di Orfeo, che farà da tramite per la conoscenza di Euridice con Orfeo. L'attore che lo interpreta, Alexandro Costantino, somiglia molto a Morgan Freeman, ed è una bella presenza, elegante e gentile. 3) quando perde Euridice, durante il carnevale, Orfeo la va a cercare e viene mandato all'ufficio persone scomparse, dove nel corridoio trova un inserviente che sta spazzando via vecchie carte. L'inserviente lo porta nelle stanze dove c'è l'archivio delle persone scomparse, ma gli spiega che qui c'è solo carta non è possibile trovare altro che carta. C'è una scena molto simile in "Meduse" di Etgar Keret (2007), resa però in modo molto realistico. 4) l'inserviente accompagna Orfeo a un rito probabilmente candomblé (simile al voodoo, o alla santeria cubana: chiedo scusa ma non sono un esperto) dove un officiante in trance, sigaro in bocca, celebra un rito di possessione. Una donna, posseduta da uno spirito, dice di essere Euridice e si rivolge a Orfeo con la voce dell'amata, come la medium di una seduta spiritica; ma Orfeo la respinge con rabbia. 5) Fuggito dall'inganno dello spiritismo, Orfeo va all'obitorio dove trova il corpo di Euridice e lo porta via, ma Mira (resa furiosa dalla gelosia) porrà fine alla storia in maniera tragica, ripercorrendo il finale dell'Orfeo di Poliziano e del mito greco, dove Orfeo viene sbranato dalle Furie. 6) nel mito originale, Euridice muore mentre sta fuggendo da Aristeo; nel film non c'è un rivale maschile, a meno di non considerare tale la Morte. C'è solo la gelosia di Mira. 7) nel film non è presente la scena in cui Euridice viene resa a Orfeo come creatura vivente, e quindi manca anche il momento in cui Orfeo si volta verso Euridice. 8) nel Carnevale vediamo quasi soltanto costumi settecenteschi, con parrucche e abiti di prima della Rivoluzione Francese. 9) le sequenze del Carnevale, che hanno molto spazio, mi hanno fatto pensare a "Il sogno degli eroi" di Adolfo Bioy Casares (argentino, amico e collaboratore di Borges) però in "Orfeo negro" non c'è una possibilità di cambiare il destino, e non c'è un mago Taboada che permetta il tentativo di ricominciare la vita. 10) Sul mio piano personale, ho trovato "Orfeo negro" molto bello anche se un po' datato, e trovo comunque qualcosa di irrisolto che però non disturba, non è sempre giusto risolvere tutto e il film è comunque riuscito.
 

Infine, il titolo originale è proprio "Orfeu negro", tradotto quindi molto bene in italiano: siamo alla fine degli anni '50, è un titolo che oggi creerebbe dei problemi ma in spagnolo e in portoghese "nero", "black", si dice proprio "negro", e a me viene da pensare che in quegli stessi anni il grande poeta senegalese Leopold Sédar Senghor, insieme con il martinicano Aimée Césaire, lanciava l'elogio della Negritudine, "négritude", l'orgoglio di essere neri di pelle. Ancora a metà anni '60, nel famoso discorso "I have a dream", anche Martin Luther King usava le parole "negro people". Forse in questo inizio di millennio ci stiamo facendo troppi problemi sulle parole, perdendo di vista la realtà. Mi viene da pensare che se usassimo tranquillamente la parola "negro", come sessant'anni fa, probabilmente toglieremmo molto spazio ai razzisti - ma non sta a me decidere, e per oggi temo solo che questo post venga censurato dai motori di ricerca (eccetera) o che qualcuno che passa di qui si senta offeso e mi scriva commenti di pessima qualità.


 
 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 
 

venerdì 24 aprile 2020

Piazzale Loreto / La lunga notte del '43


- Piazzale Loreto (1980) Regia di Damiano Damiani. Documentario di produzione Rai, parte di un ciclo intitolato "Finché dura la memoria". Durata: un'ora.

- La lunga notte del '43 (1960). Regia di Florestano Vancini. Tratto da "Cinque storie ferraresi" di Giorgio Bassani. Sceneggiatura di Ennio De Concini, Pierpaolo Pasolini, Florestano Vancini. Fotografia di Carlo Di Palma. Musiche di Carlo Rustichelli. Interpreti: Enrico Maria Salerno, Gabriele Ferzetti, Belinda Lee, Andrea Checchi, Gino Cervi, Nerio Bernardi, Raffaella Carrà, e molti altri. Durata: 1h35'

"Piazzale Loreto" di Damiano Damiani è un documentario di un'ora, prodotto dalla Rai e mandato in onda nel 1980. E' molto interessante soprattutto perché riporta le interviste con i parenti dei quindici antifascisti uccisi nel 1944 e i cui corpi furono lasciati esposti per giorni, proprio in Piazzale Loreto a Milano. Si vedono e si ascoltano il figlio di Libero Temolo, la figlia di Salvatore Principato, la vedova di Fogagnolo, altri ancora. Il difetto può essere nel fatto che ci si arriva solo dopo 40 minuti, prima si racconta dei fatti avvenuti l'anno seguente, molto più noti e dei quali si parla molto più spesso, cose risapute; io avrei preferito una narrazione in ordine temporale, ma questo non può essere considerato un difetto e comunque nel 1980 ci poteva stare perché la situazione era migliore di quella di oggi. Damiano Damiani, futuro regista di film di grande successo, è stato testimone di entrambi i fatti e lo vediamo in video (qui) mentre spiega e illustra dove sono avvenuti e quali sono stati i cambiamenti. Il distributore di benzina, per esempio, non c'è più da tempo; altri cambiamenti sono avvenuti ed è quindi difficile individuare con precisione i luoghi. "Piazzale Loreto" fa parte di un ciclo che si intitola "Finché dura la memoria", e che comprende anche documentari realizzati da altri registi: Nelo Risi racconta la battaglia di Montecassino, Florestano Vancini la strage di Fragheto (sull'Appennino, fra Marche e Romagna, 7 aprile 1944), Luigi Zampa il bombardamento di San Lorenzo a Roma nel 1943, Faliero Rosati la Resistenza nella zona di Asciano Pisano.
Non ho trovato molte notizie sul film, purtroppo, e non mi è possibile al momento rivedere il documentario e leggerne i titoli di testa, quindi non posso mettere i nomi degli autori, e me ne dispiace molto. Questo film di Damiani manca anche dall'elenco di www.imdb.com
On line ho trovato poco, quasi soltanto questo: «...il regista ha detto di essere rimasto molto colpito dalla vivezza dei ricordi degli anziani e dal disinteresse di molti giovani riguardo a questo episodio, del quale qualcuno di essi non era nemmeno a conoscenza. (L'Unità, 4 febbraio 1980)»
 

Dal sito www.anpi.it  prendo la descrizione della strage di Piazzale Loreto, con la biografia di uno degli uccisi:
Libero Temolo, nato ad Arzignano (Vicenza) il 31 ottobre 1906, ucciso in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944, operaio. Negli anni Trenta si era trasferito a Milano da Arzignano, dove la sua famiglia (ricca di undici figli) era molto nota per le idee democratiche del padre fornaio. Nel capoluogo lombardo, il giovane era riuscito a trovare lavoro, prima come assicuratore e poi come operaio alla Pirelli. Nella fabbrica, dove presto i suoi compagni avevano preso ad apprezzarlo per la sua dirittura morale, aveva ripreso i contatti con l'organizzazione comunista clandestina. Durante l'occupazione tedesca Temolo si era impegnato nell'organizzazione delle Squadre di Azione Patriottica sino a che, certamente per una delazione, i fascisti erano andati a prelevarlo nella fabbrica. Era l'aprile del 1944. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Temolo vi rimase mesi senza un'imputazione precisa e senza processo. All'alba del 10 agosto, i secondini si presentarono alla sua cella e gli fecero indossare una tuta blu da operaio, che recava nel taschino il suo nome e cognome. La stessa tuta fu consegnata ad altri quattordici detenuti di San Vittore, tutti rinchiusi perché sospettati di far parte, a vario titolo, della Resistenza. Ai morituri fu dato ad intendere che sarebbero stati trasferiti in un campo di lavoro in Germania. Ma la loro sorte era già segnata. Theodor Emil Saevecke, comandante della polizia nazista di sicurezza a Milano (soltanto verso la fine degli anni Novanta sarebbe stato processato e condannato all'ergastolo in contumacia per le stragi compiute in Italia), aveva intimato ai repubblichini di fucilare quindici italiani, come risposta ad un'azione compiuta il giorno prima dai GAP in Viale Abruzzi a Milano, nonostante nessun militare tedesco fosse stato coinvolto. Con un camion i detenuti furono trasportati in piazzale Loreto e fatti scendere dal mezzo. Temolo e un suo compagno socialista della Pirelli (Eraldo Soncini), che dovevano aver intuito quel che stava per succedere, tentarono contemporaneamente la fuga in due opposte direzioni. Temolo fu subito abbattuto da una raffica di mitra; Soncini, raggiunto nel sottoscala di una casa vicina, fu eliminato sul posto; gli altri tredici furono falciati dai proiettili dei tedeschi e dei militi fascisti della "Muti". A pochi metri dal luogo dell'eccidio (i corpi delle vittime rimasero sul selciato di piazzale Loreto sino a pomeriggio inoltrato, per "dare una lezione ai milanesi"), sorge oggi un sobrio monumento che reca i nomi dei Caduti: Umberto Fogagnolo (classe 1911), Domenico Fiorani (1913), Vitale Vertemati (1918), Giulio Casiraghi (1899), Tullio Galimberti (1922), Eraldo Soncini (1901), Andrea Esposito (1898), Andrea Ragni (1921), Libero Temolo (1906), Emidio Mastrodomenico (1922), Salvatore Principato (1892), Renzo Del Riccio (1923), Angelo Poletti (1912), Vittorio Gasparini (1913), Gian Antonio Bravin (1908). A Libero Temolo, il Comune di Milano ha dedicato una via nella zona della Bicocca dove allora sorgeva la Pirelli (sul tetto della fabbrica, il giorno dell'eccidio campeggiò la scritta "Libero Temolo"). Una lapide, con la foto dell'operaio antifascista, si trova in via Casoretto. Reca inciso: "Libero Temolo / nel martirio / chiuse la vita breve di anni / densa di opere / per il culto della libertà".
http://www.anpi.it/

qui per altre notizie


"La lunga notte del '43" è tratto da un libro di Bassani, "Cinque storie ferraresi", ed è l'esordio nella regia di Florestano Vancini. Scritto da Vancini con Pasolini e De Concini, è in bianco e nero, dura 1h35' ed è uno dei capolavori del cinema italiano, un film da non perdere per l'importanza della storia raccontata e per la bravura degli interpreti.
Si parte da un fatto vero, una strage fascista compiuta a Ferrara in cui i corpi degli uccisi vennero lasciati esposti per un giorno, con il divieto per i parenti di avvicinarsi e con i soldati messi di guardia, armi in pugno e ben esposte. La storia vera è raccontata tramite personaggi d'invenzione: protagonista è Enrico Maria Salerno (grandissimo) che interpreta un paralitico che assiste all'eccidio dalla finestra della sua farmacia. Belinda Lee (voce di Lydia Simoneschi), molto brava, è sua moglie e ha una relazione con il personaggio interpretato da Gabriele Ferzetti, figlio di un avvocato che verrà ucciso nella strage. Gino Cervi è il boss fascista locale, Andrea Checchi è il farmacista che lavora per il proprietario. Nerio Bernardi è il padre di Ferzetti, Raffaella Pelloni (futura Carrà) è la giovane sorella di Ferzetti.
 

Qui, da wikipedia, il resoconto dei fatti e l'elenco delle vittime:
Tra i 74 arrestati ne vennero individuati 11, che poi furono fucilati all'alba del 15 novembre. Vicino al muretto del Castello Estense, in corso Martiri della Libertà, caddero: Emilio Arlotti, deputato e senatore del Regno d'Italia, vicino al PNF ma rifiutando l'adesione alla Repubblica Sociale Italiana. Pasquale Colagrande, magistrato, iscritto al Partito d'Azione. Mario Hanau, commerciante ebreo. Vittore Hanau, commerciante ebreo, padre di Mario. Giulio Piazzi, avvocato socialista, vicino a Giustizia e Libertà. Ugo Teglio, già espulso dal Liceo Ariosto nel 1938 perché ebreo, figlio del preside dello stesso istituto, Emilio Teglio, ugualmente cacciato dal suo incarico per lo stesso motivo, le Leggi razziali fasciste. Alberto Vita Finzi, rappresentante di commercio, ebreo (Archivio CDEC, Fondo antifascisti e partigiani in Italia 1922-1945, b. 19, fasc. 443.) Mario Zanatta, avvocato, iscritto al Partito d'Azione
Sulle mura di san Tomaso vennero uccisi: Girolamo Savonuzzi, ingegnere capo del Comune di Ferrara, voluto malgrado le idee antifasciste dal podestà Renzo Ravenna, lavorò spesso con il fratello Carlo. Arturo Torboli, responsabile dell'Ufficio ragioneria del Comune.
In via Boldini venne ucciso: Cinzio Belletti, giovane operaio probabilmente ucciso per sopprimere un testimone.


 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 

mercoledì 22 aprile 2020

L'idiota (Akira Kurosawa)


 
L'idiota (Hakuchi, 1951) Regia di Akira Kurosawa. Tratto dal romanzo di Fiodor Dostoevskij. Sceneggiatura di Eijiro Hisaita e Akira Kurosawa. Fotografia di Toshio Ubukata. Musica di Fumio Hayasaka, con inserti di Grieg e Musorgskij. Interpreti: Masayuki Mori (Kameda), Toshiro Mifune (Akama), Setsuko Hara (Taeko-Nastassia), Yoshiko Kuga (Ayako-Aglaia), Takashi Shimura (Ono-Epancin), Durata: 166 minuti

"L'idiota" di Kurosawa è il film immediatamente successivo a "Rashomon", e precede di poco "I sette samurai"; è tratto dal romanzo di Dostoevskij con sceneggiatura dello stesso Kurosawa e di Eijiro Hisaita. Nasce con un programma abizioso, nelle intenzioni di Kurosawa doveva durare più di quattro ore (265 minuti), l'edizione uscita nei cinema è comunque di poco inferiore alle tre ore (166 minuti). Nel suo libro autobiografico, Akira Kurosawa dedica pochissime righe a "L'idiota":
Dopo Rashomon feci un film da L'idiota di Dostoevskij (Hakuchi, 1951) per gli studi Shochiku. Questo Idiota costò molti soldi. Mi scontrai direttamente con i capi dello studio, e quando uscirono le recensioni mi sembrarono una fotocopia del parere dei produttori su di me. Erano tutte virulente. Sull'onda di quel disastro, la Daiei ritirò la sua offerta di fare un altro film con me. Quella gelida comunicazione mi arrivò nei teatri di posa di Chofu della Daiei, nei sobborghi di Tokyo. Uscii dal cancello completamente ebete (...) Arrivai a casa depresso; avevo sì e no la forza di aprire la porta. Ma ecco che arriva di corsa mia moglie. "Congratulazioni!". Non potei fare a meno di irritarmi. Chiesi: "per cosa?" "Rashomon ha vinto il primo premio!"  Rashomon aveva vinto il Leone d'Oro alla mostra internazionale del cinema di Venezia, e io non dovevo più mangiare il riso freddo. Una volta di più era comparso un angelo, sbucando da chissà dove. Io non sapevo nemmeno che Rashomon fosse stato presentato alla mostra del cinema. (...)
(da "Akira Kurosawa - L'ultimo samurai, quasi un'autobiografia" ed. Baldini Castoldi 1995, pag.244)

Nella riduzione di Kurosawa, l'azione è spostata nel Giappone dopo la fine della seconda guerra mondiale, cioè - per l'epoca - in tempo reale, dato che il film esce nel 1951. Il principe Myskin, protagonista del libro di Dostoevskij, diventa un soldato appena uscito da un ospedale militare americano; sul treno che lo porta a casa incontra il suo Rogozin, come nel libro, ma manca del tutto un equivalente di Lebedev. Myskin si chiama Kameda, e Rogozin diventa Akama; anche con i cambiamenti voluti per il film, i due personaggi rimangono quasi inalterati. Kurosawa però dà a Kameda-Myskin un dettaglio fondamentale nella biografia di Dostoevskij: la condanna a morte per fucilazione poi condonata all'ultimo istante. Lo shock di quei momenti provocò le prime gravi crisi epilettiche nello scrittore russo, e questo succede anche a Kameda nel film di Akira Kurosawa. Come nel romanzo originale, è l'epilessia a rendere il protagonista "come un idiota" che poi viene guarito e può tornare a una vita normale. Come nel romanzo originale, con una modifica non sostanziale, Kameda scoprirà di essere ricco: qui si tratta dell'eredità di una grande fattoria, perduta perché Kameda era stato dichiarato morto in guerra.

 
Nastassia Filippovna si chiama Taeko, ed è stata "comperata" quattordicenne da un ricco signore, che adesso le sta cercando un marito regalandole una ricca dote, ed è più o meno la situazione del libro, con la differenza che in Dostoevskij la giovane rimasta orfana viene allevata da Totskij come suo tutore. Totski si chiama Tohata, e Gania (Gavril Ardaljonovic) diventa Kayama.
Al suo arrivo, Kameda-Myskin viene accolto dalla famiglia Ono, che corrisponde abbastanza bene agli Epancin del libro, pur senza titoli militari o nobiliari. La figlia minore di Ono, che corrisponde all'Aglaia di Dostoevskij, si chiama Ayako.
Gli altri personaggi quasi scompaiono, tranne Kolia (Kaoru); si vede appena il padre ubriacone di Gania e di Kolia (nel libro, il generale Ivolghin). Il personaggio di Karube, con i baffetti alla Charlot, è a metà strada fra Lebedev e Ptitsin, ed è un personaggio del tutto secondario.
 
 
Kurosawa ambienta il suo "Idiota" nella neve e nel gelo, d'inverno, così come la pioggia in Rashomon, d'estate; significativa anche la festa sul ghiaccio, con Kolia-Kaoru pattinatore e messaggero, che prelude all'incontro sulla panchina tra Aglaia-Ayako e Kameda-Myskin, incontro quasi identico in Dostoevskij. Il vaso prezioso viene rotto dopo 35', per la festa compleanno di Nastassia-Taeko, invece che nel finale come è in Dostoevskij. Non c'è il "Cristo morto" di Hans Holbein, fondamentale in Dostoevskij, e mancano tutti i riferimenti al Cristianesimo, che in Giappone è una minoranza. Allo stesso modo, Rogozin-Akama e Myskin-Kameda non si scambiano le loro croci, ma un sasso e un amuleto; il sasso è stato raccolto da Kameda subito dopo la mancata fucilazione. Il trauma della fucilazione, come nella vera vita di Dostoevskij, è presente anche nell'incontro di Kameda con Taeko-Nastassia: Kameda rivede gli occhi di Nastassia in quelli di un condannato fucilato davanti a lui. Taeko e Kameda vivono i rispettivi traumi del loro passato: lei, venduta a quattordici anni, comperata da Totski-Tohata, lui portato a un passo dalla morte e graziato solo all'ultimo istante. Dopo la terribile scena tra Rogozin e Myskin, praticamente identica a quella di Dostoevskij anche nella riduzione del film, tranne che nella sua conclusione (qui muoiono entrambi), il finale è con Ayako-Aglaia e Kolia-Kaoru: lei piange e dice "che stupida sono stata, ero io l'idiota, non lui".
 
 
Gli attori: il protagonista è il samurai di Rashomon, Masayuki Mori, quasi irriconoscibile in due parti completamente diverse. Rogozin tocca a Toshiro Mifune, stranamente contenuto e molto diverso dal Gianmaria Volonté dell'edizione Rai 1959; Mifune era reduce dal ruolo del bandito di Rashomon. Le due donne protagoniste sono Setsuko Hara (Taeko-Nastassia) e Yoshiko Kuga (Ayako-Aglaia), entrambe molto brave e molto ben scelte. Takashi Shimura, attore tra i fedelissimi di Kurosawa, è Ono (Epancin), Eijiro Yanagi è Tohada.
Le musiche, firmate da Fumio Hayasaka, comprendono estratti dal "Peer Gynt" di Edvard Grieg, nella prima parte del film, e dalla "Notte sul Monte Calvo" di Modest Musorgskij per lo spettacolo sul ghiaccio.
E' un bel film, richiede molta pazienza ma si è ripagati.

 

sabato 18 aprile 2020

L'idiota (Rai 1959)


 
L'idiota (1959) Regia di Giacomo Vaccari. Tratto dal romanzo di Fiodor Dostoevskij. Riduzione e sceneggiatura di Giorgio Albertazzi. Musiche di Luciano Chailly. Interpreti: Giorgio Albertazzi (Myskin), Gianmaria Volonté (Rogozin), Anna Proclemer (Nastassia), Anna Maria Guarnieri (Aglaia), Sergio Tofano (Lebedev), Antonio Pierfederici (Gania), Lina Volonghi (Lizavieta Prokofievna), Gianni Santuccio (generale Ivolghin), Augusto Mastrantoni (generale Epancin), Davide Montemurri (Kolia), Mario Bardella (Sergej Pavlovic), Carlo Hintermann (Keller), Pina Cei (Daria), Franca Nuti (Varvara), Gianna Giachetti (Adelaide), Ferruccio De Ceresa (Ferdiscenko), Aldo Pierantoni (Totski), e molti altri. Durata: 6 puntate di un'ora e un quarto circa (sette ore totali)

"L'idiota" del 1959 è una delle produzioni Rai di maggior valore, ancora oggi famoso e molto citato; la regia è di Giacomo Vaccari, la sceneggiatura è opera di Giorgio Albertazzi, che ne cura la riduzione dal romanzo di Dostoevskij. Il cast è formidabile, come capitava spesso in quegli anni fortunati, ed è ottima la regia di Giacomo Vaccari. Gli attori e le attrici erano quasi tutti molto giovani in quel periodo, e molti di loro erano ancora poco noti ma avrebbero fatto la storia del teatro e del cinema italiano: Gianmaria Volonté è alle sue primissime apparizioni tv e non aveva ancora fatto cinema, Giorgio Albertazzi era maggiore di dieci anni rispetto a Volonté ed era già un nome di punta nel teatro italiano, così come Anna Proclemer sua coetanea (nati entrambi nel 1923). Anna Maria Guarnieri, figlia del grande direttore d'orchestra Antonio Guarnieri, era più o meno coetanea di Volonté (1933 e 1934) ma già con un curriculum di tutto rispetto. Sergio Tofano, che interpreta Lebedev, è un attore di grande nome, insegnante e maestro di molte generazioni di grandi attori, ed è anche l'autore del Signor Bonaventura: mi posso fermare qui, consiglio a chi non lo conoscesse di fare una ricerca in rete per scoprire i suoi molti talenti. Altri grandi attori di teatro, già affermati, sono presenti nello sceneggiato: due nomi per ora possono bastare, Lina Volonghi e Gianni Santuccio.
Il regista Giacomo Vaccari morì molto giovane, in un incidente stradale all'inizio degli anni '60. Ci ha lasciato solo gli sceneggiati Rai, in buon numero ma purtroppo quasi nessuno disponibile; è un vero peccato perché "L'idiota" è un capolavoro di regia. Dispiace solo che i mezzi di registrazione televisiva dell'epoca fossero ancora molto precari, come dimostrano anche i fotogrammi che metto qui, ma basterà la sequenza iniziale sul treno (fedelissima a Dostoevskij) per intuire il suo talento.


La riduzione di Giorgio Albertazzi è molto fedele al romanzo di Dostoevksij, anche se con alcuni tagli anche importanti. Viene tagliato del tutto il personaggio di Ippolit, il giovane tisico che ha una parte molto consistente nel libro, e sparisce anche il principe anonimo (indicato con la sola iniziale del cognome) che corteggia Adelaide. Nel complesso, è comunque un ottimo lavoro che rende bene il lavoro di Dostoevskij, a partire dall'immagine sui titoli di testa che è il "Cristo morto" di Hans Holbein, che occupa pagine importanti nel libro. Per chi volesse leggere le pagine dedicate al "Cristo morto", si tratta di: 1) parte seconda capitolo quarto (Rogozin e Myskin) 2) parte terza capitolo sesto (verso la fine del capitolo, il racconto di Ippolit ).
Due dettagli curiosi: nel romanzo, Aglaia regala a Myskin un riccio e non un gattino; Rogozin risveglia Nastassia svenuta prendendo con due dita l'acqua da un vaso di fiori, ma nel romanzo (alla fine del capitolo VIII dell'ultima parte) si parla soltanto di un bicchier d'acqua. Il dettaglio del vaso di fiori c'è anche nel film di Akira Kurosawa del 1951: Rogozin è interpretato da Toshiro Mifune, e rovescia tutto il contenuto del vaso addosso a Nastassia; qui Volonté è leggero e sarcastico, gli bastano due dita e un leggero spruzzo per sottolineare che secondo lui Nastassia sta fingendo.
Un altro dettaglio curioso è la pronuncia del nome di Rogozin: qui si dice Parfèn, ma dovrebbe essere qualcosa come Parfiòn.

 
Giorgio Albertazzi, biondo e pallido, estatico, ricorda molto l'Amleto di Laurence Olivier del film; Volonté è Rogozin esattamente come lo avevo immaginato, impressionante. Anche Gianni Santuccio e Sergio Tofano sono altrettanto perfetti come generale Ivolghin e Lebedev, difficile immaginare un'interpretazione migliore; un giovane Ferruccio De Ceresa interpreta Ferdiscenko.
Le donne invece le avevo immaginate diverse, ma risolvono ogni dubbio con la recitazione: appena inizia a parlare Anna Proclemer è Nastassia Filippovna, e Anna Maria Guarnieri non è da meno. Lina Volonghi si impossessa del personaggio della loro madre, generalessa Epancin; Angela Cardile è una credibile Vera Lebedeva. Il Kolia di Davide Montemurri è più adulto dell'originale, che è poco più di un bambino, ma rende comunque bene il personaggio. Il Gania dell'ottimo Antonio Pierfederici fa pensare a Kafka, e in effetti c'è già molto di Kafka in Dostoevskij e nei suoi dialoghi. Tutti gli attori e le attrici sono ben scelte, non posso citarli tutti e rimando all'elenco che ho messo all'inizio; aggiungo solo una citazione per Armando Benetti, qui nella breve parte del "vecchietto" alla festa di Nastassia, che prendeva una valanga di applausi in teatro per queste sue piccole parti che recitava in modo esilarante, come per il suggeritore nell' "Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni, con regia di Strehler.
Le musiche, molto adatte, sono di Luciano Chailly, con citazioni dal Boris Godunov di Musorgskij (le campane) e inserimenti frequenti del theremin o di qualcosa che lo imita.

 
Due pensieri rivedendo lo sceneggiato: 1) forse Tarkovskij padre pensava a Rogozin quando scrisse i suoi versi sul destino che "ti insegue... come un pazzo col rasoio in mano" 2) la storia di Myskin e di Rogozin potrebbe stare in "Il cielo sopra Berlino", due angeli caduti oppure volutamente diventati umani, come nel film di Wenders - ma è anche la storia di due pazzi pericolosi, o forse tre, quattro: così li definiremmo se fossero qui tra noi.
 
Dei nostri incontri
ogni istante festeggiavamo
come un'epifania,
soli nell'universo tutto.
Più ardita e lieve d'un battito d'ali
per le scale correvi
come un capogiro,
precedendomi tra cortine di umido lillà
nel tuo regno dall'altra parte dello specchio.
Quando la notte venne
ebbi da te la grazia.
Si spalancarono le porte dell'altare
e le tenebre illuminò,
chinandosi lenta, la tua nudità.
E io, destandomi, "sii benedetta", dissi,
pur sapendo che oltraggio era
la mia benedizione.
Tu dormivi,
e a sfiorarti le palpebre col suo violetto
a te tendeva, dal tavolo, il lillà.
E le tue palpebre sfiorate di violetto
erano quiete, e calda la tua mano.
E nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le montagne, luceva il mare.
E tu tenevi in mano la sfera di cristallo,
e tu in trono dormivi,
e, Dio ! ,
tu eri mia.
Poi ti destasti,
e trasfigurando il quotidiano vocabolario umano
a piena voce pronunciasti
" Tu ! "
E la parola svelò il suo vero significato,
e zar divenne.
Nel mondo tutto fu trasfigurato,
anche le cose semplici,
- il catino, la brocca, l'acqua
che sta fra noi come una sentinella,
inerte e dura.
Chissà dove fummo spinti...
Dinanzi a noi si stesero, come miraggi,
città nate da un prodigio.
La mente sola si stendeva
sotto i nostri piedi,
e gli uccelli c'eran compagni di viaggio,
e i pesci balzavano dal fiume,
e il cielo si spalancava ai nostri occhi
quando il destino seguiva i nostri passi
come un pazzo con il rasoio in mano.
( Arsenij Tarkovskij, da "Lo specchio" di Andrej Tarkovskij )
 
 
(le immagini sono tra le poche disponibili in rete,
ringrazio chi le ha rese disponibili)
 


domenica 12 aprile 2020

Meduse


 
Meduse (Meduzot, 2007). Scritto e diretto da Shira Geffen e Etgar Keret. Fotografia di Antoine Héberlé. Musiche di Christopher Bowen. Interpreti: Sarah Adler, Nikol Leidmann, Gera Sandler, Noa Koller, Zharira Charifai, Ma-nenita de la Torre, Naama Nisin, e molti altri. Durata: 1h15'

Una bambina di cinque anni esce dal mare, ha indosso solo un salvagente e va diritta da Batya, una giovane donna che lavora come cameriera. Intorno non c'è nessuno, la bambina non parla, e sembra proprio uscita dalle onde perché prima non c'era. Che fare? Batya la porta alla polizia, come è ovvio, ma la piccola scappa e se la ritroverà a casa. Non potendo fare altro, Batya se la porta dietro sul lavoro, dove verrà licenziata ma farà amicizia con una fotografa. La bambina sparisce misteriosamente un'altra volta, ma l'altra ragazza è riuscita a farle una foto: servirà?

 
"Meduse" è un piccolo film israeliano firmato a quattro mani da Shira Geffen e Etgar Keret; la Geffen è anche autrice della sceneggiatura. Sono piccole storie quotidiane, con l'irruzione fantastica della bambina di cinque anni che esce dal mare di Tel Aviv (nessuno intorno, solo lei che avanza nell'acqua) e dove un gelataio anziano vagabondo ha un po' il posto di "Der Leiermann" nel lied di Schubert, un ricordo lontano che riempie di malinconia ma anche di speranza. Le storie raccontate, e intrecciate fra di loro, oltre a quella di Batya e dell'amica fotografa, sono quelle di una coppia di sposi che non potrà andare in luna di miele perché lei ha una caviglia ingessata, di un'anziana accudita da una badante filippina mandata da sua figlia, attrice di teatro in un improbabile e bruttissimo spettacolo che si vorrebbe ispirato all'Amleto, e di una scrittrice fascinosa che i due neosposi troveranno nell'albergo orribile di Tel Aviv (un vero mostro architettonico) dove sono andati per provare almeno a far finta che sia una vacanza. Ma detto così sembra tutta un'altra cosa da quello che si vede, "Meduse" è un bel film e si vede volentieri soprattutto per la delicatezza con cui vengono ritratte le persone e per la bravura degli interpreti. Ricorda un po' il primo Jarmusch, ha qualcosa dei film di Jeunet e Caro (Amélie, Una lunga domenica di passioni...) è bello fin dall'inizio (il camion con le nuvole), e gli perdono anche "La vie en rose" nella colonna sonora.
Il titolo originale è "Meduzot", la protagonista Batya è Sarah Adler, la bimba è Nikol Leidmann, e poi Gera Sandler, Noa Koller, Zharira Charifai, Ma-nenita de la Torre (Joy, la filippina), Naama Nisin, e altri ancora.
 
« Una nave dentro una bottiglia non potrà affondare mai, né ricoprirsi di polvere. E' graziosa da guardare, mentre naviga nel vetro. Nessuno è tanto piccolo da poterci salire, nessuno sa dove è diretta. Il vento non può gonfiare le sue vele, non ha vele. Solo lo scafo, come un vestito; e, sotto, meduse. La sua bocca è asciutta, nonostante sia circondata dall'acqua; lei beve dal profondo degli occhi, che non chiude mai. Morirà senza far rumore, non si infrangerà sugli scogli. Lei rimarrà ferma, e orgogliosa. E se non hai baciato lei mentre andavi via, amore mio, se puoi bacia me quando ritorni.» (il foglio della suicida, a 1h10)
 
Der Leiermann
Drüben hinterm Dorfe steht ein Leiermann 
Und mit starren Fingern dreht er, was er kann.
Barfuß auf dem Eise wankt er hin und her
Und sein kleiner Teller bleibt ihm immer leer.
Keiner mag ihn hören, keiner sieht ihn an,
Und die Hunde knurren um den alten Mann.
Und er läßt es gehen alles, wie es will,
Dreht und seine Leier steht ihm nimmer still.
Wunderlicher Alter, soll ich mit dir geh'n?
Willst zu meinen Liedern deine Leier dreh'n?
(Là al limite del villaggio c'è un uomo con l'organetto; con le dita indurite gira la manovella meglio che può. Scalzo sul ghiaccio barcolla qui e là, il piattino per i soldi rimane sempre vuoto. Nessuno lo vuole ascoltare, nessuno lo guarda, i cani gli ringhiano intorno. E lui lascia che tutto scorra come vuole, suona, e il suo organetto non sta mai fermo. Strano vecchio, dovrò venire con te? Vorresti accompagnare le mie canzoni con il tuo strumento?)
(Franz Schubert, n.24 da "Winterreise" su testi di Wilhelm Müller) (qui per l'ascolto)




sabato 4 aprile 2020

VHS


 
Portarsi a casa un film da vedere e rivedere, come se fosse un libro, è stato il sogno di tutti gli appassionati, dal 1895 in poi. C'era chi poteva farlo, ma erano persone molto ricche o gente del mestiere, come Ingmar Bergman che aveva una sua sala di proiezione personale, con decine di pellicole; serviva comunque un proiettore da cinema, un locale ampio, il buio. C'è stato anche il super8, i filmini girati in famiglia; ma anche questi erano piuttosto costosi e pochi potevano permetterselo. Dagli anni '80, però, tutto questo divenne possibile e a un prezzo contenuto: ed è stato il grande merito storico delle videocassette, oggi dimenticatissime. Anche il dvd, che rese possibile la grande qualità delle immagini, è ormai visto come un oggetto sorpassato; ma su questo ci sarebbe molto da dire, o meglio: ci sarebbe molto da dire sulla qualità dell'editoria, e sulla professionalità di chi rende disponbili film e documentari. Per spiegare bene cosa intendo faccio un esempio: io ho in casa (si trovano ancora, hanno avuto successo e sono stati più volte ristampati) diversi libri della "Sansoniana straniera", una collana di libri dell'editore Sansoni che risale addirittura a cent'anni fa: testo a fronte, note di grandi studiosi, confezione accuratissima, rari e quasi inesistenti gli errori di stampa, testi di Shakespeare, Molière, Wagner, Ben Jonson, Spenser, Lope de Vega, Goethe, un catalogo enorme e molto accurato. Questo tipo di editoria accurata è stato poi ripreso dagli altri grandi editori italiani, fino a diventare un modello di riferimento.

Nella mia ingenuità, ancora nel 1988, io pensavo che un lavoro simile sarebbe stato fatto anche per i film: ma non è andata così. Ricordo ancora la mia prima visita a un negozio di videocassette, dove i film si potevano anche noleggiare: i primi due titoli che stavo cercando erano "Il settimo sigillo" di Ingmar Bergman e "Rashomon" di Akira Kurosawa, ma il commesso (o forse il proprietario) non aveva la minima idea di cosa fossero, mai sentiti nominare. Così, ho sfogliato il catalogo e mi sono portato a casa "Ran", almeno quello c'era; ma dopo altri due o tre tentativi avevo lasciato perdere. Che io ricordi, con le vhs l'unica operazione editoriale veramente degna di questo nome fu fatta da Walter Veltroni quando era direttore de "L'Unità", con titoli molto ben scelti e spesso anche rari da trovare. Ho comperato pochissime vhs "ufficiali", rimanendo spesso deluso dalla loro qualità; di quelle poche ricordo ancora "Sacrificio" di Tarkovskij, conservata con tutte le attenzioni e quasi con devozione, ma ritrovata poi dopo pochi anni così sbiadita e inintellegibile che sono stato costretto a buttarla via. In compenso, le registrazioni casalinghe, anche con marche improbabili e con infinite riscritture, funzionavano benissimo anche dopo vent'anni; ed è un mistero che non sono ancora riuscito a decifrare. (La possibilità di scrivere su "Sacrificio", mai pubblicato su dvd, mi è stata data, a suo tempo, da Marisa Rainer e da suo figlio - "Tomobiki Märchenland" - , e li ringrazio ancora sentitamente: anche quella era una vhs registrata in casa).

Il dvd consentì di avere finalmente la qualità di immagini che con i nastri era preclusa in partenza; in più, c'era la possibilità di avere il sonoro originale, i sottotitoli per imparare le lingue, gli extra (interviste, spezzoni non montati, tante cose). Non tutti però ne approfittarono, molti dei dvd in commercio erano semplici riversamenti da vhs, meno accurati di quelli che avevamo fatto noi in casa. Un semplice cambio di supporto, cioè un'editoria di bassa lega e anche vagamente truffaldina. Oggi i videoregistratori non esistono più (non in commercio), anche trovare un lettore dvd sta diventando difficile, già sette anni fa il venditore di personal computer mi presentò come un vanto il fatto che nell'hardware non ci fosse il lettore cd/dvd. Oggi si va di smartphone e probabilmente chi ha meno di vent'anni non sa nemmeno che i film andrebbero visti su uno schermo grande, e che già il televisore, anche il più grande, penalizza capolavori come quelli di Stanley Kubrick, di Bernardo Bertolucci, di John Ford, pensati per il cinema.
Oggi guardo cosa succede, per esempio su Raiplay o su Youtube, e mi chiedo: ci sarà ancora spazio per un'editoria seria, come la Sansoniana di cent'anni fa? Così a occhio direi di no, il pubblico ha gusti molto grossolani e i dirigenti dei canali televisivi e dell'editoria in genere non mi sembrano molto attenti alla qualità (mai fatto caso alla quantità di errori di stampa sui libri, per esempio?). In più, la presenza di molte reti come Netflix, o Disney, con le loro esclusive, costringe l'appassionato a fare molti abbonamenti, o magari a inseguire la continuazione di ciò che stava vedendo da una rete all'altra: cosa che non era mai successa prima, perché quando si andava al cinema, o si entrava in una libreria o in un negozio di video, si cercava il titolo e non l'editore o il possessore dei diritti. Servirebbe, e spero che ci si arrivi, un programma apposito che dica dove posso trovare il film o il documentario che mi manca, e magari pagare qualcosa ma senza essere costretto ad abbonarsi e senza essere perseguitato da richieste successive o da pubblicità. Come in libreria, insomma: prendo il titolo che mi interessa, pago, e torno a casa senza essere disturbato.

Qualche tempo fa ho potuto vedere, sulla Tsi (Tv Svizzera Italiana), un documentario su VHS e Betamax, scritto e diretto da Dimitri Kourtchine per Arte France nel 2017. Si poteva fare meglio, ma è comunque divertente e dà le informazioni giuste. Gran parte del documentario è dedicata ai collezionisti, cioè alle persone che ancora oggi conservano centinaia di videocassette; ed è una carrellata divertente e simpatica. Viene però indicato, con molto autocompiacimento, anche quello che è stato il vero limite delle videocassette, cioè l'aver puntato tutto su prodotti molto commerciali, o ritenuti tali, se non addirittura mediocri. Non a caso, il grande successo delle VHS nasce dai film pornografici, finalmente visibili anche in casa propria e nell'anonimato. L'industria delle VHS è stata quasi sempre in mano a ignoranti di bocca buona (da noi, l'eccezione più importante fu sotto la direzione di Veltroni all'Unità) e il documentario pullula di titoli pessimi, titoli da cinema di terza visione (come da noi erano i film di Pierino con Alvaro Vitali), e successi commerciali piuttosto grossolani, da Rambo agli horror più triviali, fino ai musical come Flashdance o Grease.
E' interessante il capitolo sui Paesi dell'Est, un vero percorso storico e non solo per il cinema. In particolare si parla della Polonia dove "L'interrogatorio" di Ryszard Bugajski con Krystina Janda (nell'immagine qui a fianco) fu proibito nel 1982 (otto anni dopo fu proiettato a Cannes, dove la protagonista vinse il premio come miglior attrice) e potè circolare solo in VHS, clandestinamente; e questo è un esempio "alto". Però poi il documentario prosegue, e mostra che i polacchi e i cechi in cassetta cercavano le cose più commerciali, e le classifiche di vendite e noleggio parlavano chiaro. Insomma, noi dell'Ovest eravamo qui a cercare Kieslowski, Wajda e Jiri Menzel, loro in Polonia e Cecoslovacchia cercavano i film più dozzinali americani, Chuck Norris, Rambo, Travolta, perfino Fantozzi e Celentano avevano un loro mercato. La stessa cosa, va detto, accadeva qui da noi in quel periodo con tv e radio private, la prevalenza della banalità e del dozzinale sulla qualità e sull'informazione corretta. E' una riflessione triste, soprattutto se si pensa a cosa è oggi la Rai (servizio pubblico, per la quale paghiamo un canone), e a cos'era prima degli anni '80. Oggi, la Rai per pubblicizzare Raiplay usa Fiorello e il festival di Sanremo, e le sue produzioni migliori sono quasi tutte disponibili solo su youtube, ed è un altro mistero del quale però conosco benissimo l'origine, nomi e cognomi compresi.

 
« ...Wajda, Kieslowski, per esempio, da noi hanno sempre avuto un grande seguito di pubblico. Ma ormai non è più così: la gente ci ha lasciato. Ci eravamo illusi che fare cinema fosse una cosa molto importante: lo era per il regime, che ci ha dato una grande importanza proprio perseguitandoci e censurandoci, forse trasformandoci in qualcosa che non eravamo. Bastava fare un film coraggioso, e si parlava di noi in Comitato Centrale. Poi sono andata, siamo andati, ai festival occidentali: e anche lì siamo stati premiati e applauditi. Questo ci ha fatto pensare che i nostri film fossero conosciuti e popolari anche in Occidente. Poi, recentemente, sono stata a Parigi. E ho cercato, a Parigi, i film dell'Est: venivano una distribuzione talmente povera che rimanevano in cartellone sì e no tre giorni, e in sala a vederli c'erano tre persone. Così ho capito, all'improvviso, che abbiamo vissuto un'illusione: l'illusione di un rapporto col pubblico che non c'è e che forse non c'è mai stato.»
(Agnieszka Holland, da La Repubblica 11.10.1990)
La stessa cosa, viene da dire, è successa in Polonia con la fede cristiana e con il cattolicesimo, punto di forza negli anni '80 ai tempi di Solidarnosc e di papa Woytila. Oggi, trent'anni dopo, le chiese polacche sono più o meno come le nostre, semivuote; ma questa è tutta un'altra storia - o forse no.
 


 
(i fotogrammi vengono da "Il settimo sigillo" di Ingmar Bergman
e "Rashomon" di Akira Kurosawa; le immagini pubblicitarie
erano disponibili in rete senza indicazioni)