A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
“A ciascuno il suo” di Elio Petri è un film di cui è difficile parlare, perché la parte visiva, il ritmo del montaggio, le inquadrature, non sono cose che si possono raccontare. Rivedendolo oggi, mi è tornato alla mente Stanley Kubrick: per la precisione, “The killing”, che in Italia divenne “Rapina a mano armata”.
E’ un film che si guarda senza mai staccare l’attenzione, spettacolare fin dal suo inizio; ma che poi svela molti diversi livelli di lettura e molte cose inaspettate. Insomma, un film di Elio Petri ma anche un libro di Leonardo Sciascia: film e libro vanno di pari passo, e Petri è un maestro dell’immagine in movimento, come Kubrick e come Bertolucci.
Ho voluto intanto rileggere il libro di Sciascia, ed è raro trovare una corrispondenza così precisa fra libro e film, le pagine di Sciascia sono state veramente tradotte in immagini, ed è una cosa che capita raramente, non a questi livelli. Prima di parlare del rapporto fra il libro e il film, però, vorrei ripubblicare qui quello che ne avevo scritto in precedenza (per mia comodità, solo per questo).
Un farmacista siciliano, famoso per le sue avventure galanti, riceve una lettera anonima dove è minacciato di morte. Non è la prima, e la passa agli amici senza darle troppo peso: si sa, nei piccoli paesi di provincia ce n’é di tempo da perdere. E’ fatta con lettere ritagliate da un giornale: uno degli amici, il professor Laurana, ne stacca un pezzetto e guarda cosa c’è scritto dietro il ritaglio: c’è scritto “Unicuique suum”, “A ciascuno il suo”: è un ritaglio preso dall’Osservatore Romano...
E’ l’inizio del film, ed è anche il punto di partenza del romanzo di Leonardo Sciascia dal quale è tratto. Non mi fermo molto sul romanzo (agghiacciante ancora oggi, perché le cose non è che siano poi cambiate molto), ma preferisco parlare di Petri. Quando si parla del cinema italiano, si tende a dimenticarsi di Elio Petri. Una strana rimozione: la collana di nomi inizia con Fellini, Visconti, Antonioni, prosegue con Risi, Rosi, Comencini, Germi, Monicelli... e per Petri non c’è mai abbastanza tempo.
Rivedendo “A ciascuno il suo” sono rimasto ammirato dalla bravura e dall’originalità di Petri. Elio Petri è un intagliatore di diamanti: ogni faccia è diversa dall’altra, a volte in armonia a volte in contrasto, a volte perfettamente lucida altre volte opaca, grezza, magari rotta o sfregiata – come nel finale di questo amarissimo film – ma sempre perfetta e sempre consona al momento e alle circostanze.
E sono rimasto ammirato anche dagli attori: Volonté, Ferzetti, Irene Papas, Mario Scaccia e Luigi Pistilli, uno migliore dell’altro, e un magistrale, immenso, Salvo Randone - che appare in una sola scena ma lascia il segno, come sempre.
(da un blog precedente, anno 2004)
Nei film di Elio Petri Salvo Randone è il centro del film, il colonnello Kurtz. Tutto ruota intorno a lui, lui sembra sempre sapere tutto, eppure è folle (La classe operaia) o cieco, come in questo film. Randone è un altro spreco del cinema italiano, che pure ha regalato soldi e fama ad attori molto meno dotati, come Sordi e Verdone. Qui c’è anche Leopoldo Trieste, in un’apparizione breve e densa (il deputato del PCI).
Alla fine del colloquio tra Volonté e la Papas c’è l’inquadratura di una farfalla notturna sullo stipite; quando, verso la fine, l’avvocato Rosello (Ferzetti) invita fuori Laurana (Volonté) dicendogli che “ci sono là fuori due ragazze libere”, e poi nell’uscire dal club urta una sedia e la allontana con un calcio; in macchina spinge furiosamente la leva del cambio mentre parla con calma (calma apparente, quindi). Ancora: in piazza, Rosello fuma una sigaretta mentre Laurana mangia un cono gelato.
Un film grandissimo, con interpreti perfetti: la Papas, Ferzetti, Volonté, Scaccia... L’accoppiata Petri-Sciascia dà grandi risultati, il film è ancora attualissimo e surclassa, in tutto, molti dei film americani che vengono ritenuti leggendari da critici poco avveduti (magari “leggendario” solo perché c’è Bogart...)
(mio appunto, agosto 1990)
Una cosa di cui mi dimentico sempre è l’origine della frase che dà il titolo al film, “Unicuique suum”. Da dove viene di preciso? Io pensavo che fosse un passo del Vangelo, ma non è così.
da http://www.wikipedia.it/ :
La locuzione latina unicuique suum è la rielaborazione del suum cuique tribuere (in italiano: dare a ciascuno il suo), uno fra i principali precetti del diritto romano. È riscontrabile in Ulpiano, in un frammento della sua opera conservatoci attraverso i Digesta giustinianei. In italiano deve essere tradotto come "a ciascuno il suo", ovvero a ciascuno sia dato quanto gli è dovuto. Questa locuzione è uno dei due motti che aprono la prima pagina dell'Osservatore Romano. L'altro è non praevalebunt.
Wikipedia aggiunge che “a ciascuno il suo” è anche il motto della 15a Compagnia Paracadutisti "Diavoli Neri" dell'Esercito Italiano, e che “Questa stessa locuzione, tradotta in tedesco Jedem das Seine, si trovava all'ingresso del campo di concentramento e di sterminio nazista di Buchenwald in Germania”
Il film comincia come una semplice “storia di corna”, con una vittima innocente; si scoprirà presto che la realtà non è così semplice. Come sempre in Sciascia, e anche nei film di Elio Petri, la storia raccontata è solo un primo livello, su ciò che si vede e su ciò che viene detto la memoria ci costringe a ritornare, spesso quello che abbiamo visto e toccato con mano è solo l’apparenza delle cose – ma è difficile rendersene conto. E forse il senso del film è in questa frase: «...qualcuno che sa tutto e dice le cose un poco per volta», al minuto 60 circa, Volontè sul treno con la Papas.
Per conto suo, Sciascia inizia il romanzo con una citazione molto significativa:
«Ma non crediate che io stia per svelare un mistero o per scrivere un romanzo.»
Edgar Allan Poe, I delitti di rue Morgue.
(dal romanzo “A ciascuno il suo”, citazione iniziale di Sciascia)
(continua)
domenica 22 luglio 2012
sabato 21 luglio 2012
A ciascuno il suo ( II )
A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
L’inizio del film somiglia molto a quello scelto da Laurence Olivier per il suo “Henry V”: al termine della panoramica (l’ombra dell’elicottero lasciata ben visibile) non si finisce però in un teatro, ma nella realtà. Ma forse anche questa è solo apparenza, siamo sempre su un palcoscenico, all the world is a stage, tutto il mondo è un palcoscenico...
Jaques: All the world's a stage,
and all men and women merely players.
They have their exits and their entrances,
and one man in his time plays many parts,
his act being seven ages.
(Wlilliam Shakespeare, As you like, atto 2 scena 7 )
A pensarci bene, anche la Sicilia di “A ciascuno il suo” è solo uno sfondo, un depistaggio; non è che ci sia molto che leghi quello che accade alla mafia, per esempio. Forse oggi questo aspetto è più visibile di quando uscì il film: sono passati quarant’anni, mafia e ‘ndrangheta comandano anche a Como e a Varese, e perfino in Germania. Si sono fatti meno rozzi, i figli e i nipoti dei mafiosi hanno studiato: i “vecchi” sono tutti come il personaggio di Gabriele Ferzetti, i “giovani” vanno in giro col tablet e con l’ipod, viaggiano sulla TAV, sono stati a Londra, a Parigi, a New York, in Cina, dappertutto. Alcuni sono perfino deputati europei.
Ma tutto questo nel 1967, quando uscì il film, doveva ancora succedere; in quegli anni, dire Sicilia e pensare alla mafia era del tutto ovvio e scontato, un po’ come dire tedesco e pensare ai nazisti. Curiosando su Google ho perfino scoperto che in alcune locandine del film c’è scritto “Cosa nostra – A ciascuno il suo”, e forse all’epoca sembrava scontato, ma – a guardar bene - la mafia non è affatto la protagonista, né del libro né del film. C’è piuttosto qualcos’altro, un sentimento di estraneità, forse questo:
Poi con calcolata malignità sospirò
- Quel povero dottore Roscio, in quale famiglia era andato ad infilarsi!
- Ma non mi pare... - cominciò Laurana.
- Ci conosciamo tutti, mi creda - lo interruppe la Manno. - Lei, si sa, è un uomo che si occupa soltanto dei suoi studi, dei suoi libri... - quasi con disprezzo. - Non ha tempo per occuparsi di certe cose, per vedere certe cose: ma noi - si rivolse per intesa alla vecchia signora Laurana - noi sappiamo...
- Si, sappiamo, - ammise la vecchia.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Da questo punto di vista, è emblematico il finale, identico sia nel libro che nel film:
«Laurana? Era un CRETINO!»
Cretini sono tutti quelli che non somigliano a loro, che hanno studiato ma perché gli piaceva studiare, che non fanno professioni “utili” (il geometra capocantiere, per esempio, l’ingegnere addetto a strade e ponti), che perdono le giornate a leggere libri, a informarsi. Questa mentalità esiste da sempre anche in Lombardia, ed è stata descritta benissimo da Lucio Mastronardi (Il maestro di Vigevano).
«Sì, questa è una bella piazza, ma i vigevanesi la torre del Bramante neanche la guardano, pensano solo alle scarpe. A Vigevano chi non fa scarpe è considerato un inetto, un uomo superfluo, che non è utile alla famiglia né alla città». (Lucio Mastronardi, da un’intervista degli anni ’60)
La descrizione del protagonista, il professor Laurana (Gian Maria Volontè) è all’inizio del capitolo V.
Paolo Laurana, professore di italiano e storia nel liceo classico del capoluogo, era considerato dagli studenti un tipo curioso ma bravo e dai padri degli studenti un tipo bravo ma curioso. Il termine curioso, nel giudizio dei figli e in quello dei padri, voleva indicare una stranezza che non arrivava alla bizzarria: opaca, greve, quasi mortificata. Questa sua stranezza, comunque, rendeva ai ragazzi piú leggero il peso della sua bravura; mentre impediva ai padri di trovare in lui il verso giusto per piegarlo non alla clemenza ma alla giustizia (poiché, inutile dirlo, ragazzi che meritino una bocciatura non ce ne sono piú). Era gentile fino alla timidezza, fino alla balbuzie; quando gli facevano una raccomandazione pareva dovesse farne gran conto. Ma ormai si sapeva che la sua gentilezza nascondeva dura decisione, irremovibile giudizio; e che le raccomandazioni gli entravano da un orecchio per subito uscire dall'altro. Per tutto l'anno scolastico la sua vita si svolgeva tra il capoluogo e il paese: partiva con la corriera delle sette, rientrava con quella delle due. Nel pomeriggio si dedicava alla lettura, allo studio; passava la sera al circolo o in farmacia; rincasava verso le otto. Non faceva lezioni private, nemmeno nell'estate, stagione in cui preferiva impegnarsi nei suoi lavori di critica letteraria che poi pubblicava in riviste che nessuno in paese leggeva.
Un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità; con scompensi e risentimenti che si conosceva e condannava; non privo di quella coscienza di sé, segreta presunzione e vanità, che gli veniva dall'ambiente della scuola in cui, per preparazione ed umanità, si sentiva ed era tanto diverso dai colleghi, e dall'isolamento in cui, come uomo, per cosí dire, di cultura, veniva a trovarsi.
In politica, era da tutti considerato un comunista: ma non lo era. Per la sua vita privata era considerato una vittima dell'affetto esclusivo e geloso della madre: ed era vero. A quasi quarant'anni ancora dentro di sé andava svolgendo vicende di desiderio e d'amore con alunne e colleghe che non se ne accorgevano o se ne accorgevano appena: e bastava che una ragazza o una collega mostrasse di rispondere al suo vagheggiamento perché subito si gelasse. Il pensiero della madre, di quel che avrebbe detto, del giudizio che avrebbe dato sulla donna da lui scelta, della eventuale convivenza delle due donne, della possibile decisione di una delle due di non fare vita in comune, sempre interveniva a spegnere le effimere passioni, ad allontanare le donne che ne erano state oggetto come dopo una triste esperienza consumata e quindi con un senso di sollievo, di liberazione. Forse ad occhi chiusi avrebbe sposato la donna che sua madre gli avesse portato; ma per sua madre lui, ancora cosí ingenuo, cosí sprovveduto, cosí scoperto alla malizia del mondo e dei tempi, non era in età di fare un passo tanto pericoloso.
Con questo carattere, e nella condizione in cui viveva, non aveva amici. Molte conoscenze, ma nessuna amicizia. Col dottor Roscio, per esempio, aveva fatto il ginnasio, il liceo: ma non si può dire che fossero stati poi amici, quando si erano ritrovati in paese dopo gli anni dell'università. (...)
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Eccolo lì, comunque, quest'uomo riflessivo, timido, forse anche non coraggioso, a giuocare la sua pericolosa carta: al circolo, di sera, proprio quando non manca quasi nessuno. Si parla, come ogni sera, del delitto. E Laurana, di solito silenzioso, dice
- La lettera era composta con parole ritagliate dall'« Osservatore romano ».
La discussione si spegne, succede un silenzio stupefatto.
- Senti senti - fa poi don Luigi Corvaia: e la sua meraviglia non è per l'indizio rivelato ma per la dabbenaggine di chi, rivelandolo, viene ad offrirsi al tiro dell'una e dell'altra parte, della polizia e degli assassini. Mai vista una cosa simile.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
(continua)
L’inizio del film somiglia molto a quello scelto da Laurence Olivier per il suo “Henry V”: al termine della panoramica (l’ombra dell’elicottero lasciata ben visibile) non si finisce però in un teatro, ma nella realtà. Ma forse anche questa è solo apparenza, siamo sempre su un palcoscenico, all the world is a stage, tutto il mondo è un palcoscenico...
Jaques: All the world's a stage,
and all men and women merely players.
They have their exits and their entrances,
and one man in his time plays many parts,
his act being seven ages.
(Wlilliam Shakespeare, As you like, atto 2 scena 7 )
A pensarci bene, anche la Sicilia di “A ciascuno il suo” è solo uno sfondo, un depistaggio; non è che ci sia molto che leghi quello che accade alla mafia, per esempio. Forse oggi questo aspetto è più visibile di quando uscì il film: sono passati quarant’anni, mafia e ‘ndrangheta comandano anche a Como e a Varese, e perfino in Germania. Si sono fatti meno rozzi, i figli e i nipoti dei mafiosi hanno studiato: i “vecchi” sono tutti come il personaggio di Gabriele Ferzetti, i “giovani” vanno in giro col tablet e con l’ipod, viaggiano sulla TAV, sono stati a Londra, a Parigi, a New York, in Cina, dappertutto. Alcuni sono perfino deputati europei.
Ma tutto questo nel 1967, quando uscì il film, doveva ancora succedere; in quegli anni, dire Sicilia e pensare alla mafia era del tutto ovvio e scontato, un po’ come dire tedesco e pensare ai nazisti. Curiosando su Google ho perfino scoperto che in alcune locandine del film c’è scritto “Cosa nostra – A ciascuno il suo”, e forse all’epoca sembrava scontato, ma – a guardar bene - la mafia non è affatto la protagonista, né del libro né del film. C’è piuttosto qualcos’altro, un sentimento di estraneità, forse questo:
Poi con calcolata malignità sospirò
- Quel povero dottore Roscio, in quale famiglia era andato ad infilarsi!
- Ma non mi pare... - cominciò Laurana.
- Ci conosciamo tutti, mi creda - lo interruppe la Manno. - Lei, si sa, è un uomo che si occupa soltanto dei suoi studi, dei suoi libri... - quasi con disprezzo. - Non ha tempo per occuparsi di certe cose, per vedere certe cose: ma noi - si rivolse per intesa alla vecchia signora Laurana - noi sappiamo...
- Si, sappiamo, - ammise la vecchia.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Da questo punto di vista, è emblematico il finale, identico sia nel libro che nel film:
«Laurana? Era un CRETINO!»
Cretini sono tutti quelli che non somigliano a loro, che hanno studiato ma perché gli piaceva studiare, che non fanno professioni “utili” (il geometra capocantiere, per esempio, l’ingegnere addetto a strade e ponti), che perdono le giornate a leggere libri, a informarsi. Questa mentalità esiste da sempre anche in Lombardia, ed è stata descritta benissimo da Lucio Mastronardi (Il maestro di Vigevano).
«Sì, questa è una bella piazza, ma i vigevanesi la torre del Bramante neanche la guardano, pensano solo alle scarpe. A Vigevano chi non fa scarpe è considerato un inetto, un uomo superfluo, che non è utile alla famiglia né alla città». (Lucio Mastronardi, da un’intervista degli anni ’60)
La descrizione del protagonista, il professor Laurana (Gian Maria Volontè) è all’inizio del capitolo V.
Paolo Laurana, professore di italiano e storia nel liceo classico del capoluogo, era considerato dagli studenti un tipo curioso ma bravo e dai padri degli studenti un tipo bravo ma curioso. Il termine curioso, nel giudizio dei figli e in quello dei padri, voleva indicare una stranezza che non arrivava alla bizzarria: opaca, greve, quasi mortificata. Questa sua stranezza, comunque, rendeva ai ragazzi piú leggero il peso della sua bravura; mentre impediva ai padri di trovare in lui il verso giusto per piegarlo non alla clemenza ma alla giustizia (poiché, inutile dirlo, ragazzi che meritino una bocciatura non ce ne sono piú). Era gentile fino alla timidezza, fino alla balbuzie; quando gli facevano una raccomandazione pareva dovesse farne gran conto. Ma ormai si sapeva che la sua gentilezza nascondeva dura decisione, irremovibile giudizio; e che le raccomandazioni gli entravano da un orecchio per subito uscire dall'altro. Per tutto l'anno scolastico la sua vita si svolgeva tra il capoluogo e il paese: partiva con la corriera delle sette, rientrava con quella delle due. Nel pomeriggio si dedicava alla lettura, allo studio; passava la sera al circolo o in farmacia; rincasava verso le otto. Non faceva lezioni private, nemmeno nell'estate, stagione in cui preferiva impegnarsi nei suoi lavori di critica letteraria che poi pubblicava in riviste che nessuno in paese leggeva.
Un uomo onesto, meticoloso, triste; non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità; con scompensi e risentimenti che si conosceva e condannava; non privo di quella coscienza di sé, segreta presunzione e vanità, che gli veniva dall'ambiente della scuola in cui, per preparazione ed umanità, si sentiva ed era tanto diverso dai colleghi, e dall'isolamento in cui, come uomo, per cosí dire, di cultura, veniva a trovarsi.
In politica, era da tutti considerato un comunista: ma non lo era. Per la sua vita privata era considerato una vittima dell'affetto esclusivo e geloso della madre: ed era vero. A quasi quarant'anni ancora dentro di sé andava svolgendo vicende di desiderio e d'amore con alunne e colleghe che non se ne accorgevano o se ne accorgevano appena: e bastava che una ragazza o una collega mostrasse di rispondere al suo vagheggiamento perché subito si gelasse. Il pensiero della madre, di quel che avrebbe detto, del giudizio che avrebbe dato sulla donna da lui scelta, della eventuale convivenza delle due donne, della possibile decisione di una delle due di non fare vita in comune, sempre interveniva a spegnere le effimere passioni, ad allontanare le donne che ne erano state oggetto come dopo una triste esperienza consumata e quindi con un senso di sollievo, di liberazione. Forse ad occhi chiusi avrebbe sposato la donna che sua madre gli avesse portato; ma per sua madre lui, ancora cosí ingenuo, cosí sprovveduto, cosí scoperto alla malizia del mondo e dei tempi, non era in età di fare un passo tanto pericoloso.
Con questo carattere, e nella condizione in cui viveva, non aveva amici. Molte conoscenze, ma nessuna amicizia. Col dottor Roscio, per esempio, aveva fatto il ginnasio, il liceo: ma non si può dire che fossero stati poi amici, quando si erano ritrovati in paese dopo gli anni dell'università. (...)
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Eccolo lì, comunque, quest'uomo riflessivo, timido, forse anche non coraggioso, a giuocare la sua pericolosa carta: al circolo, di sera, proprio quando non manca quasi nessuno. Si parla, come ogni sera, del delitto. E Laurana, di solito silenzioso, dice
- La lettera era composta con parole ritagliate dall'« Osservatore romano ».
La discussione si spegne, succede un silenzio stupefatto.
- Senti senti - fa poi don Luigi Corvaia: e la sua meraviglia non è per l'indizio rivelato ma per la dabbenaggine di chi, rivelandolo, viene ad offrirsi al tiro dell'una e dell'altra parte, della polizia e degli assassini. Mai vista una cosa simile.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
(continua)
A ciascuno il suo ( III )
A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
Il colloquio con il padre di Roscio (Salvo Randone), un oculista importante diventato cieco, è nel capitolo VIII. Nel libro si dice l’uomo ha 92 anni; Randone è perfetto nell’interpretazione ma è molto più giovane, poco oltre i sessanta.
- Certe cose, certi fatti, è meglio lasciarli nell’oscurità in cui stanno...Proverbio, regola: il morto è morto, diamo aiuto al vivo. Se lei dice questo proverbio a uno del Nord, gli fa immaginare la scena di un incidente in cui c'è un morto e c'è un ferito: ed è ragionevole lasciare lì il morto e preoccuparsi di salvare il ferito. Un siciliano vede invece il morto ammazzato e l'assassino: e il vivo da aiutare è appunto l'assassino. Che cosa è poi un morto, per un siciliano, forse l'ha capito quel Lawrence che ha contribuito a cacciare l'eros nel cul di sacco: un morto è una ridicola anima del purgatorio, un piccolo verme dai tratti umani che saltella su mattoni roventi... Ma si capisce che quando il morto è del nostro sangue, bisogna far di tutto perché il vivo, cioè l'assassino, vada presto a raggiungerlo tra le fiamme del purgatorio... Io non sono siciliano fino a questo punto: non ho mai avuto inclinazione ad aiutare i vivi, cioè gli assassini, e ho sempre pensato che le carceri siano un piú concreto purgatorio... Ma c'è qualcosa, nella fine di mio figlio, che mi fa pensare ai vivi, che mi dà una certa preoccupazione per i vivi...
- I vivi che sono gli assassini?
- No, non a quei vivi che direttamente, materialmente l'hanno ucciso. Ai vivi che l'hanno disamorato, che l'hanno portato a vedere certe cose della vita, a farne certe altre... Ad un'età come la mia, uno che ha la ventura di arrivarci è disposto a credere che la morte è un atto di volontà; un piccolo atto di volontà, nel mio caso: a un certo punto sarò stufo di sentire la voce di costui - indicò il giradischi - e il rumore della città, la cameriera che da sei mesi canta di una lacrima sul viso e mia nuora che da dieci anni, ogni mattina, si informa della mia salute con la speranza appena velata di apprendere che sono finalmente all'amen: e deciderò di morire, cosí come uno chiude il telefono quando dall'altra parte c'è un seccatore o un cretino... Ma voglio dire questo: che ci può essere in un uomo una esperienza, una pena, un pensiero, uno stato d'animo per cui la morte, infine, è soltanto un formalità. E allora, se responsabili ci sono, bisogna cercarli tra i piú vicini: e nel caso di mio figlio si potrebbe cominciare da me, ché un padre è sempre colpevole, sempre -. Gli occhi spenti sembravano perdersi nella lontananza del passato, dei ricordi. - Come vede, sono anch'io uno dei vivi che bisogna aiutare.
Laurana sospettò ci fosse nel discorso una specie di doppio fondo; o soltanto un'oscura, dolorosa intuizione. Domandò - Lei sta pensando a qualcosa di preciso?
- Oh no, niente di preciso. Penso ai vivi, gliel'ho detto. E lei?
- Non so - disse Laurana.
Cadde tra loro il silenzio. Laurana si alzò per congedarsi. Il vecchio gli porse la mano, disse - È un problema - e forse si riferiva al delitto, forse alla vita.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo VIII)
Un’immagine barocca e preziosa, da grande osservatore, è nel capitolo XII:
Per quel che ne sapeva, l'uomo che fumava sigari Branca poteva essere un sicario come poteva essere un professore unìversitario di Dallas venuto a nutrirsi al petto, copioso di dottrina, dell'onorevole Abello. Soltanto l'istinto, in lui come in ogni siciliano affinato da un lungo ordine di esperienze, di paure, lo avvertiva del pericolo: così come il cane sente nella traccia del porcospino, prima ancora di avvistarlo, lo strazio degli aculei; e lamentosamente guaisce.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
Il successivo colloquio di Laurana con Rosello (Ferzetti) è nel capitolo XII:
- Voglio dire: poiché l'onorevole sta piú a sinistra dei cinesi...
- Ecco come siete, voi comunisti: di una frase fate una corda, e ci impiccate un uomo... Io ho detto cosí per dire, che sta a sinistra dei cinesi... Se ti fa piacere, posso anche dirti che sta a destra di Franco... E un uomo straordinario, che ha idee talmente grandi che queste miserie di destra e di sinistra, te l'ho detto già, per lui non hanno senso... Ma scusami, ne parleremo un'altra volta: ho da fare, debbo tornare a casa -. Se ne andò un po' intorbidato in faccia, senza salutare.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
Nel finale, Petri rende perfettamente il momento dell’attesa, quello in cui, al bar, Laurana attende il momento dell’appuntamento con la donna che lo porterà alla sua fine. E’ nel libro di Sciascia anche la battuta greve all’inizio della scena, quella sull’animale "che tiene il becco sottoterra".
Passeggiò con furore tra la porta e il banco.
- Ha qualche preoccupazione? - domandò il barone interrompendo la lettura.
- No: è che sono qui da due ore.
- Noi siamo qui da anni - disse il barone chiudendo il libro e restituendoglielo.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XVI)
(continua)
Il colloquio con il padre di Roscio (Salvo Randone), un oculista importante diventato cieco, è nel capitolo VIII. Nel libro si dice l’uomo ha 92 anni; Randone è perfetto nell’interpretazione ma è molto più giovane, poco oltre i sessanta.
- Certe cose, certi fatti, è meglio lasciarli nell’oscurità in cui stanno...Proverbio, regola: il morto è morto, diamo aiuto al vivo. Se lei dice questo proverbio a uno del Nord, gli fa immaginare la scena di un incidente in cui c'è un morto e c'è un ferito: ed è ragionevole lasciare lì il morto e preoccuparsi di salvare il ferito. Un siciliano vede invece il morto ammazzato e l'assassino: e il vivo da aiutare è appunto l'assassino. Che cosa è poi un morto, per un siciliano, forse l'ha capito quel Lawrence che ha contribuito a cacciare l'eros nel cul di sacco: un morto è una ridicola anima del purgatorio, un piccolo verme dai tratti umani che saltella su mattoni roventi... Ma si capisce che quando il morto è del nostro sangue, bisogna far di tutto perché il vivo, cioè l'assassino, vada presto a raggiungerlo tra le fiamme del purgatorio... Io non sono siciliano fino a questo punto: non ho mai avuto inclinazione ad aiutare i vivi, cioè gli assassini, e ho sempre pensato che le carceri siano un piú concreto purgatorio... Ma c'è qualcosa, nella fine di mio figlio, che mi fa pensare ai vivi, che mi dà una certa preoccupazione per i vivi...
- I vivi che sono gli assassini?
- No, non a quei vivi che direttamente, materialmente l'hanno ucciso. Ai vivi che l'hanno disamorato, che l'hanno portato a vedere certe cose della vita, a farne certe altre... Ad un'età come la mia, uno che ha la ventura di arrivarci è disposto a credere che la morte è un atto di volontà; un piccolo atto di volontà, nel mio caso: a un certo punto sarò stufo di sentire la voce di costui - indicò il giradischi - e il rumore della città, la cameriera che da sei mesi canta di una lacrima sul viso e mia nuora che da dieci anni, ogni mattina, si informa della mia salute con la speranza appena velata di apprendere che sono finalmente all'amen: e deciderò di morire, cosí come uno chiude il telefono quando dall'altra parte c'è un seccatore o un cretino... Ma voglio dire questo: che ci può essere in un uomo una esperienza, una pena, un pensiero, uno stato d'animo per cui la morte, infine, è soltanto un formalità. E allora, se responsabili ci sono, bisogna cercarli tra i piú vicini: e nel caso di mio figlio si potrebbe cominciare da me, ché un padre è sempre colpevole, sempre -. Gli occhi spenti sembravano perdersi nella lontananza del passato, dei ricordi. - Come vede, sono anch'io uno dei vivi che bisogna aiutare.
Laurana sospettò ci fosse nel discorso una specie di doppio fondo; o soltanto un'oscura, dolorosa intuizione. Domandò - Lei sta pensando a qualcosa di preciso?
- Oh no, niente di preciso. Penso ai vivi, gliel'ho detto. E lei?
- Non so - disse Laurana.
Cadde tra loro il silenzio. Laurana si alzò per congedarsi. Il vecchio gli porse la mano, disse - È un problema - e forse si riferiva al delitto, forse alla vita.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo VIII)
Un’immagine barocca e preziosa, da grande osservatore, è nel capitolo XII:
Per quel che ne sapeva, l'uomo che fumava sigari Branca poteva essere un sicario come poteva essere un professore unìversitario di Dallas venuto a nutrirsi al petto, copioso di dottrina, dell'onorevole Abello. Soltanto l'istinto, in lui come in ogni siciliano affinato da un lungo ordine di esperienze, di paure, lo avvertiva del pericolo: così come il cane sente nella traccia del porcospino, prima ancora di avvistarlo, lo strazio degli aculei; e lamentosamente guaisce.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
Il successivo colloquio di Laurana con Rosello (Ferzetti) è nel capitolo XII:
- Voglio dire: poiché l'onorevole sta piú a sinistra dei cinesi...
- Ecco come siete, voi comunisti: di una frase fate una corda, e ci impiccate un uomo... Io ho detto cosí per dire, che sta a sinistra dei cinesi... Se ti fa piacere, posso anche dirti che sta a destra di Franco... E un uomo straordinario, che ha idee talmente grandi che queste miserie di destra e di sinistra, te l'ho detto già, per lui non hanno senso... Ma scusami, ne parleremo un'altra volta: ho da fare, debbo tornare a casa -. Se ne andò un po' intorbidato in faccia, senza salutare.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
Nel finale, Petri rende perfettamente il momento dell’attesa, quello in cui, al bar, Laurana attende il momento dell’appuntamento con la donna che lo porterà alla sua fine. E’ nel libro di Sciascia anche la battuta greve all’inizio della scena, quella sull’animale "che tiene il becco sottoterra".
Passeggiò con furore tra la porta e il banco.
- Ha qualche preoccupazione? - domandò il barone interrompendo la lettura.
- No: è che sono qui da due ore.
- Noi siamo qui da anni - disse il barone chiudendo il libro e restituendoglielo.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XVI)
(continua)
A ciascuno il suo ( IV )
A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
Un altro personaggio notevole nel libro, e che nel film ha uno spazio più ridotto (ed è un peccato perché lo interpreta un grande attore come Mario Scaccia, perfetto per la parte) è il parroco. A questo personaggio spetta anche una delle battute più famose e citate di Sciascia, che arriva nel finale del capitolo III.
(...) Il parroco era piuttosto noto come acuto e rapace conoscitore di cose d'arte, e si sapeva che manteneva costante commercio, e proficuo, con qualche antiquario di Palermo. Infatti, mostrando da ogni parte il san Rocco - L'ho già fatto vedere, mi offrono trecentomila lire: ma per ora me lo voglio godere un po', c'è sempre tempo perché vada a finire in casa di qualche ladro del pubblico denaro... Che ne dice? Prima metà del Cinquecento, no?
- Direi di sì.
- E di questo parere anche il professor De Renzis: un'autorità per quanto riguarda la scultura siciliana del Quattro e Cinquecento... Solo che il suo parere - scoppiò a ridere - coincide sempre col mio: poiché io lo pago.
- Lei non crede in niente - disse il professore.
- Oh sì, in qualche cosa. Forse in troppe, per i tempi che corrono.
Era diffuso in paese l'aneddoto, forse vero, che mentre celebrava la messa, nell'atto di aprire il tabernacolo, la chiave gli si era inceppata nella serratura; e impazientemente armeggiando con la chiave al parroco era sfuggita l'imprecazione - E che diavolo c'è? - voleva dire nella serratura.
Il fatto è che aveva sempre fretta nelle cose di chiesa, era sempre in giro a trafficare, a intrallazzare.
- Ma, mi scusi, io non capisco... - cominciò il professore.
- Perché mi tenga addosso questa veste?... Le dirò che non me la sono messa addosso di mia volontà. Ma forse lei conosce la storia: un mio zio prete, parroco di questa stessa chiesa, usuraio, ricco, mi lasciò tutto il suo: a patto che diventassi prete. Io avevo tre anni, quando lui morì. A dieci, quando entrai in seminario, mi sentivo un san Luigi; a ventidue, quando ne uscii, un'incarnazione di Satana. Avrei voluto piantare tutto: ma c'era l'eredità, c'era mia madre. Oggi non tengo più a quello che ho ereditato, mia madre è morta; potrei andarmene...
- Ma c'è il Concordato.
- Nel mio caso, col testamento di mio zio alla mano, il Concordato non mi colpirebbe: mi sono fatto prete per costrizione, e dunque mi lascerebbero andare senza menomare i miei diritti civili. Ma il fatto è che in questa veste ormai ci sto comodo; e tra la comodità e il dispetto ho raggiunto un equilibrio, una perfezione, una pienezza di vita...
- Ma non rischia di passare qualche guaio?
- No, assolutamente. Se si attentano a toccarmi, gli pianto uno scandalo tale che persino gli inviati della « Pravda » verranno a bivaccare qui almeno per un mese. Ma che dico, uno scandalo? Una serie, un fuoco d'artificio di scandali...
Cosí piacevolmente intrattenuto, il professor Laurana lasciò la canonica che era quasi mezzanotte. Ne usciva pieno di simpatia per il parroco di sant'Anna. « Ma la Sicilia, forse l'Italia intera - si disse - è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa ».
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo III)
Sempre nel capitolo V, Sciascia non risparmia una pesante ironia anche al povero Manno, il farmacista ucciso insieme a Roscio nella battuta di caccia iniziale:
Al farmacista la morte aveva conferito invece quella dignità e gravità del pensiero che da vivo nessuno gli aveva mai sorpreso. Tant'è che ha le sue ironie anche la morte.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Il personaggio della giovanissima amante di Manno, una minorenne (l’attrice si chiama Luciana Scalise) nel film non ha grande spazio, ma è così descritto da Sciascia nel capitolo III:
Attraverso un mucchio di ricette e la testimonianza del medico che le aveva scritte, il commissario si convinse che l'andare e venire della ragazza dalla farmacia si doveva quasi definitivamente attribuire a una meningite che aveva colpito un suo fratello, di undici anni, che ancora ne portava i segni: un'aria inebetita e spaventata, vuoti di memoria e difficoltà ad esprimersi. Poiché il padre andava in campagna a lavorare e la madre di casa non usciva, il compito di andare a fare le ricette e di domandare chiarímenti al medico curante era rimasto a lei, che tra l'altro era la piú vivace e istruita della famiglia. Naturalmente furono interrogati anche il padre e l'ex fidanzato: ma cosí, tanto per esaurire quel ramo di indagine. Convinto il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero, 7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo III)
Ascoltando la voce del parroco, e tenendo conto che Scaccia era romano e romanesco, mi è venuto un dubbio: la voce è sua o del siciliano Francesco Mulè? La pratica del doppiaggio, nel 1967, era ancora molto diffusa anche per attori famosi e importanti, che non erano sempre disponibili al momento giusto. Le due voci in effetti hanno un timbro simile, ma va detto che Scaccia sapeva bene come modulare la sua voce. (Per chi non se lo ricorda, Mulè era un caratterista comico molto presente nel cinema e nella tv di quegli anni, ed era anche la voce italiana dell’orso Yoghi: negli anni ’60 era un volto ben conosciuto).
Da non sottovalutare il personaggio di Raganà, che nel film di Petri (come nel libro) passa quasi senza essere visto, ma che nel finale ha un’inquadratura da vero protagonista. Del resto, se la merita; Raganà è davvero un protagonista, non solo nel libro ma anche in tutta la nostra storia recente.
- E chi glielo fa fare, di andare a sbattere in Raganà? - di nuovo scoppiò a ridere, poi spiegò - Domanda dettata dalla prudenza, non dalla paura... Comunque, le ho già risposto.
- Si chiama Raganà ed è un delinquente.
- Esatto: uno di quei delinquenti incensurati, rispettati, intoccabili.
- Lei crede che sia ancora oggi intoccabile?
- Non lo so, probabilmente arriveranno a toccare anche lui... Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un cosí felice paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
(continua)
Un altro personaggio notevole nel libro, e che nel film ha uno spazio più ridotto (ed è un peccato perché lo interpreta un grande attore come Mario Scaccia, perfetto per la parte) è il parroco. A questo personaggio spetta anche una delle battute più famose e citate di Sciascia, che arriva nel finale del capitolo III.
(...) Il parroco era piuttosto noto come acuto e rapace conoscitore di cose d'arte, e si sapeva che manteneva costante commercio, e proficuo, con qualche antiquario di Palermo. Infatti, mostrando da ogni parte il san Rocco - L'ho già fatto vedere, mi offrono trecentomila lire: ma per ora me lo voglio godere un po', c'è sempre tempo perché vada a finire in casa di qualche ladro del pubblico denaro... Che ne dice? Prima metà del Cinquecento, no?
- Direi di sì.
- E di questo parere anche il professor De Renzis: un'autorità per quanto riguarda la scultura siciliana del Quattro e Cinquecento... Solo che il suo parere - scoppiò a ridere - coincide sempre col mio: poiché io lo pago.
- Lei non crede in niente - disse il professore.
- Oh sì, in qualche cosa. Forse in troppe, per i tempi che corrono.
Era diffuso in paese l'aneddoto, forse vero, che mentre celebrava la messa, nell'atto di aprire il tabernacolo, la chiave gli si era inceppata nella serratura; e impazientemente armeggiando con la chiave al parroco era sfuggita l'imprecazione - E che diavolo c'è? - voleva dire nella serratura.
Il fatto è che aveva sempre fretta nelle cose di chiesa, era sempre in giro a trafficare, a intrallazzare.
- Ma, mi scusi, io non capisco... - cominciò il professore.
- Perché mi tenga addosso questa veste?... Le dirò che non me la sono messa addosso di mia volontà. Ma forse lei conosce la storia: un mio zio prete, parroco di questa stessa chiesa, usuraio, ricco, mi lasciò tutto il suo: a patto che diventassi prete. Io avevo tre anni, quando lui morì. A dieci, quando entrai in seminario, mi sentivo un san Luigi; a ventidue, quando ne uscii, un'incarnazione di Satana. Avrei voluto piantare tutto: ma c'era l'eredità, c'era mia madre. Oggi non tengo più a quello che ho ereditato, mia madre è morta; potrei andarmene...
- Ma c'è il Concordato.
- Nel mio caso, col testamento di mio zio alla mano, il Concordato non mi colpirebbe: mi sono fatto prete per costrizione, e dunque mi lascerebbero andare senza menomare i miei diritti civili. Ma il fatto è che in questa veste ormai ci sto comodo; e tra la comodità e il dispetto ho raggiunto un equilibrio, una perfezione, una pienezza di vita...
- Ma non rischia di passare qualche guaio?
- No, assolutamente. Se si attentano a toccarmi, gli pianto uno scandalo tale che persino gli inviati della « Pravda » verranno a bivaccare qui almeno per un mese. Ma che dico, uno scandalo? Una serie, un fuoco d'artificio di scandali...
Cosí piacevolmente intrattenuto, il professor Laurana lasciò la canonica che era quasi mezzanotte. Ne usciva pieno di simpatia per il parroco di sant'Anna. « Ma la Sicilia, forse l'Italia intera - si disse - è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa ».
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo III)
Sempre nel capitolo V, Sciascia non risparmia una pesante ironia anche al povero Manno, il farmacista ucciso insieme a Roscio nella battuta di caccia iniziale:
Al farmacista la morte aveva conferito invece quella dignità e gravità del pensiero che da vivo nessuno gli aveva mai sorpreso. Tant'è che ha le sue ironie anche la morte.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo V)
Il personaggio della giovanissima amante di Manno, una minorenne (l’attrice si chiama Luciana Scalise) nel film non ha grande spazio, ma è così descritto da Sciascia nel capitolo III:
Attraverso un mucchio di ricette e la testimonianza del medico che le aveva scritte, il commissario si convinse che l'andare e venire della ragazza dalla farmacia si doveva quasi definitivamente attribuire a una meningite che aveva colpito un suo fratello, di undici anni, che ancora ne portava i segni: un'aria inebetita e spaventata, vuoti di memoria e difficoltà ad esprimersi. Poiché il padre andava in campagna a lavorare e la madre di casa non usciva, il compito di andare a fare le ricette e di domandare chiarímenti al medico curante era rimasto a lei, che tra l'altro era la piú vivace e istruita della famiglia. Naturalmente furono interrogati anche il padre e l'ex fidanzato: ma cosí, tanto per esaurire quel ramo di indagine. Convinto il commissario, alla ragazza restava da convincere un paese intero, 7500 abitanti, i suoi familiari inclusi. I quali, appena rilasciata dal commissario, ad ogni buon conto si avventarono su di lei e silenziosamente, tenacemente, accuratamente la picchiarono.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo III)
Ascoltando la voce del parroco, e tenendo conto che Scaccia era romano e romanesco, mi è venuto un dubbio: la voce è sua o del siciliano Francesco Mulè? La pratica del doppiaggio, nel 1967, era ancora molto diffusa anche per attori famosi e importanti, che non erano sempre disponibili al momento giusto. Le due voci in effetti hanno un timbro simile, ma va detto che Scaccia sapeva bene come modulare la sua voce. (Per chi non se lo ricorda, Mulè era un caratterista comico molto presente nel cinema e nella tv di quegli anni, ed era anche la voce italiana dell’orso Yoghi: negli anni ’60 era un volto ben conosciuto).
Da non sottovalutare il personaggio di Raganà, che nel film di Petri (come nel libro) passa quasi senza essere visto, ma che nel finale ha un’inquadratura da vero protagonista. Del resto, se la merita; Raganà è davvero un protagonista, non solo nel libro ma anche in tutta la nostra storia recente.
- E chi glielo fa fare, di andare a sbattere in Raganà? - di nuovo scoppiò a ridere, poi spiegò - Domanda dettata dalla prudenza, non dalla paura... Comunque, le ho già risposto.
- Si chiama Raganà ed è un delinquente.
- Esatto: uno di quei delinquenti incensurati, rispettati, intoccabili.
- Lei crede che sia ancora oggi intoccabile?
- Non lo so, probabilmente arriveranno a toccare anche lui... Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un cosí felice paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XII)
(continua)
venerdì 20 luglio 2012
A ciascuno il suo ( V )
A ciascuno il suo (1967) Regia di Elio Petri. Tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, Jean Curtelin. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musica: Luis Enrique Bacalov. Con Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Luigi Pistilli (il farmacista), Laura Nucci (madre di Laurana) Mario Scaccia (il prete), Leopoldo Trieste (il deputato PCI) Gianni Pallavicino (Raganà) Luciana Scalise (Rosina) Franco Tranchina (Roscio) Anna Rivero (moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (ispettore polizia) Carmelo Olivero (arciprete) Durata: 99 minuti.
Tra gli attori, spicca il nome di Luigi Pistilli: ottimo attore di lungo corso, in teatro e in tv e non solo al cinema. Pistilli (che qui interpreta il farmacista) negli anni ’60 ha girato numerosi film western, anche con Sergio Leone; forse è per questo che gli viene così bene la scena in cui viene ucciso. Suo compagno nella tragica scena della caccia è Franco Tranchina (Roscio).
Un altro nome importante è quello di Leopoldo Trieste, il deputato del PCI al quale si era rivolto Roscio prima di essere ammazzato; un altro attore molto presente nel cinema italiano, amico e collaboratore di Fellini (era nel gruppo dei Vitelloni). Di Mario Scaccia ho già parlato nella puntata precedente, anche lui un’ottima scelta.
Laura Nucci, la madre di Laurana, è molto più giovane della “donna anziana” che viene descritta nel libro; una piccola infedeltà a Sciascia, che però dà più spessore al personaggio.
Completano il cast Gianni Pallavicino (Raganà), Luciana Scalise (Rosina, la giovanissima amante del farmacista) Anna Rivero (la moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (l’ispettore polizia) e Carmelo Olivero (l’arciprete che dà l’Osservatore Romano a Laurana: nel libro ha più spazio). Tutti attori eccellenti e ben scelti, ma con Elio Petri l’alta qualità della recitazione è una cifra distintiva.
Irene Papas e Gabriele Ferzetti, oltre a Volonté e a Randone, fanno parte del gruppo dei più grandi attori di quegli anni, e li darei per scontati. Si può aggiungere che l’anno dopo Irene Papas sarebbe stata Penelope in tv, al fianco di Bekim Fehmiu: l’Odissea di Franco Rossi, uno degli sceneggiati più belli di tutta la storia della tv, un film vero, ancora oggi molto bello.
La sceneggiatura è di Elio Petri e Ugo Pirro, che faranno insieme “La classe operaia va in Paradiso”, insieme a Jean Curtelin. La fotografia, bellissima e quasi miracolosa, limpida, è di Luigi Kuveiller. La musica, molto appropriata, è di Luis Enrique Bacalov, e non ancora di Morricone, che avrebbe poi fatto tutti i film successivi di Elio Petri; ai funerali di Roscio e del farmacista, all’inizio, la musica viene dal Nabucco di Giuseppe Verdi: nell’opera è solamente una marcia solenne che accompagna il risveglio del protagonista (in carcere, momentaneamente accecato dal Signore), ma già dall’Ottocento le bande di paese presero a usarla come marcia funebre (in effetti, si presta molto bene).
Altre mie note sparse: 1) come in molti film di Bertolucci, un’esplicita citazione da “La regola del gioco” di Jean Renoir: la caccia e la violenza delle morti. 2) una piccola farfalla notturna al minuto 41, sullo stipite della porta dello studio quando Irene Papas e Volonté escono dalla studio dell’ucciso, che è sicuramente una comparsa involontaria ma che finisce col fare rima con l’insetticida Faust usato da Volonté quando riceve la visita del commissario (uno sponsor, forse, come le sigarette in bella vista per Mastroianni e Manfredi?) 3) la consegna del libro, del fascicolo (un quaderno) rimanda a “Porte aperte” di Gianni Amelio, sempre da un libro di Sciascia, dove c’è una scena simile, ma il contesto è diverso e Volontè è ormai anziano. 4) nel finale c’è un matrimonio, e non il funerale di Laurana come ricordavo io.
Il Patò citato nel finale da Sciascia è protagonista di una storia di una cronaca rimasta famosa, che è stata raccontata di recente anche in un libro di Camilleri, “La scomparsa di Patò”; ma questo dettaglio nel film non c’è, c’è comunque il “ditino da mordere” che è un’usanza che io ho visto solo in questo film, ma probabilmente si tratta di un modo di dire molto comune in Sicilia.
Il richiamo a Patò suscitò perciò l'ilarità di don Luigi e del notaro; ma subito si ricomposero, fecero una faccia seria, ignara, preoccupata; ed evitando lo sguardo di Zerillo domandarono
- E che c'entra Laurana?
- Poveri innocenti - vezzeggiò con ironia il commendatore - poveri innocenti che non sanno niente, che non capiscono niente... Tenete, mordete questo ditino, mordetelo - e accostò prima alla bocca del notaro e poi a quella di don Luigi il mignolo che usciva dal pugno chiuso, così come in tempi meno asettici dei nostri le mamme usavano fare coi bambini cui stavano per spuntare i denti.
Risero tutti e tre. Poi Zerillo disse - Ho saputo una cosa, una cosa che deve restare tra me e voi: mi raccomando... Riguarda il povero Laurana...
- Era un cretino - disse don Luigi.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, il finale)
Tra gli attori, spicca il nome di Luigi Pistilli: ottimo attore di lungo corso, in teatro e in tv e non solo al cinema. Pistilli (che qui interpreta il farmacista) negli anni ’60 ha girato numerosi film western, anche con Sergio Leone; forse è per questo che gli viene così bene la scena in cui viene ucciso. Suo compagno nella tragica scena della caccia è Franco Tranchina (Roscio).
Un altro nome importante è quello di Leopoldo Trieste, il deputato del PCI al quale si era rivolto Roscio prima di essere ammazzato; un altro attore molto presente nel cinema italiano, amico e collaboratore di Fellini (era nel gruppo dei Vitelloni). Di Mario Scaccia ho già parlato nella puntata precedente, anche lui un’ottima scelta.
Laura Nucci, la madre di Laurana, è molto più giovane della “donna anziana” che viene descritta nel libro; una piccola infedeltà a Sciascia, che però dà più spessore al personaggio.
Completano il cast Gianni Pallavicino (Raganà), Luciana Scalise (Rosina, la giovanissima amante del farmacista) Anna Rivero (la moglie del farmacista) Orio Cannarozzo (l’ispettore polizia) e Carmelo Olivero (l’arciprete che dà l’Osservatore Romano a Laurana: nel libro ha più spazio). Tutti attori eccellenti e ben scelti, ma con Elio Petri l’alta qualità della recitazione è una cifra distintiva.
Irene Papas e Gabriele Ferzetti, oltre a Volonté e a Randone, fanno parte del gruppo dei più grandi attori di quegli anni, e li darei per scontati. Si può aggiungere che l’anno dopo Irene Papas sarebbe stata Penelope in tv, al fianco di Bekim Fehmiu: l’Odissea di Franco Rossi, uno degli sceneggiati più belli di tutta la storia della tv, un film vero, ancora oggi molto bello.
La sceneggiatura è di Elio Petri e Ugo Pirro, che faranno insieme “La classe operaia va in Paradiso”, insieme a Jean Curtelin. La fotografia, bellissima e quasi miracolosa, limpida, è di Luigi Kuveiller. La musica, molto appropriata, è di Luis Enrique Bacalov, e non ancora di Morricone, che avrebbe poi fatto tutti i film successivi di Elio Petri; ai funerali di Roscio e del farmacista, all’inizio, la musica viene dal Nabucco di Giuseppe Verdi: nell’opera è solamente una marcia solenne che accompagna il risveglio del protagonista (in carcere, momentaneamente accecato dal Signore), ma già dall’Ottocento le bande di paese presero a usarla come marcia funebre (in effetti, si presta molto bene).
Altre mie note sparse: 1) come in molti film di Bertolucci, un’esplicita citazione da “La regola del gioco” di Jean Renoir: la caccia e la violenza delle morti. 2) una piccola farfalla notturna al minuto 41, sullo stipite della porta dello studio quando Irene Papas e Volonté escono dalla studio dell’ucciso, che è sicuramente una comparsa involontaria ma che finisce col fare rima con l’insetticida Faust usato da Volonté quando riceve la visita del commissario (uno sponsor, forse, come le sigarette in bella vista per Mastroianni e Manfredi?) 3) la consegna del libro, del fascicolo (un quaderno) rimanda a “Porte aperte” di Gianni Amelio, sempre da un libro di Sciascia, dove c’è una scena simile, ma il contesto è diverso e Volontè è ormai anziano. 4) nel finale c’è un matrimonio, e non il funerale di Laurana come ricordavo io.
Il Patò citato nel finale da Sciascia è protagonista di una storia di una cronaca rimasta famosa, che è stata raccontata di recente anche in un libro di Camilleri, “La scomparsa di Patò”; ma questo dettaglio nel film non c’è, c’è comunque il “ditino da mordere” che è un’usanza che io ho visto solo in questo film, ma probabilmente si tratta di un modo di dire molto comune in Sicilia.
Il richiamo a Patò suscitò perciò l'ilarità di don Luigi e del notaro; ma subito si ricomposero, fecero una faccia seria, ignara, preoccupata; ed evitando lo sguardo di Zerillo domandarono
- E che c'entra Laurana?
- Poveri innocenti - vezzeggiò con ironia il commendatore - poveri innocenti che non sanno niente, che non capiscono niente... Tenete, mordete questo ditino, mordetelo - e accostò prima alla bocca del notaro e poi a quella di don Luigi il mignolo che usciva dal pugno chiuso, così come in tempi meno asettici dei nostri le mamme usavano fare coi bambini cui stavano per spuntare i denti.
Risero tutti e tre. Poi Zerillo disse - Ho saputo una cosa, una cosa che deve restare tra me e voi: mi raccomando... Riguarda il povero Laurana...
- Era un cretino - disse don Luigi.
(Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, il finale)
Iscriviti a:
Post (Atom)