venerdì 12 novembre 2010

Fino alla fine del mondo ( I )

FINO ALLA FINE DEL MONDO (Bis ans Ende der Welt, 1991). regia di Wim Wenders. Soggetto di Wim Wenders e Solveig Dommartin. Sceneggiatura di Peter Carey e Wim Wenders. Fotografia: Robby Müller. Musica: pigmei del Camerun, aborigeni australiani della nazione Mbantua, Puccini (Madama Butterfly), Talking Heads, REM, U2, Laurent Petitgand, Lou Reed, Peter Gabriel, e altri. Con Solveig Dommartin, Sam Neill, William Hurt, Max von Sydow, Jeanne Moreau, David Gulpilil, Rüdiger Vogler, Chishu Ryu, Eddy Mitchell, Chick Ortega, Ernie Dingo. Durata prima edizione commerciale: 179 minuti. Durata originale: 287 minuti

Registrare i nostri sogni, e rivederli. E’ quello che succede a Solveig Dommartin, nell’ultima parte del film. Lo scienziato Max von Sydow ha inventato questo apparecchio, e adesso Solveig è persa dentro quest’immagine profonda di se stessa da bambina, un’immagine che non sapeva di aver mai sognato e che adesso può rivedere su un apparecchio molto simile ai nostri videofonini di oggi.
Quest’immagine la colpisce così profondamente che non riesce più a staccarsene, e la stessa cosa accade a William Hurt, che nel film interpreta il figlio di Max von Sydow.
E’ un momento davvero sconvolgente, so che tutti quelli che hanno visto il film, quando uscì, ne erano rimasti molto toccati. Sarà il marito di lei, interpretato da Sam Neill, a strapparla da quell’immagine: quando le pile si saranno esaurite, il visore non manderà più quella sequenza e Solveig avrà una vera e propria crisi di astinenza, come accade per l’eroina. Ma poi le cose pian piano si rimetteranno a posto, la vita reale riprenderà il suo corso anche se Sam non riuscirà a riavere sua moglie con lui.
L’apparecchio era stato inventato da Max von Sydow, in origine, per poter ridare la vista alla moglie (la interpreta Jeanne Moreau), cieca dall’età di sette anni. Per farlo, bisognava andare a pescare le immagini direttamente nel cervello, e poi riproiettarle: una cosa non facile.
Questa storia, come ha in seguito raccontato Wenders, è stata ispirata dalla vicenda personale di una sua parente, una zia rimasta cieca da bambina e che ha nonostante questo condotto una vita del tutto normale, sposandosi e avendo dei figli, che ha cresciuto senza mai poterli vedere in volto, così come non ha mai visto il volto del marito. Wenders racconta che da questa zia ha trascorso molti dei suoi pomeriggi da bambino, e che le ha sempre voluto molto bene: per renderle omaggio le ha dedicato un breve primo piano all’inizio di “Il cielo sopra Berlino”: lo riporto qui sotto e forse molti di voi se la ricordano.
Con “Fino alla fine del mondo” ho un rapporto complicato. Avevo amato molto il film quand’era uscito, ma poi era sparito dalla circolazione e l’ho ritrovato solo su dvd, molti anni dopo. Ho scoperto che si tratta di un cofanetto da quattro dvd, e che il film adesso dura 287 minuti: quasi cinque ore. Si tratta, naturalmente, del film così come lo aveva voluto Wenders, e che fu tagliato dalla distribuzione, che non avrebbe mai messo nei cinema un film intero di quella lunghezza.
So che Wenders tiene molto a questo film, che lo ritiene il suo film più vero e personale, il suo grande progetto finalmente realizzato. Ma il mio problema è questo: a me il film era piaciuto di più nella sua versione corta.
Intendiamoci: vale davvero la pena di vedere “Fino alla fine del mondo” nella sua integrità, anche perché con i dvd non c’è limite di tempo, lo si può guardare un po’alla volta in tutta comodità. Le immagini sono meravigliose, come sempre in Wenders, e la storia è quella di due innamorati che si inseguono per tutto il mondo fino a ritrovarsi finalmente in Australia: è la storia dei genitori di William Hurt, interpretati da Max von Sydow e Jeanne Moreau. Sono due scienziati, e il loro progetto – registrare le immagini prodotte dal cervello – è oggetto di interesse da parte dei servizi segreti e dei militari; per questo adesso sono costretti a nascondersi e si sono rifugiati in mezzo al deserto australiano.
Una storia complicata, ma a Wenders queste storie sono sempre piaciute, così come gli sono sempre piaciuti i thrillers (“L’amico americano” è tratto da Patricia Highsmith); a me non dicono molto, ma ci può stare. Francamente, ho sempre preferito il Wenders più intimo e sentimentale (nel senso alto), quello di “Paris Texas”, di “Nel corso del tempo”, del “Cielo sopra Berlino”, e anche di “Lisbon Story”; ma forse non amare le storie di spionaggio e i thrillers è un mio limite personale.
Comunque sia, il film inizia con Solveig Dommartin che lascia il marito Sam Neill e incontra il misterioso e sfuggente William Hurt. Nel frattempo, un satellite sta cadendo sulla terra e gli americani vogliono distruggerlo in volo; questo succederà alla fine del film, quando i protagonisti sono tutti in Australia, e provocherà un blackout totale ma per fortuna soltanto provvisorio.
Girato nel 1990-91, uscito nel 1993, si riferisce alla fine del millennio ed è ambientato nel 1999 (compreso il 31.12. 1999). Sono storie di cui si parlava allora, ma oggi nel nuovo millennio ci siamo dentro da un bel po’; francamente, posso dire che anche nel 1991 e nel 1999 l’idea di entrare nel Nuovo Millennio non faceva molta impressione.
Wenders ha messo nel film tanti gadgets divertendosi a immaginare il futuro: tanti videotelefoni a gettone, computer portatili molto più belli di quelli di oggi.non prevede i telefonini, però ci sono i navigatori in macchina. E’ sempre un rischio, fare queste operazioni “à la Jules Verne”. Oggi le parti più invecchiate sono proprio queste, quelle dove ci sono i gadgets.
Il film è diviso in tre parti. Della prima mi sono segnato che al minuto 44 Solveig ha in mano “Le affinità elettive”, di Goethe; che le immagini delle città ricordano molto “Blade runner” di Ridley Scott, girato dieci anni prima, ma ancora di più il leggendario “Metropolis” di Fritz Lang (1926).
“I still love you, broken ladder...” (ti amo ancora, scala spezzata...) dice Solveig a Sam Neill sotto l’effetto del pentothal (ma poi lo lascerà). E in musica il Canto dei Pigmei, proposto da William Hurt, e una citazione dalla Madama Butterfly di Puccini per l’arrivo in Giappone, non indicata nei titoli di coda (l’inizio della Butterfly).
All’epoca, Solveig Dommartin (la trapezista di “Il cielo sopra Berlino”) era la compagna amatissima di Wenders, e il film pare una continua dichiarazione d’amore per Solveig, quasi in ogni inquadratura. Il film è bello e si fa seguire, ma l’impressione di una grande luna di miele è difficile da cancellare, forse si tratta della dedica più grande mai fatta, un film da innamorato
La seconda parte parla dell’esplosione nucleare; Solveig e Hurt sono su un piccolo aereo in Australia, e cadono lentamente nel deserto (senza farsi male, planando) perché l’esplosione ha smagnetizzato tutto, compresi gli orologi e la strumentazione di bordo. Ma i due arriveranno lo stesso al rifugio dove lavora il padre dello scienziato.
Queste sequenze mi hanno ricordato un libro che lessi tanti anni fa, “Diluvio di fuoco” di René Barjavel: anche lì la catastrofe comincia con la cessazione improvvisa dell’elettricità e dei campi magnetici. Ma siamo in Australia e un rimando d’obbligo va anche a Bruce Chatwin, “La via dei canti”. Max von Sydow ha inventato una macchina per far vedere i ciechi, che però registra anche le emozioni; poi si scopre che legge dentro il cervello e può registrare anche i sogni. Un terzo rimando d’obbligo è per “Il pianeta proibito”, per il laboratorio dentro la caverna e per la figura di Farber padre.
A questo punto, quando tutti i protagonisti si ritrovano insieme, è come se nel film ci fosse una grande pausa, un fermo dopo tanto correre per il mondo da un continente all’altro. Nell’attesa Sam Neill, che fa da narratore, trova una macchina per scrivere: non funziona più nulla dopo l’atomica sul satellite indiano, ma la vecchia macchina meccanica, il diesel, le audiocassette vanno ancora. (“la tenga pure, ci giocano i bambini” gli dicono). Lo scrittore è contento, adesso può scrivere; è anche contento di aver perso il vecchio romanzo, ora può scriverne uno nuovo che guarda al futuro e non più al passato.
Ogni sequenza di questo “road movie” anomalo si fa vedere per la sua bellezza, per i paesaggi e il loro continuo cambiare. Wenders si porta dietro, nel suo “album di nozze”, l'amico Rüdiger Vogler (il protagonista di "Nel corso del tempo") per avere un po’ di compagnia (Vogler è una presenza abituale, nei film di viaggio di Wenders) e altri compagni piacevoli, come l’educatissimo Sam Neill.
Il dottor Farber e sua moglie (Max von Sydow e Jeanne Moreau) si sono circondati di collaboratori australiani, e vivono in mezzo ad una comunità aborigena della quale ormai fanno parte. Al minuto 19 della terza parte, la dottoressa aborigena che collabora con i Farber misura le radiazioni addosso alle persone, e fin qui va tutto ancora bene. Gli aborigeni della tribù si sono ritirati a discutere: «Temono le radiazioni. Le chiamano “il veleno del cielo”. Non le capiscono, ma sanno che distruggeranno la Terra. Vogliono certezza. La gente dipinge testi di canzoni, narra storie, segna dettagli di luoghi sacri. Buttano fuori tutto, come una falena che muore e spinge fuori le uova. »
Edith (Jeanne Moreau) è cieca da quando aveva otto anni; la sua storia d’amore è simile a quella di Solveig con suo figlio, in giro per mezzo mondo, in fuga (ma lei per via della guerra e del nazismo).
E’ a questo punto che l’esperimento si completa: il prototipo della macchina per vedere i sogni è pronto, la sperimentano Solveig e Hurt. La realtà sparisce, l’esterno sparisce, rimane solo il guardare dentro se stessi: narcisismo, si può dire. Le immagini dei nostri sogni più intimi diventano l’unica cosa che conta, togliere di mano l’apparecchio genera una crisi di astinenza come per l’eroina. Sam Neill, il narratore, commenta: « Mi era sempre piaciuto l’inizio del Vangelo di Giovanni, “in principio era il Verbo” (in inglese: “in the beginning there was the Word”, la Parola). Ora temevo che l’Apocalisse fosse “e alla fine c’erano solo immagini”».
Ma saranno la scrittura, e la pittura nel caso di Hurt, a far tornare alla normalità, una volta esaurite le pile del nuovo gadget elettronico e finita la crisi d’astinenza. Attività antiche come l’uomo, narrare, disegnare, fare musica.
(continua)

4 commenti:

Marisa ha detto...

"narrare, disegnare, fare musica..." sono le ultime parole del tuo bellissimo post su questo affascinante e difficile film di Wenders, e le riprendo perchè sono di una verità più significativa di quel sembra. Non solo, come dici tu, sono attività antiche quanto l'uomo,( per lo meno l'uomo che "simbolizza"), ma realmente possono salvare dalla follia, da quel corto circuito e fascinazione che l'inconscio produce, sprofondando ed annullando la coscienza come in un buco nero. E' questo che rischiano i due giovani che non riescono a staccarsi dalla visione diretta, senza cioè la mediazione dell'attività simbolica dell'arte. E' appena uscito il misterioso ed attesissimo "Libro rosso" di Jung, il documento più prezioso del suo confronto con l'incoscio attraverso i sogni, le visioni e l'immaginazione attiva. Per far fronte all'irruenza delle immagini (praticamente per non impazzire) Jung le ha narrate e disegnate con una cura e una bellezza da grande artista e, solo ora, a quasi 50 anni dalla morte, sono rese pubbliche, anche se ne aveva anticipato una parte nella sua autobiografia (mancavano però i disegni e la bellissima trascrizione calligrafica). E' impressionante l'impegno con cui ha trattato un materiale così scottante e la bellezza che ne emana ne è una ricompensa consolante.

Giuliano ha detto...

L'immagine della grande farfalla notturna che depone le uova nell'ultimo sforzo è, purtroppo, anche una mia esperienza: risale a più di 40 anni fa, e me ne dispiace ancora moltissimo. Ritrovarla nel film mi ha colpito molto.
E' un film molto ricco e molto lungo, ma non mi pare che avesse una vera necessità, a parte la vita personale di Wenders; è ben diverso da un film "piccolo" come Alice nelle città, o come "Nel corso del tempo". Il risultato è che mi sono usciti solo due post invece di quindici, e che ho fatto invece una gran fatica a scegliere le immagini perché ogni momento del film è memorabile dal punto di vista visivo, non fosse altro per il cambiamento dei paesi e delle luci e dei panorami. (in Australia e in Portogallo, soprattutto).
Io ci vedo un richiamo anche alla cultura/incultura dei videogames, dei computer: in questo, Wenders ha visto lontano (ma non era difficile). Che sia cultura o incultura dipende molto dalle persone, soprattutto dalle generazioni che nel 1991 non erano ancora nate o erano ancora piccole.
Il rapporto di questo film, ma anche di Lo stato delle cose, con Jung e con il Libro Rosso è un argomento che andrebbe trattato...ma questo è un lavoro per cui io non sono preparato, un lavoro che piuttosto dovresti fare tu, caso mai ti preparo le immagini
:-)

Marisa ha detto...

Guarda che potrei prenderti sul serio! Conosci benissimo la mia resistenza ad aprire un mio blog personale e faccio commenti al tuo perchè mi piace ragionare con altri e qui posso scrivere come parlo. Scrivo solo se sono costretta (ai congressi devo per forza presentare un testo scritto), ma preferisco di gran lunga parlare a braccio. Ho accettato l'invito di Christian di fare dei post sul suo blog "Opera omnia", su pressione del mio amico Giovanni, che cura la parte musicale, perchè avevo fatto una serata con una conferenza proprio sul Turandot" e devo ammettere che mi sto divertendo.
Per il "Libro rosso" di Jung sarei anche disposta, se qualcuno come te mi da il la e mi aiuta con le immagini. E' veramente un lavoro unico e srtaordinario e per il mio "Maestro" mi esporrei volentieri. Grazie comunque dell'imput.

Giuliano ha detto...

Il paragone più appropriato sarebbe con il "librone dei sogni" di Federico Fellini, ma i disegni di Jung sono proprio tutt'altra cosa!
Direi che Jung è proprio di un'altra categoria...
Poi ne parliamo, magari ne esce una bella cosa.