giovedì 25 novembre 2010

Come in uno specchio ( II )

SASOM I EN SPEGEL (COME IN UNO SPECCHIO, 1961). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Musica: Johann Sebastian Bach, sarabanda dalla Suite in re minore per violoncello n.2 BWV 1008. Musiche originali di Erik Nordgren . Montaggio: Ulla Ryghe. Interpreti: Harriet Andersson (Karin), Gunnar Björnstrand (David), Max Von Sydow (Martin), Lars Passgard (Minus). Produzione: Allan Ekelund per la Svenskfilmindustri. Durata: 86 minuti

Il titolo del film è ben spiegato da Bergman stesso negli “extra” sul dvd, durante una riunione con gli attori: un filmato evidentemente promozionale, dove Harriet Andersson finge di chiedere spiegazioni, Gunnar Björnstrand e lo stesso Bergman le rispondono.
- Perché nella Bibbia è scritto “vediamo confusamente, come in uno specchio”? In uno specchio l’immagine è nitida.
- Bisogna pensare che in quell’epoca non esistevano ancora gli specchi come quelli che usiamo oggi, ma si usavano metalli levigati fino a renderli lucenti. (...) Ho per l’appunto qui una riproduzione fedele di uno specchio in bronzo in uso al tempo dei romani. Guarda: i contorni del viso sono poco delineati, e riesci a malapena a scorgere sia te che gli oggetti intorno.
- C’è come una patina...
Purtroppo non sono ancora riuscito a risalire alla citazione biblica di cui si parla, ma è evidente l’accenno alle visioni derivanti dalla malattia di cui soffre la protagonista: «Non si può vivere in due mondi, passare da uno all’altro» , dice il personaggio di Harriet Andersson a 1h06 dall’inizio. Ed è il tema costante di Bergman in quegli anni: nel “Settimo sigillo” non solo il Cavaliere incontra la Morte in persona, ma anche il giullare Jof ha visioni, e dice di averne anche la presunta strega. Molte le analogie con “L’ora del lupo”: specialmente quando Karin spiega che sono loro, “gli altri”, che la stanno allontanando dal marito. Karin dirà al fratello che ormai deve scegliere: o sta con loro (con le apparizioni, che però in questo film non si vedono) oppure col marito, che lei ama molto e dalla quale è molto amata nonostante la malattia (schizofrenia?) ormai conclamata.
- E’ solo una malattia, o c’è dell’altro? – si chiede Karin dopo l’ennesima crisi, in cui dice di poter attraversare i muri come se fossero soglie, dove vede persone in attesa, forse di Dio; ma poi c’è una voce che le ordina di fare delle cose, e a cui non ci si può sottrarre.
Forse si può dire che “Come in uno specchio” è “Il settimo sigillo” trasportato nella realtà quotidiana: nel “Settimo sigillo”, Mia dice a Jof di non parlare in giro delle sue visioni, che poi lo prendono per matto: “e io so che non sei matto, non per ora almeno”
Si tratta di vere visioni, come accade per i santi; fondamentale è la scena in cui Karin è in preghiera e fa inginocchiare davanti alle apparizioni il marito ateo (“so che non ci credi, ma fallo per me”). Dopo la crisi più forte, alla fine del film, Karin dirà d’aver visto un Dio, che aveva sembianze di ragno, un ragno dallo sguardo freddo e indifferente, spietato, che ha cercato di possederla ma poi si è limitato a passarle sopra. A questo punto Karin non vuole più essere curata, è lei stessa a decidere per il ricovero. Come dice lei stessa, “non si può vivere in due mondi, passare da uno all’altro” (Harriet a 1h06), come a dire che per lei a questo punto esistono due realtà, non sovrapponibili. E’ un tema che rimanda al cinema di Dreyer, soprattutto a “Ordet”, ma è anche il tema (trattato in modo giocoso, ma non meno serio) di “Attraverso lo specchio” e di “Sylvie and Bruno”, di Lewis Carroll. C’è anche molto di Pirandello, in “Come in uno specchio”, soprattutto quel ragionare su ogni dettaglio, un ragionare quasi maniacale anche nelle persone sane.
Una visione, un fantasma, è al centro anche del piccolo spettacolo teatrale che viene recitato per Gunnar Björnstrand all’inizio del film: un giovane cavaliere (che si direbbe persiano, e che pare uscito da un film di quelli che poi farà Paradzhanov) è attirato dal fantasma di una fanciulla morta, che lo invita ad unirsi a lei; il giovane ne è molto attratto ma poi rifiuta l’offerta e torna alla vita vera. Questo spettacolo, breve ma molto accurato, secondo me è la vera chiave per capire il film.
E’ l’arte il vero tema del film? Dall’aldilà, sembra dirci Bergman, arriva qualcosa come la voce che dettava a Mozart; in questo senso può essere un messaggio in positivo, da accettare; ma può anche essere qualcosa di molto distruttivo, in negativo, come le visioni di Karin in questo film, e come nel film di Bergman quasi immediatamente successivo, “L’ora del lupo”.
Lo spettacolo nel teatrino di casa è fatto dai due figli di Björnstrand, che interpreta uno scrittore affermato. Come già prima per i regali di lui, alla conclusione dello spettacolo vediamo applausi e felicità di circostanza, del genere di quelli fatti per non offendere chi ha fatto il regalo; una finzione a fin di bene, ma non meno dolorosa. E della quale sono tutti ben coscienti: anche questa è una doppia realtà, una cosa piccola ma alla quale tutti ci sottomettiamo spesso.
Karin (Harriet Andersson) ha un fratello più giovane, poco più che adolescente, ancora molto turbato dal sesso; all’inizio del film lo ascoltiamo mentre fa discorsi “sulle femmine” molto simili a quelli che il personaggio di Harriet Andersson faceva qualche anno prima in “Una lezione d’amore” parlando delle sue amiche “smorfiose”. E’ questo il secondo tema conduttore del “quartetto”.
(continua)

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