SASOM I EN SPEGEL (COME IN UNO SPECCHIO, 1961). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Musica: Johann Sebastian Bach, sarabanda dalla Suite in re minore per violoncello n.2 BWV 1008. Musiche originali di Erik Nordgren . Montaggio: Ulla Ryghe. Interpreti: Harriet Andersson (Karin), Gunnar Björnstrand (David), Max Von Sydow (Martin), Lars Passgard (Minus). Produzione: Allan Ekelund per la Svenskfilmindustri. Durata: 86 minuti
“Come in uno specchio” è uno dei film più duri e difficili di tutto il cinema di Bergman. Nonostante l’atmosfera quasi sempre serena di una riunione in famiglia, in riva al mare, c’è una tragedia che incombe, una malattia grave che è stata appena diagnosticata nella sua pienezza e che tocca una giovane donna. Di questa malattia verremo a sapere presto, ed è il tema centrale del film; ma non è l’unico. Bergman paragona questo suo film a un quartetto d’archi, e come in quartetto d’archi ci sono diversi temi, modulati in maniera diversa dai vari strumenti, così in “Come in uno specchio” tutti i personaggi sono importanti.
Bergman aggiunge anche che si tratta di un’esecuzione non pienamente riuscita, dove gli esecutori non sono sempre in sintonia fra di loro; ed ha molte ragioni, ma forse era impossibile fare diversamente data la difficoltà del tema; che è comunque ben impostato e a tratti gradevole, perfino con toni da commedia in diverse sequenze.
I quattro personaggi sono questi: un padre (Gunnar Björnstrand) e i suoi due figli (Harriet Andersson e Lars Passgard), più il marito della giovane donna, suo genero (Max von Sydow).
In questo quartetto (non ci sono altri attori nel film) c’era un particolare che non mi tornava: e cioè che Max von Sydow interpreti il genero di Björnstrand. Mi suonava strano, perché – sicuramente influenzato da “Il settimo sigillo” - pensavo che i due attori avessero più o meno la stessa età: in teatro si può fare, al cinema un po’ meno, ma anche nella vita reale può ben darsi che suocero e genero sia coetanei. Invece no, sono andato a informarmi: sembrerà strano, ma ci sono vent’anni di differenza fra i due attori, Max von Sydow aveva trentuno o trentadue anni, Björnstrand aveva di poco passato i cinquanta.
Terminato di rivedere il film, molte questioni mi erano rimaste irrisolte e sono andato a leggere qualcosa in merito. Di solito, con Bergman, è un esercizio utile: perché su Bergman si è scritto molto, e perché Bergman stesso ci ha lasciato molti libri dove parla in prima persona di se stesso e dei suoi film; ma in questo caso mi è capitato invece quello che mi succede quasi sempre con i film di Bresson, e cioè che quello che leggo non mi aiuta affatto nella comprensione del film.
Anche leggendo quello che ne dice Bergman stesso, in “Immagini”, si rischia di finire sviati, fuori strada; ed in effetti è un film molto difficile, dubito che anche Bergman stesso sapesse cosa stava facendo di preciso. Bergman dedica molto spazio a “Come in uno specchio”, quattro pagine piene: ma sono quasi tutte riflessioni personali e autobiografiche, bozze e prime stesure di idee poi sviluppate diversamente nel film. Insomma, “Come in uno specchio” continua ad essere un enigma difficilmente risolvibile; due brani da “Immagini” possono però essere d’aiuto.
Ingmar Bergman, da Immagini (ed. Garzanti)
Se si esclude l'epilogo, che rimane slegato, si può dire che “Come in uno specchio”, formalmente e drammaturgicamente, è un film che non suscita obiezioni. E’ il primo vero «dramma da camera» e indica la strada verso “Persona”. Avevo deciso di operare una riduzione. Questo risulta evidente sin dalla prima immagine: quattro persone, provenienti non si sa da dove, spuntano dal mare.
Rimanendo in superficie, l'inizio di “Come in uno specchio” è qualcosa di nuovo. Tecnicamente, la messinscena è priva di errori. Il ritmo è impeccabile. Ogni immagine si trova al posto giusto. Che, poi, Sven Nykvist e io abbiamo spesso riso per via dell'imperfetta posizione delle luci, questa è un'altra storia. Le nostre vere discussioni sulle luci cominciavano infatti adesso e condussero a tutto un altro tipo di fotografia in “Luci d'inverno” e nel “Silenzio”. Dal punto di vista della tecnica cinematografica, “Come in uno specchio” sta, di conseguenza, alla conclusione di un periodo. L'epilogo tra David e Minus, con la battuta conclusiva del ragazzo, «Papà ha parlato con me!», è stato giustamente criticato perché slegato dal resto del film. Ammetto di averlo scritto spinto dal bisogno di essere didattico. Può darsi che abbia cercato di dire qualcosa che ritenevo non fosse stato detto. Non so. Rivedendolo, oggi, mi sento male. Il film è attraversato da un tono falso e quasi incomprensibile. A ciò non è estraneo il fatto che l'anno prima avessi realizzato “La fontana della vergine”, un film che migliorò il mio status economico di quel tempo e che vinse persino un Oscar. (...)
Dalla mia terribile (e molto chiara) situazione in Svizzera non uscì assolutamente niente. Era un punto di estrema sterilità. Eppure, nel monologo Gunnar sentì il vangelo della conversione: come se fosse il suo. E lo ritenne bello. Invece, è mal fatto e mal recitato.
Per Minus scelsi un attore uscito proprio allora dalla scuola di recitazione, e che non aveva vissuto le complicazioni presenti in quella parte: andar oltre ogni limite, la libidine, il disprezzo per il padre e a un tempo il desiderio di avere comunque un contatto con lui, l'attaccamento alla sorella, la produttività. Lars Passgard era commovente, una persona per bene, e faticò come un cane. Avrebbe dovuto essere un giovane Bengt Ekerot. Con gli anni sono diventato più bravo a scegliere le persone giuste per i ruoli giusti. Passgard e io facemmo ambedue del nostro meglio. Lui non aveva responsabilità nel nostro fallimento.
Abbiamo così un quartetto d'archi dove uno strumento suona falso tutto il tempo e l'altro segue con sicurezza le note, ma senza interpretarle. Il terzo strumento suona con limpidezza e autorità, ma fui io che non diedi a von Sydow lo spazio che avrebbe dovuto avere.
Ciò che ha del miracoloso è che, invece, Harriet Andersson interpreta Karin con perfetta musicalità, entrando ed uscendo liberamente e continuamente dalle sue prescritte realtà. La sua interpretazione ha toni puri ed è piena di genialità. Fu lei a rendere il prodotto sopportabile, interpretando frammenti di un altro film, che ero in procinto di scrivere, ma che non scrissi.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti)
2 commenti:
Ho visto molto tempo fa questo film e non ho il DVD per rivederlo, perciò lo ricordo male, ma ho presente l'atmosfera e l'impatto teatrale alla Strindberg, il tutto però piuttosto freddo e costruito razionalmente.
Penso che Bergman stesso ne fosse consapevole perchè nella sua autobiografia "Lanterna magica", a pag. 71 scrive "quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? E' un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media. Per tutta la mia vita ho bussato alla porta di quegli spazi in cui lui si muove con tanta sicurezza. Solo qualche volta sono riuscito ad intrufolarmici dentro. I miei tentativi coscienti hanno avuto quasi sempre come risultato dei penosi insuccessi: "l'uovo del serpente", "L'adultera", L'immagine allp specchio", ecc..."
Sono stata molto contenta di leggere queste righe su Tarkovskij ed apprezzo molto l'onestà di Bergman, anche se forse è persino esagerato nell'autocritica.
Di sicuro comunque a me sembra che abbia "fatto" troppo e non sempre si è dato il tempo di aspettare quel momento di grazia che è l'ispirazione per gli artisti e che lavora a loro insaputa. I suoi capolavori (Il posto delle fragole, Il settimo sigillo, La fontana della Vergine, Sussurri e grida e pochi altri) sono però delle vette luminose, assolutamente originali che non hanno niente da invidiare a nessuno.
Mi ero dimenticato di questo passo, e non ho volutamente ripreso in mano "Lanterna magica" per non perdermi (mamma mia!! ho fatto una gran fatica a scrivere questi post...).
Bergman è sempre molto autocritico, e devo dire che questo aspetto me lo rende simpatico. Pochi anni fa ho visto una lunga intervista con Bergman, aveva 78 anni se non ricordo male, e l'ho trovato sorridente e divertito, davvero simpatico.
Deve aver passato un periodo molto complicato, un po' come tutti, dopo i quarant'anni; cioè i film degli anni '60.
Mi è piaciuta la tua osservazione sull'aver "fatto troppo": per fare cinema bisogna scendere a compromessi, anche Bergman ci è passato, soprattutto nel periodo americano. Penso che avrai fatto caso alla presenza di John Huston in questo blog: è una scelta precisa, perché Huston è un grande talento non del tutto consapevole, che ha sempre oscillato tra il cinema d'autore e il cinema commerciale, e questo lo rende una figura molto interessante.
Invece Tarkovskij non era tipo da scendere a compromessi, e ha pagato di persona questa sua scelta: per nostra fortuna, ha potuto lavorare e molto bene.
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