sabato 9 ottobre 2010

Cantando dietro i paraventi

Cantando dietro i paraventi (2003) regia di Ermanno Olmi Fotografia di Fabio Olmi. Scenografie di Luigi Marchione. Costumi di Francesca Sartori. Musiche di Berlioz, Verdi, Ravel, Stravinskij; musiche e canzoni popolari cinesi; musiche originali di Han Yong e di Fabio Vacchi. Interpreti: Bud Spencer (il vecchio capitano), Jun Ichikawa (la vedova Ching), Makoto Kabayashi (ammiraglio Ching), Xiang Yang Li (supremo ammiraglio Kwu Lang), Sally Ming Zeo Ni (la confidente), Camillo Grassi (il nostromo), Durata: 1h 32’

Un ragazzo che sta andando a una festa di matrimonio, in allegra compagnia, viene fermato sulla soglia da un vecchio marinaio, che comincia a raccontargli una storia. Il giovane, suo malgrado, si ferma ad ascoltare il racconto; è una storia straordinaria, si ritrova ad esserne affascinato e coinvolto. Solo quando il racconto è finito, quando il vecchio marinaio ha terminato il suo racconto, soltanto allora il giovane rientra alla festa. E’ il soggetto di “The rhyme of the ancient mariner”, di Samuel Coleridge: grande metafora del bisogno di raccontare e anche del piacere di ascoltare una storia, uno dei classici della letteratura inglese di ogni tempo.
Si direbbe che sia partito da qui, da Coleridge, il film di Ermanno Olmi; anche qui si comincia con un ragazzo che viene suo malgrado coinvolto in una narrazione, e che ne rimane affascinato: la storia di una donna giovane e bella che fu capo dei pirati, nella lontana Cina. Ma, a differenza del poema di Coleridge, non è una storia di spettri; e, soprattutto, il vecchio marinaio non ha nulla di inquietante ed è anzi una presenza piacevolissima e rassicurante. Il vecchio marinaio, in questo film, è Carlo Pedersoli, “Capitano de la Real Marina de Andorra, momentaneamente non in servizio.”. Bud Spencer, insomma. Una scelta felicissima.


La storia dei pirati cinesi permette inoltre a Olmi di sviluppare (sia pure sottotraccia, questo non è un film a tesi) un parallelo con l’economia dei nostri tempi. Purtroppo per noi, è un parallelo che sarà sempre attuale.
- Il fiume dei nostri guadagni si è del tutto prosciugato; e a noi azionisti non rimane che un letto di pietre! ...Ma, come lo scorrere delle acque fa fruttare la terra, così il flusso del denaro non può arrestarsi: e il suo fine è far fruttare altro denaro. E così il denaro, allo stesso modo dell’acqua, trova sempre una via per proseguire il suo corso. ...Ma, per il momento, niente bottino, niente paga.
- Riferirò le nuove disposizioni agli equipaggi.
Siamo al minuto 28, è in corso il colloquio tra l’ammiraglio Ching (il corsaro) e i suoi finanziatori: il governo cinese ha appena preso misure drastiche contro la pirateria, che si trova in grande difficoltà. La pirateria è costituita come un’azienda in piena regola, con azionisti e finanziatori; siamo di fronte a un vero e proprio consiglio d’amministrazione, con tanto di amministratore delegato.
Reduce dalla fatica di “Il mestiere delle armi”, protagonisti la guerra, Giovanni dalle Bande Nere e l’arrivo di armi da fuoco sempre più precise (un film d’epoca è sempre molto faticoso), Olmi si concede questa vacanza con un film strano e bello, luminoso e oscuro (i pirati sono sempre luminosi e oscuri, e qui il capo dei pirati è una donna giovane e bella), a metà strada fra il cinema e il palcoscenico: un evento raro, quest’ultimo, che però ha dato origine ad altri film belli e strani (rich and strange, William Shakespeare, La Tempesta), Il flauto magico di Bergman, Le soulier de satin di Oliveira, Enrico V di Olivier, Don Giovanni di Losey...
Purtroppo, temo che soltanto chi ama il vero teatro, quello di Giorgio Strehler, di Tadeusz Kantor, l’opera italiana, il teatro No giapponese, il Kabuki, l’Opera di Pekino, Romolo Valli, potrà amare questo film, e capirne fino in fondo la magia.
Olmi firma un film strano, diverso da quello che ci si aspetterebbe; e va molto vicino al capolavoro, si tratta forse di qualcosa che fu sognato da Giovanni dalle Bande Nere (l'epoca è più o meno quella); ed è un sogno strano perché è cinese, un film cinese di Ermanno Olmi; e sembra davvero cinese anche se è girato nell’Adriatico, sulla sponda jugoslava. Se non me l’avessero detto (è spiegato nel dvd) avrei davvero creduto ad una trasferta nei Mari della Cina.
La protagonista, Jun Ichikawa, non è cinese, è romana ed ha origini giapponesi; combatte con la spada, nuda sul palcoscenico di legno del teatro, senza effetti speciali e senza volare, forse meglio che nei film cinesi veri (più credibile) e da Olmi era difficile immaginare anche questo, ma lo fa da grande maestro. Può stupire anche questo, una scena di nudo femminile in un film di Olmi: spesso ci perdiamo, per pura pigrizia ed ignoranza, nei luoghi comuni ripetuti infinite volte, ma scendere giù dalla pianta ogni tanto fa bene. I luoghi comuni: Fellini e le tettone, Olmi anziano cattolico e contadino e quindi un po’ bacchettone: ma basta guardare un film qualsiasi di Olmi per accorgersi del fascino e della bellezza delle sue donne, e basta guardare il film per capire che questa scena di nudo è un elogio alla bellezza, e alla semplicità del teatro. Basta un palcoscenico, una scenografia ridotta al minimo, e il teatro rinasce, sempre affascinante.

Dopo la scena del “consiglio d’amministrazione”, il pirata Ching muore avvelenato dal pesce; belle e strane le due orazioni funebri in mare, ad opera del nostromo e del vecchio capitano.
Al termine della cerimonia, in mare aperto, appare sul ponte la vedova Ching: « ...né con i generali corrotti, né con gli ingordi azionisti.», dice ai pirati sorpresi. Vestendosi da uomo, fa credere che Ching sia ancora vivo; e dimostrerà di saper maneggiare la spada. In breve tempo, la vedova Ching diventerà un nome pronunciato con spavento.
Siamo al minuto 35, quando la vedova Ching fa abbattere l’insegna del dragone sulla nave appena avvistata, mettendosi così apertamente contro i generali.
- Disapprova quello che faccio, capitano?
- A chi devo una risposta, alla señora o alla piratessa?
La vedova Ching impone subito nuove e severe regole: d’ora in avanti sarà ovviamente vietato importunare le donne trovate a bordo delle navi depredate, ma soprattutto:
- ...si rammenta ai signori della ciurma che, in base al nuovo regolamento della signora comandante, la parola “bottino” è considerata volgare, e indegna del nostro pregiato lavoro. Pertanto, d’ora innanzi, la parola “bottino” si dirà “prodotto trasportato”. Tutte le merci verranno registrate.
(Bud Spencer al megafono, minuto 37)
Le musiche: all’inizio, per la tempesta, un accenno dell’Otello di Giuseppe Verdi (del quale Olmi aveva da poco curato la regia in teatro, per la direzione di Claudio Abbado); molto Berlioz, la Sinfonia fantastica ma anche Tristia op.18; poi Ravel, brani da “L’enfant et les sortileges”; e “L’uccello di fuoco” di Stravinskij nel finale. Dai titoli di coda prendo gli altri titoli: Chris Bell & Max Reed, The ruins of Tholing; Sai Ma (Horse races) traditional; The Yao’s dance, canzoni popolari cinesi. Le musiche originali sono di Han Yong e di Fabio Vacchi.
Note sparse: 1) Jun Ichikawa è doppiata da Valentina Carnelutti, anche il nostromo è doppiato; invece la voce di Bud Spencer è proprio la sua. 2) nel film si vedono spezzoni da “La bella corsara” del 1928, regia di Wladimiro De Liguoro. 3) la nave a vapore, che suscita meraviglia; 4) gli aquiloni con il messaggio di pace, nel finale.
Belli e curiosi certi anacronismi, come il vecchio corsaro spagnolo che, su una giunca del ‘600, usa come megafono la tromba di un grammofono; anche qui, solo chi ama il teatro (burattini e pupi compresi) capirà in pieno. Ed il finale, affidato ancora a Bud Spencer, che è questo:
- E fu così che gli uomini, finalmente in pace, poterono vendere le loro spade e comperare buoi per arare i campi, mentre le voci delle donne rallegravano il giorno cantando dietro i paraventi.
In conclusione, proprio come in Coleridge, la storia di “Cantando dietro i paraventi” è narrata ad un giovane (e anche ad un bambino) che non voleva ascoltarla, e che stava andando altrove. C’era l’urgenza di raccontare questa storia, da parte di Olmi, la storia delle tre corone del marinaio, della vedova del pirata cinese, o dell’antico marinaio (cioè Bud Spencer), una storia forse inutile, forse soltanto uno sfizio, ma quando ti ferma l’antico marinaio...che differenza fa? Il risultato è che questo è un bel film, ed è l’unica cosa che conta.
PS: il gusto per l’esotico e per le “cineserie”, come si diceva un tempo, è molto antico, già nel ‘700 Carlo Gozzi (amico e rivale in teatro di Goldoni) scriveva la Turandot. Ma poi ci sono tutte le avventure di stampo coloniale, un esotismo che copre tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento. A questo proposito riporto un frammento da un’intervista recente del grande disegnatore francese Jean Giraud (in arte Moebius), che non so quanto c’entri con il film ma che è comunque una lettura molto piacevole.
da un’ntervista a Jean Giraud (Moebius) di Mario Serenellini, La Repubblica 25 luglio 2010 :
- I suoi primi maestri appartengono però all'arte, non alle strip: Piranesi, William Blake, Gustave Doré...
«Doré mi ha subito sconvolto. Come, poi, Steinberg, un grande. Ho trascorso un'infanzia pregna d'incisioni dell'Ottocento. Negli anni Trenta - Quaranta circolavano in famiglia libroni illustrati, ricevuti in regalo a ogni promozione: erano cronache di viaggio intorno al mondo, mirabilmente illustrate da star dell'incisione. Una cosa buona creata dal colonialismo! - scoppia a ridere Moebius -. Tra gli illustratori ho imparato presto a distinguere Doré, di gran lunga superiore a tutti. Di solito, mi immergevo in queste pagine quand'ero a letto con la febbre, per la malattia infantile di turno. Erano tutte letture febbricitanti».
- E’ stata questa la sua prima fantascienza? Hanno forse cominciato così, nelle trasparenze del dormiveglia, a prendere corpo i suoi mondi paralleli, allucinatori?
«E da lì che è nato il personaggio del Major Grubert, col suo bravo casco coloniale, che racconta storie fantastiche. È modellato su quei reporter che alle mie febbri comunicavano erranze metafisiche, molto vaghe ma molto ben argomentate: rituali esotici, decapitazioni, cannibalismi. Più il soggetto era orribile e più appariva meraviglioso. Attraverso quelle cronache visionarie il mondo occidentale mi si rivelava un'oasi civilizzata, mentre mi addentravo in quegli universi di magica, ingegnosa barbarie, resi più affascinanti dall'idea di una loro sparizione imminente, darwiniana: il fatto di ridurli a descrizione evocativa, a mitologia, era un modo di estinguerli, di consegnarli un paradiso perduto».
- Il mistero, l'oscuro tradotto in disegno particolareggiato, implacabilmente esatto, è la caratteristica, anzi il "programma" del suo stile. La sua fantascienza si manifesta come scienza:
«Quanto più un fenomeno è vago, sfuggente, tanto più precisa deve esserne la descrizione. È il lavoro compiuto dalla poesia, che rivela l'ignoto attraverso il noto. Una mela, in poesia, squarcia veli atavici. È compito dell'arte rendere il mondo enigmatico, ripulirlo dell'ovvietà. Per questo amo l'arte contemporanea. Marcel Duchamp, con le nuove epifanie degli objets trouvés, il loro capovolgimento di senso, ci ha liberato e acuíto la vista».
- È quanto le riconosceva Folon («Moebius trasforma una pietra in montagna, vede l'oceano in una goccia d'acqua»):
«La veggenza grafica è il contrario del ragionamento costruito: capta con la matita immagini volatili, fuggiasche. Non si può far nulla di sensato se non si arriva all'estremo di se stessi, se non si sfiora il sogno, l'enigma. I surrealisti ci avevano provato con la scrittura automatica, con la casualità grafica del cadavre exquis: ma la logica era ancora lì, l'inesplorato della ragione rimaneva inesplorato. L'artista dev'essere sempre un passo più in là della percezione corrente: fare scoprire ogni volta la mela, in un modo in cui non è mai stata vista prima»,
(intervista a Jean Giraud, a cura di Mario Serenellini, Repubblica 25 luglio 2010 )

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