mercoledì 27 ottobre 2010

Moulin Rouge

MOULIN ROUGE (idem, 1952) Regia: John Huston; sceneggiatura: Anthony Veiller, John Huston (dal romanzo di Pierre de La Mure); fotografia: Oswald Morris; consulente tecnico: Elliot Elisophen; scenografia: Marcel Vertès, Paul Sheriff; costumi: Marcel Vertès; musica: Georges Auric. Interpreti: José Ferrer (Henri de Toulouse-Lautrec), Colette Marchand (Marie Charlet), Suzanne Flon (Myriamme), Zsa Zsa Gabor (Jane Avril), Katherine Kath (la Gouloue), Claude Nollier (la contessa di ToulouseLautrec), Muriel Smith (Aicha), Georges Lannes (Patou), Tutti Lemkov (compagno di Aicha), Rupert John (Chocolat), Eric Pohlmann (proprietario del bar), Walter Crisham (Valentin le Désossé), Mary Clare (la signora Loubet), Lee Montagu (Maurice Joyant), Harold Gasket, Jill Bennett, Maureen Swanson, Jim Gerald, Christopher Lee, Jean Landier, Robert Le Fort, Jean Claudio, Suzi Euzaine, Guy Motschen, Fernand Fabre, George Pastell, Jean Ozenne, Michael Balfour, Terence O'Regan, Arissa Cooper, Jacques Cey, Walter Cross, Peter Cushing, Charles Carson, Francis De Wolff, John Van Dreelen, Jane Val, il nano Jules Maccio. Durata: 120'.
“Moulin Rouge” di John Huston (1952) è un film pieno di colori e molto allegro, ma è soprattutto la biografia di un handicappato, girata con molto stile e con molto rispetto verso le sofferenze del vero Toulouse-Lautrec: con molta partecipazione e senza sentimentalismi, affrontando la realtà così come doveva essere. Non è una cosa da poco, soprattutto per quel 1952: in anni recenti si sono fatti film simili, anche più belli, e con protagonisti portatori di handicap più gravi di quello di Toulouse-Lautrec; ma vedere un film così “antico” e così rispettoso e partecipe fa capire quanto grande sia stato John Huston, sia pure dietro la scorza dura e l’aspetto non del tutto rassicurante della sua figura (lui stesso amava descriversi come bevitore e attaccabrighe, la sua autobiografia da questo punto di vista è molto esplicita). Ne è protagonista l'attore Josè Ferrer, truccato in modo da diventare molto simile al vero Toulouse-Lautrec.
Josè Ferrer dà per quasi tutto il film un’unica espressione al suo personaggio, uno sguardo cupo e fisso: forse è quello che gli è stato chiesto, o forse Toulouse-Lautrec era davvero così, e aveva certo le sue ragioni per non sorridere alla vita. Per dare un giudizio sulla prova d’attore di Josè Ferrer bisognerebbe ascoltare il sonoro originale, cosa che io non ho potuto fare; nella versione italiana è doppiato molto bene dall’attore Stefano Sibaldi, che prestò la sua voce, tra gli altri, a Richard Basehart (“La strada” di Fellini) e anche al topino di “Dumbo”. Quella di Sibaldi è una voce molto presente nel cinema di quegli anni, molto bella e facile da riconoscere.
L’altro aspetto importante del film, quello che probabilmente ha più ispirato Huston (qui anche produttore) è, come dice Morandini nel suo “Castoro Cinema”, il poter dare vita alle persone che furono ritratte da Toulouse-Lautrec e che erano parte della sua esistenza quotidiana. Nel film si ricorda che il “Moulin Rouge” era in origine un piccolo locale per gente semplice, e che divenne “per ricchi” dopo la fama che gli diede Toulouse-Lautrec con i suoi dipinti e con i suoi manifesti. Lo scandalo delle gambe e delle mutande femminili (quegli enormi mutandoni bianchi pieni di pizzi, che oggi fanno solo sorridere) mostrate “en plein air” durante il ballo riempì il locale, ma provocò anche la rovina dei “piccoli”, come li avrebbe chiamati Dostoevskij, che vi si esibivano traendone guadagno. Una volta diventato locale ricco e alla moda, nel Moulin Rouge non c’era più spazio per la ballerina La Goulue, ritratta infinite volte da Toulouse-Lautrec; qui la vediamo danzante e felice all’inizio del film ma anche nel finale, ubriaca e appoggiata ad un lampione, mentre arringa la folla dopo essere stata cacciata dal locale di cui era stata una stella, considerata “troppo anziana” e troppo volgare, da bassifondi e non più adatta ad un locale diventato di lusso.
Verso la metà del film c’è un dialogo del giovane Henri con il padre, il Conte de Toulouse-Lautrec, che lo rimprovera per i suoi quadri “pornografici” e per la vita che conduce, e gli dice che se proprio vuol dipingere c’è a sua disposizione il paesaggio meraviglioso di casa loro, del loro castello nei dintorni di Albi: Henri gli risponde che queste cose le fa già il suo amico Van Gogh, in Provenza, e che a lui non riuscirebbero così bene: «Io sono un pittore di bassifondi, qui è il mio posto.» Forse John Huston stava parlando di se stesso mentre scriveva questo dialogo? E’ molto probabile, la poetica di Huston è proprio questa, i suoi film più belli sono proprio quelli dedicati ai “bassifondi”, agli umili e ai perdenti.
Nel colloquio con il padre, che finirà in una rottura insanabile, si parla anche di lavoro: il padre, un Conte di antico lignaggio, gli rinfaccia di lavorare per mantenersi, e che tipo di lavoro! Henri gli risponde così: « Sì, questo è lavoro. Tu non hai mai lavorato, ma il nostro mondo è finito con Maria Antonietta. Continuerò a firmare con il mio nome, perché è il mio nome.»I Lautrec erano Conti di Tolosa; più avanti nel film, quando il Re di Serbia comprerà un suo quadro, Henri commenterà ridendo che “i suoi avi pascolavano le pecore quando i miei erano già Re di Navarra”. Padre e figlio si ritroveranno solo quando Henri sarà in punto di morte: i suoi quadri (la collezione Camondo) sono stati acquistati dal Louvre e a questo punto anche il Conte suo padre si convince che la scelta del figlio era stata giusta.
Riguardo alla storia dell’arte, nel film sono inserite parecchie battute di Toulouse-Lautrec riguardo a Leonardo e a Raffaello; e il collezionista Nissim de Camondo è tra i protagonisti del film, in due brevi scene; c’è anche, brevemente, lo scrittore La Fontaine. Mi dispiace molto che Solimano (Primo Casalini) non ci sia più, perché sulla casa-museo di Nissim de Camondo a Parigi avrebbe avuto molto da dire. Chi vuole farsi un giro su www.arengario.net troverà un suo articolo molto bello in proposito.
Altro soggetto non secondario del film è, ancora una volta, l’alcolismo: mostrato nei minimi dettagli. Lautrec è un alcolista, comincia a bere per sopportare il suo handicap, ma l’alcool è anche la sua rovina fisica e artistica. «Cognac e assenzio, ma va bene anche il rum»: anche su questo verte il suo scontro con il padre, il cognac serve per non pensare al mondo “così come le battute di caccia per il padre e la lettura del rosario per la madre”, dice il giovane Henri: ed è una battuta degna di John Huston.
Delle attrici, ZsaZsa Gabor è la fascinosa cantante che si innamora “definitivamente” ogni due mesi sempre di un uomo diverso; Colette Marchand è Marie, la prostituta della quale Lautrec si innamora e con la quale ha una relazione. Myriam è la bellissima Suzanne Flon.
Riguardo a Marie, Henri ha un lungo colloquio con la madre, che è corso a trovarlo sapendolo malato:
HENRI: (...) Ho lavorato molto. Scusami cinque minuti, così mi pettino e mi metto la cravatta.
MADRE: (fermandolo) Che genere di ragazza è?
HENRI: Vedo che per te tuo figlio è ancora un libro aperto, come quando avevo nove anni... E’ di un genere che non conoscerai mai, da bambina ha dovuto scegliere fra la strada e il suicidio.
MADRE: Ma tu la ami?
HENRI: A stento mi trattengo dal correrle dietro per pregarla di tornare.
MADRE: Cosa è accaduto tra di voi?
HENRI: Il passato è più forte di lei. Il mondo in cui vive è una giungla dove gli uomini vagano come animali selvaggi, fanno a meno di mangiare se manca la selvaggina ma quando c’è una preda se la contendono a unghiate e a morsi. E’ un mondo di crudeltà e di astuzia, però è un mondo libero: io l’ho messa in catene, e l’ho resa cattiva (...) Nella giungla non provano né pietà né ripugnanza. Il mio aspetto non la offendeva come donna, non mi ha visto “alto e diritto” come tu avevi profetizzato. Aveva gli occhi aperti, ma mi ha amato per quel che sono.
Più avanti, Marie disperata e ubriaca dirà a Henri disperato: « E’ Bebert che mi mandava da te, altrimenti non sarei mai andata con un uno storpio.». E Bebert, gentile, rincorre Lautrec e cerca di giustificarla.
Molte e lunghe sequenze sono dedicate ai quadri di Toulouse-Lautrec, in stile quasi da documentario: anticipano il finale di “Andrej Rubliov” di Tarkovskij (1966, un altro film dedicato a un grande pittore). Queste riprese sono tra le cose più sorprendenti di questo film: va ricordato che si tratta di una grande produzione hollywoodiana, per le sale cinematografiche, e non di un piccolo film d’autore.
Molto belle anche le scene girate nella litografia che stampa i primi manifesti per il Moulin Rouge: LO STAMPATORE: Ma che verde è questo? Non abbiamo questi colori in litografia, non possiamo stamparlo.
TOULOUSE-LAUTREC: Ho mischiato i miei colori, mischierò anche i vostri inchiostri.

Nel finale del film, compaiono come in passerella tutti gli amici e le persone che furono ritratte da Toulouse-Lautrec, a rendere omaggio al pittore morente: è una delle sequenze più belle della storia del cinema, e mi stupisco che sia quasi completamente ignorata. Ma così va il mondo, questo film è ricordato dai libri sul cinema solo perché Josè Ferrer vi recita camminando sulle ginocchia, e si discute se il trucco sia più o meno riuscito: il grande pittore Henri de Toulouse-Lautrec era un nano, le sue gambe si saldarono malissimo dopo una caduta da cavallo quand’era bambino, e a causa di una malattia ereditaria (oggi curabile) il suo sviluppo fisico fu bloccato per sempre.

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