lunedì 25 ottobre 2010

Il ballo delle ingrate


IL BALLO DELLE INGRATE De Fördömda Kvinnordas Dans. (Dance of the woman damned) Produzione: Ingmar Bergman, Mans Reuterswärd (1976) per Cinematograph SR2. Tratto dal “ Libro Ottavo dei Madrigali“ di Claudio Monteverdi (1638) Coreografia di Donya Feuer. Ensemble Musicae Holmia, soprano Dorothy Dorow. Fotografia di Sven Nykvist. Scenografia di Ann Terselius-Hagegaard. Costumi di Maggie Strindberg, Cecilia Drott. Danzatrici: Nina Harte, Helene Friberg, Lena Wennergren, Lisbeth Zachrissen
Durata: 25 minuti.

“Il ballo delle ingrate” è una composizione di Claudio Monteverdi (1567-1643), uno dei più grandi musicisti mai vissuti. Monteverdi, nato a Cremona e vissuto fra Mantova e Venezia, è stato il teorico dell’importanza della parola in musica: la sua definizione del “recitar cantando” è una delle pietre miliari del canto, e le sue composizioni hanno grandissimo fascino ancora oggi.
A Monteverdi si rivolge Ingmar Bergman nel 1976, producendo questo breve film per la tv. Con lui collaborano la coreografa Donya Feuer e l’amico Sven Nykvist come direttore della fotografia.
Bergman non ne firma la regia, e qui comincia la parte complicata della storia: perché del “Ballo delle ingrate” non si parla in “Immagini” (Garzanti, 1992), il libro nel quale il grande regista svedese prende in esame tutti (ma proprio tutti) i suoi film. Non solo: ho cercato notizie sul film nel sito “Bergmanorama”, ma anche lì non se ne fa cenno. “Il ballo delle ingrate” manca perfino dal mostruoso database di Imdb, ed è davvero stupefacente.
Insomma, se io non lo avessi registrato vent’anni fa, quando la Rai svolgeva ancora la funzione di servizio pubblico, e non avessi conservato con cura la registrazione, adesso potrei pensare di essermelo sognato. Invece il film c’è, è qui, e lo sto rivedendo: alla faccia di chi dice che le cassette sono da buttare perché irrimediabilmente obsolete.

Il film è in bianco e nero, una scelta espressiva precisa, con due momenti a colori nei quali una donna fa da speaker e spiega cosa succede. Ed ecco subito una particolarità: l’azione in sè dura dodici minuti, ma viene subito replicata dopo un breve intervallo. L’effetto, data la particolarità del film, è di vedere non la stessa cosa ma una sua variante; e io sono convinto che si tratti di due recite diverse, quasi perfettamente identiche – ma uno studio accurato non l’ho ancora fatto.

Il tempo del film (venticinque minuti) è così distribuito:
00-1:30 a colori. La speaker, una giovane donna con i capelli neri e un abito rosso, ripresa in primissimo piano, racconta brevemente ciò che stiamo per vedere. Parla del linguaggio del corpo, dei nostri gesti, che spesso dicono molto più delle parole. Nel film non ci sono parole, l’unica voce che si ascolta è quella della cantante, fuori scena.
1:30-12:00 bianco e nero : la prima parte del film vero e proprio.
12:00-14:00 a colori: torna la speaker; parla delle donne costrette a stare in un mondo ristretto, dove le più anziane impongono la loro mentalità alle più giovani e dove si instaura un gioco di potere e di sottomissione destinato a perpetuarsi. Dice che questa è la visione dell’opera così come è stata concepita da Donya Feuer e da Ingmar Bergman.
14:00-24:00 bianco e nero: riproposta del filmato che abbiamo appena visto.
Alla fine, partono i titoli di coda: 25 minuti in tutto.

Claudio Monteverdi fa stampare “Il ballo delle ingrate”, su testo di Ottavio Rinuccini, nel 1638 nel “Libro Ottavo dei Madrigali”, pubblicato a Venezia quando Monteverdi, nato nel 1567, aveva già compiuto i 71 anni. Monteverdi, nato a Cremona, trascorse gran parte della sua vita a Mantova, presso la corte dei Gonzaga: è a Mantova che vede la luce, nel 1607, il suo “Orfeo”, primo grande capolavoro nella storia dell’Opera. “Il ballo delle ingrate” appare dunque a stampa tra le sue ultime composizioni, ma sembra che risalga al 1608, ed è probabile che facesse parte dell’opera “Arianna”, andata perduta quasi totalmente.
Le “ingrate” sono le anime delle persone che durante la loro vita non hanno amato. Per riportarle alla luce, Venere e Amore (suo figlio, il bambino alato) vanno a bussare alle porte dell’Ade, dove vengono ricevuti da Plutone. Amore entra nell’Ade, mentre noi assistiamo al colloquio fra Venere e Plutone; le anime ingrate otterranno di uscire a vedere la luce per il tempo di una danza, ma poi su di loro tornerà a chiudersi l’oscurità.
E’ una sequenza piuttosto lunga (36 minuti nell’edizione in CD diretta da Rinaldo Alessandrini), e non è di argomento così cupo come si potrebbe pensare. Anzi, è facile immaginare che durante le rappresentazioni, a corte, ci fosse ampio spazio per imitazioni e pettegolezzi su questa o quella dama, o signore; è difficile credere che in quel 1608 si sprecassero tempo e candele per deprimersi senza speranza – anche se molti tendono a farcelo credere, e anche se le rappresentazioni infernali, dell’Ade e dell’Oltretomba, sono sempre state oggetto di spettacolo.

Di tutto “Il ballo”, Ingmar Bergman prende solo la parte finale, il lamento delle anime ingrate che devono tornare nell’Ade:
Una delle IngrateAhi troppo, ahi troppo è duro,
crudel sentenza, e vie più cruda pena,
tornar a lagrimar ne l’antro oscuro.
Aer sereno e puro,
addio per sempre.
Addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle;
apprendete pietà,
donne e donzelle.
Quattro Ingrate insieme
Apprendete pietà,
donne e donzelle.
Una delle Ingrate
Al fumo, a' gridi, a' pianti, al sempiterno affanno!
Ahi dove son le pompe, ove gli amanti,
dove sen vanno
donne che sì pregiate al mondo furo?
Aer sereno e puro,
addio, per sempre,
addio o cielo, o sole,
addio, lucide stelle,
apprendete pietà,
donne e donzelle.
(versi di Ottavio Rinuccini)



La bambina che appare fra le quattro danzatrici è la stessa che è apparsa ne “Flauto Magico”, e alla quale Bergman ha dedicato un lunghissimo primo piano. E’ molto bella, ma ha un aspetto piuttosto inquietante, quasi da elfo. Le altre tre donne sono anch’esse molto belle, di una bellezza tipicamente bergmaniana; non sono nomi famosi, sono danzatrici, molto espressive. Tutte e quattro vestono in tute nere attillate, lo sfondo è nero, si muovono dentro un piccolo teatro che vediamo per un attimo all’inizio. Gli oggetti scenici sono ridotti al minimo: una bambola di pezza, un muro, una tenda. Una delle donne adulte ha il capo coperto, le altre hanno capelli lunghi e morbidi, una è bionda e una è mora.

Il film è impressionante, molto intenso; è impressionante quasi come “Sussurri e grida”, al quale va apparentato, e non al Flauto Magico che pure è stato girato quasi in contemporanea. Del resto, la speaker era stata chiara: “quattro donne in una stanza, una è una bambina, un’altra è morta.” Quasi come in “Sussurri e grida”.
Ma la cosa più sconvolgente è che quello che vediamo non ha molto a che vedere con quel che dice la speaker: di che cosa ci parla questo film? di che cosa ci parla “Sussurri e grida”? La mente tende a ritrarsi, le immagini sono da brividi, e la nostra parte cosciente rifiuta di spiegare il contenuto di questo film, proprio come accadeva con “Sussurri e grida”. Bergman, recidivo, è andato a pescare proprio là dove la mente, la coscienza, si rifiuta di andare a vedere, anche nei sogni: “For in that sleep of death what dreams may come, when we have shuffled off our mortal coil?” (William Shakespeare, Hamlet). Questa è la zona del rimosso, e questo è un film che fa davvero rabbrividire.
Il Ballo delle ingrate per Bergman diventa “il ballo delle dannate”: c’è differenza, perché in Monteverdi la storia assume molto della commedia (il finale è molto drammatico, ma molte sue parti potrebbero stare fra i madrigali amorosi) e non è solo cupa tragedia come la descrive Bergman.
Ecco cosa mi è venuto fuori mentre lo guardavo, pensando anche agli altri film di Bergman (primo fra tutti, “Il settimo sigillo”): lo riporto qui senza pretendere minimamente che si tratti di un’analisi critica.
1) La Vita è la ragazza bionda; la Speranza è la mora coi capelli corti; la Morte ha il capo coperto; la Fanciulla è se stessa (ma ha uno sguardo un po’ demoniaco, poco da fanciulla... forse mal scelta?)
2) Vita e Speranza sono collegate. La Morte attrae a sè la Vita. La Vita non chiede nulla alla Morte, e la Morte tace perché non ha nulla da dire.
3) Non ho mai sentito la Morte dire qualcosa: io non ho mai visto la Morte chiedere qualcosa, né ottenerla. Tutto quello che le viene dato lo ha senza chiederlo né meritarlo né cercarlo.
4) E’ impossibile competere con la Morte, perché la Morte non esiste; in definitiva, è la sola prova che abbiamo della Vita, che esiste.
5) La Morte afferra la Speranza, che si libera.
6) La Vita tocca la fanciulla, la cerca con le mani, le spiega cosa deve fare. La Morte combacia con la Vita, non è differente se non in prospettiva. “Io non ho nulla da darti”; “Io non ti chiedo nulla”. In prospettiva Morte e Vita sono due facce della stessa medaglia.
7) Morte, Vita e Speranza tirano a sè la fanciulla, la tengono stretta. La Speranza le chiude un occhio, con la mano; l’altro occhio è la fanciulla stessa a tenerlo chiuso.
8) La speaker, e forse la coreografa Donya Feuer (non Bergman) volgono il discorso in chiave femminista per spiegare quanto succede, e tenere nascosto il vero significato (inquietante) della messa in scena.
9) La bambina bionda, la giovane bionda, la giovane bruna, la donna col capo coperto,
corrispondono quasi perfettamente ai quattro personaggi di Monteverdi e Rinuccini: Amore (bambino), Venere, Plutone, l’Ingrata.

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