lunedì 25 ottobre 2010

Il flauto magico ( IV )

Trollflöjten (Il flauto magico, 1975). Regia di Ingmar Bergman. Sceneggiatura: Ingmar Bergman dall'opera “Die Zauberflöte” di Wolfgang Amadeus Mozart sul libretto di Emanuel Schikaneder. Fotografia: (Eastmancolor) Sven Nykvist. Scenografia: Henny Noremark. Coreografia: Donya Feuer. L’opera di Mozart è eseguita dalla Sverige Radios Symfoniorkester Radiokören, direttore: Erik Ericson. Interpreti: Häkan Hagegärd (Papageno), Irma Urrila (Pamina), Josef Köstlinger (Tamino), Britt-Marie Aruhn (la prima dama), Kirsten Vaupel (la seconda dama), Birgitta Smiding (la terza dama), Birgit Nordin (la regina della notte), Ulrik Cold (Sarastro), Ragnar Ulfung (Monostatos), , Elisabeth Eriksson (Papagena), Erik Saedén (l'oratore, der Sprecher), Gösta Prüzelius (il primo sacerdote), Ulf Johanson (il secondo sacerdote), Hans Johanson e Jerker Arvidson (due guardie della Casa delle Prove), Urban Malmberg, Ansgar Krook e Erland von Heijne (i tre Geni), Lisbeth Zachrisson, Nina Harte, Helena Högberg, Elina Lehto, Lena Wennergren, Jane Darling e Sonja Karlsson (sette damigelle), Einar Larsson, Siegfried Svensson, Sixten Fark, Sven-Eric Jacobsson, Folke Johnsson, Gdöta Bäckelin, Arne Hendriksen, Hans Kyhle, Carl Henric Qvarfordt (nove sacerdoti), Erik Saeden (narratore). Prima TV: 1/1/1975; prima cinematografica: 4/10/1975 Röda Kvarn; Produttore: Mäns Reuterswärd; origine: Svezia; durata: 135 minuti.
La trama del Flauto Magico può essere riassunta così (mi sembra che il riassunto sia opera di Massimo Mila): il principe Tamino supera delle prove per mostrare di essere degno della felicità; Papageno non le supera e non ci capisce niente, ma alla fine è felice lo stesso.
A differenza di altri capolavori di Mozart (Don Giovanni, Così fan tutte, Le nozze di Figaro), “Il flauto magico” segue una storia un po’ pasticciata, poco lineare, metà favola per bambini e metà argomento serissimo con momenti anche tragici e oscuri. E’ una cosa voluta: l’opera nasce per un teatro popolare, a Vienna, ed è la prima volta che Mozart esce dai teatri di corte; bisognava confrontarsi con un pubblico meno colto e più di bocca buona, far ridere, commuovere.
Il risultato complessivo è comunque buono, prima di tutto perché la musica è di altissimo livello e anche molto piacevole (impresa non facile!), e poi perché la storia non è così male. E’ come nelle favole, e si sa che le favole possono essere anche molto profonde, come insegnano Propp, Bettelheim, Calvino. Ci sono dunque molti livelli, nella storia di Papageno e del principe Tamino; quello più semplice è la storia per bambini, e nei paesi nordici, soprattutto in quelli di lingua tedesca, l’opera viene quasi sempre letta così.
Il secondo livello, anche questo voluto e cercato, è quello della massoneria. Erano massoni sia Mozart che Schikaneder, l’autore del libretto del “Flauto magico”; ma qui bisogna intendersi. Questa massoneria è del tempo della Rivoluzione Francese: per l’epoca era qualcosa di positivo e di rivoluzionario a sua volta, perché per i massoni a contare non era la nascita, ma le capacità delle persone. Mozart era un servitore, così come lo era Haydn: nel ‘700 il talento personale non bastava ad affrancarsi, bisognava piuttosto scegliersi con cura i genitori. “Il Flauto Magico” va in scena nel 1791, due anni dopo la Rivoluzione Francese: siamo a Vienna e non a Parigi, ma queste date vanno tenute presenti per capire l’entusiasmo di Mozart verso la massoneria, alla quale sono dedicati molti altri numeri del suo catalogo e non solo quest’opera. L’importanza della massoneria e il suo ruolo nella società cambiano già nell’Ottocento, quando le idee della Rivoluzione Francese cominciano a diventare la normalità: essere nobili, nell’Ottocento, conterà poco; e nel Novecento ancora meno. Non voglio parlar male della massoneria, ma si sa che l’evoluzione delle società segrete è spesso verso forme poco chiare e ambigue: “aiutare i fratelli” può avere un senso positivo ma – soprattutto oggi - anche un altro significato.
Comunque sia, “Il Flauto Magico” è pieno di riferimenti massonici. La scena delle prove a cui viene sottoposto Tamino è presa dai rituali massonici per l’iniziazione, che dovrebbero essere segretissimi: ma spero di non offendere nessuno se metto qui un brano relativo a quei riti, così come lo riporta un testimone d’eccezione: il conte Pierre Bezuchov, nientemeno.
Leone Tolstoj, Guerra e Pace, Libro Secondo parte seconda: dai capitoli II, III, IV, VTolto un fazzoletto dall'armadio, Villarski ne coprì gli occhi di Pierre (...) Dopo averlo guidato così per una decina di passi, Villarski si fermò. "Se in voi è fermo il proposito di entrare a far parte della nostra fratellanza," disse " voi dovrete sopportare con coraggio qualunque cosa vi accada." (...) «Quando sentirete un colpo all'uscio, vi toglierete la benda dagli occhi" aggiunse "e vi auguro coraggio e buona fortuna..." (...) All'uscio risuonarono alcuni forti colpi. Pierre si tolse la benda e si guardò attorno. Nella stanza era un buio fitto: soltanto in un angolo, entro qualcosa di bianco, ardeva una lucerna. Pierre si accostò e vide che la lucerna era posata su una tavola nera, accanto a un libro aperto. Il libro era il Vangelo. La cosa bianca, entro la quale ardeva la lucerna, era un teschio umano, con i suoi buchi e con i suoi denti. Dopo aver letto le prime parole del Vangelo: "In principio era il Verbo e il Verbo era Dio”, Pierre fece il giro della tavola e vide una gran cassa aperta e piena di qualcosa d'indistinto. Era una bara, colma di ossa. (...)
L'uscio si aprì e qualcuno entrò. A quella luce fioca, alla quale del resto egli aveva già avuto il tempo di assuefarsi, Pierre vide entrare un uomo di media statura. (...)"Con che scopo siete venuto qui?" chiese colui che era entrato, volgendosi nella direzione del fruscio fatto da Pierre. "Perché siete venuto qui, voi che non credete alla verità della luce e non vedete la luce? Che volete da noi? Sapienza, virtù, istruzione?" (...) Mezz'ora dopo il retore tornò per comunicare al neofita le sette virtù corrispondenti ai sette gradini del tempio di Salomone, che ogni massone deve coltivare in sé. Tali virtù erano: 1) la discrezione, cioè la conservazione del segreto dell'ordine; 2) l'obbedienza ai superiori dell'ordine; 3) la moralità dei costumi; 4) l'amore del prossimo; 5) il coraggio; 6) la liberalità; 7) l'amore della morte. (...) Ma le altre cinque virtù, che Pierre ricordò enumerandole sulle dita, Pierre se le sentiva tutte nell'anima (...) La settima virtù l'aveva dimenticata e, per quanto facesse, non gli riusciva di ricordarla.
La terza volta il retore tornò prima e domandò a Pierre se fosse sempre fermo nel suo proposito, e pronto a sottomettersi a qualunque cosa gli potesse venir richiesta. "Sono pronto a tutto" rispose Pierre. (...) "Se siete risoluto, debbo procedere all'iniziazione" disse il retore, facendosi più presso a Pierre. "In segno di liberalità, vi prego di consegnarmi tutti gli oggetti preziosi che avete." "Ma io non ho nulla con me" rispose Pierre, supponendo che gli si chiedesse tutto ciò che possedeva. "Quel che avete addosso: l’orologio, il denaro, gli anelli." Pierre cavò fuori in fretta il taccuino e l'orologio, e stentò a lungo per togliersi dal grosso dito l'anello matrimoniale. "In segno di obbedienza, poi,» riprese il retore quando questo fu compiuto "vi prego di spogliarvi." Pierre si tolse la giacca, il panciotto e la scarpa sinistra, secondo le indicazioni del retore. Il massone gli aprì la camicia dal lato sinistro del petto e, chinandosi, gli alzò fino al ginocchio il pantalone sinistro. Pierre voleva togliersi la scarpa destra e rimboccare anche l'altra gamba dei pantaloni, per risparmiare questa fatica a uno sconosciuto, ma il massone gli disse che non importava e gli porse una pantofola per il piede sinistro. (...) Poco appresso venne a prenderlo nel tempio buio non più il retore di prima, ma il garante Villarski che Pierre riconobbe alla voce. Alle nuove interrogazioni sulla fermezza dei suoi propositi, Pierre rispose: "Sì, sì, consento!" e con un radioso e infantile sorriso sulle labbra, il grasso petto scoperto, camminando a passi irregolari e incerti con un piede scalzo e l'altro calzato, andò avanti verso la spada che Villarski teneva puntata contro il suo petto nudo. Da quella stanza fu guidato avanti e indietro per una serie di corridoi, finché finalmente lo condussero davanti all'uscio della loggia. Villarski tossì: gli risposero, secondo l'uso massonico, alcuni colpi di martello, e l'uscio si aprì dinanzi a loro. (...) Dopo di che, presagli la mano destra, gliela fecero posare su qualche cosa, mentre gli ordinavano di appoggiare con la sinistra un compasso alla mammella sinistra, e facendogli ripetere le parole che uno di loro leggeva lo costrinsero a prestare giuramento di fedeltà alle leggi dell'Ordine. Poi spensero le candele, accesero, come Pierre sentì dall'odore, una fiamma a spirito e gli dissero che avrebbe visto la piccola luce. Gli fu tolta la benda e, come in un sogno, Pierre vide al fioco lume di una fiamma a spirito alcune persone, in grembiuli identici a quello del retore, stargli di fronte e tener in mano delle spade puntate contro il suo petto. Fra di loro era un uomo con una bianca camicia insanguinata. A quella vista, Pierre si slanciò sulle spade per esserne trafitto, ma le spade si ritirarono e subito dopo gli fu rimessa la benda sugli occhi.
"Ora tu hai visto la piccola luce" gli disse una voce sconosciuta. Poi di nuovo accesero le candele, gli dissero che adesso doveva vedere la grande luce, di nuovo gli tolsero la benda e più di dieci voci dissero insieme all'improvviso: "Sic transit gloria mundi”». (...) Due fratelli condussero Pierre all'altare, gli disposero i piedi ad angolo retto e gli ordinarono di stendersi bocconi, dicendogli che così si prosternava alla porta del tempio.
"Deve ricevere prima la cazzuola!" disse a bassa voce un fratello. "Oh, basta, per favore" disse un altro. Pierre, senza obbedire, si guardò attorno con gli occhi miopi e smarriti e, tutt'a un tratto, fu colto da un dubbio: "Dove sono? Che sto facendo? Non si stanno prendendo gioco di me? Non mi vergognerò poi, ricordando queste cose?" ma il dubbio non durò che un attimo. (...) Il gran maestro iniziò la lettura dello statuto. Lo statuto era molto lungo e Pierre, per la contentezza, l'agitazione e la vergogna, non fu in grado di capirne neanche una parola. (...)
Lev Tolstoj, Guerra e Pace, Libro Secondo parte seconda: capitoli II, III, IV, V
Pierre si accorgerà di quanto erano vuoti e ridicoli questi rituali; lo farà più avanti nel romanzo, quando Napoleone ha ormai invaso Mosca e lui si troverà in marcia fra gli sfollati, in compagnia del semplice Platon Karataev, un uomo del popolo che gli saprà dare indicazioni migliori su cosa fare della sua vita. Si può ancora ricordare che, al tempo di Mozart, a proposito di questi riti vi fu un grande scandalo, che coinvolse il medico Mesmer e lo costrinse ad andarsene via, a Parigi, dove in seguito divenne famoso come ipnotizzatore. Questi riti, a non saperne nulla, erano molto impressionanti: infatti un viennese importante se ne spaventò moltissimo e mise a serio rischio la sua salute, probabilmente un infarto causato dallo spavento di trovarsi bendato e al buio davanti a veri pugnali.
Cercando materiale sul film di Bergman, ho ritrovato un commento stizzito del critico musicale Carlo Marinelli su un programma di sala della Scala, relativo ai rimescolamenti di Bergman nel secondo atto. Marinelli recensiva le edizioni discografiche disponibili, parla piuttosto bene della direzione musicale (questa è una buona esecuzione, nel complesso, anche se le edizioni di riferimento sono altre) ma è molto severo con Bergman. Gli spostamenti effettuati da Bergman sono molti, ma a me non disturbano più di tanto; il “Flauto” dal punto di vista drammaturgico non è un capolavoro, e la musica di Mozart funziona lo stesso dato che non si tratta di una Sonata o di una Sinfonia; direi che sono spostamenti effettuati con molta competenza e intelligenza e quindi si può fare. Bergman rende tutto più scorrevole, dal punto di vista filmico. Per esempio, ci sono due momenti in cui si va molto vicini alla tragedia, nel “Flauto Magico”, quando la principessa e il buffo Papageno – ognuno per suo conto - si trovano ad essere molto vicini al suicidio; ovviamente in entrambi i casi seguirà il lieto fine. Il Flauto Magico è una storia molto positiva, dove il male viene sconfitto; Bergman accosta questi due momenti, e l’effetto è sorprendente. Questi piccoli spostamenti di scena sono una finezza del grande regista svedese, e senza l’intervento di Marinelli probabilmente non li avrei colti.
E poi mi sono chiesto: forse a Marinelli non piaceva il lavoro di Bergman perché così facendo si appanna il significato massonico? Non conosco il pensiero del critico musicale, e non ho la minima intenzione di sondarlo; ma penso proprio che questo sia un punto importante, perché Bergman non è molto interessato alla massoneria, va a scavare più a fondo. E io trovo ammirevole quest’operazione, perché il significato massonico del Flauto è molto in superficie, come spiega bene Quirino Principe, da un programma di sala della Filarmonica della Scala, stagione 1987-88:
(...) In una lettera ad Albert Schweitzer, Bruno Walter parlava nel maggio 1956 di una pietas mozartiana (Frömmigkeit) per nulla in contraddizione con la curiosità illuministica di Mozart né con la sua adesione ai franchi muratori: «la sua religiosità intima (non soltanto dogmatica), il suo senso della morte vicina, quale si esprime alla fine in modo sublime nell'Ave verum. Sono convinto che non c'è contrasto tra questa spiritualità e le prove dell'acqua e del fuoco - cioè, il mistico processo dell'iniziazione - che l'anima di Mozart, tesa all'assoluta purezza delle cose, rintracciò nel libretto di Schikaneder...».
Non c'è, in Mozart alle soglie della morte (ma neppure in altre occasioni della sua vita di artista), alcun progetto di «demistificare» il mistero, e soprattutto quel mistero, l'ultimo, che per definizione non è demistificabile. Ma il fascio di luce, e quale luce!, diretto e concentrato sui misteri, questo fu un suo modo di essere, legato al suo inimitabile talento individuale. Che il bersaglio del fascio di luce sia il mistero, non toglie nulla alla forza dei lumi; che al mistero ci si accosti con una lampada accesa, non toglie nulla alla forza del sacro. Che poi i lumi, per quanto accecanti e candidi, non rivelino mai il mistero fino in fondo, è tutt'altra questione. (Quirino Principe sugli ultimi anni di Mozart, edizioni Teatro alla Scala 1987)
Bergman fa uno scavo psicologico e mitologico molto profondo, con accenni brevi e intensi e anche divertenti (i tre fanciulli che diventano per un istante come amorini, nella scena finale di Papageno).
C’è anche la grotta di Lascaux, appena accennata, negli affreschi del Tempio di Sarastro: dunque un rimando davvero serio e profondo (la Regina della Notte, il conflitto fra Sole e Luna, la Dea Madre: chissà se Joseph Campbell ha mai scritto sul Flauto, di sicuro lo ha fatto Elemire Zolla...).
Inoltre, ed è un particolare molto bello, il regista svedese riprende e sottolinea qualcosa che è già presente in Mozart: il Principe non affronta da solo le prove, lo fa con la sua compagna. E’ Pamina, in Bergman, a prendere per mano il marito e a guidarlo nell’Oltretomba, fra le ombre dei dannati, tra il fuoco e la desolazione. Insieme affrontano le prove e ne escono felici e incoronati di fiori: tutto quello che abbiamo visto nel film, in queste sequenze, è molto più simile al mito di Orfeo che ai rituali massonici.
Poi, va da sè, i capolavori andrebbero eseguiti come sono scritti. Ma non si fa quasi mai, nemmeno per l’Amleto. Il problema è il solito: se a prendersi le libertà è uno bravo, va tutto bene, altrimenti sono dolori.
In questo caso, la parte visiva è affidata a Ingmar Bergman: qualcosa si può discutere ma nulla è lasciato al caso, tutto è bello o comunque interessante, e Bergman continua, come negli altri suoi film, nel suo lavoro di ricerca fatto sui volti, sulle mani, sui gesti, sulle immagini, sulla luce.

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