martedì 26 ottobre 2010

E la nave va ( VI )

E la nave va (1983). Regia: Federico Fellini - Soggetto e sceneggiatura: Federico Fellini e Tonino Guerra. I testi delle opere liriche sono di Andrea Zanzotto. - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Musica: Giuseppe Verdi (Aida e La forza del destino), Rossini (Petite Messe Solennelle, e altro) Bellini (Norma), Debussy (Suite bergamasque), Schubert (Moment musicale) , Saint Saens (Carnevale degli animali), e altri. Musiche originali, arrangiamenti e direzione d’orchestra di Gianfranco Plenizio - Orchestra e coro: Rai Radiotelevisione Italiana. Maestro del coro: Ines Meisters - Maestro collaboratore: Elvio Monti - Scenografia: Dante Ferretti - Costumi: Maurizio Millenotti - Coreografia: Leonetta Bentivoglio - Architetti: Nazzareno Piana, Massimo Razzi -Arredamento: Massimo Tavazzi, Francesca Lo Schiavo - Pitture e affreschi: Rinaldo e Giuliano Geleng - Pittore scenografo: Italo Tomassi - Scultore: Giovanni Gianese - Effetti: Adriano Pischiutta - Direttore del doppiaggio: Riccardo Cucciolla - Troupe francese: Catherine Breillat (sceneggiatore), Therry Nahon (aiuto regia), George Dybman (direttore di produzione), Willy Rahau (ispettore di produzione) - Adattamento dialoghi italiani: Roberto De Leonardis - Durata: 132'
INTERPRETI E PERSONAGGI: Freddie Jones (il giornalista Orlando, doppiato da Ferruccio Amendola). I cantanti: Barbara Jefford (Ildebranda Cuffari, voce del soprano Mara Zampieri), Elisa Mainardi (Teresa Valegnani, voce del mezzosoprano Nucci Condò), Linda Polan (Ines Ruffo Saltini, voce del soprano Elisabeth Norberg-Schulz), Victor Poletti (Aureliano Fuciletto, voce del tenore Giovanni Bavaglio), Fred Williams (Sebastiano Lepori, voce del tenore Carlo Di Giacomo), Maurice Barrier (Ziloev, voce del basso Boris Carmeli), e Janet Suzman (Edmea Tetua, nei filmati proiettati). I musicisti: Paolo Paoloni (ll maestro Albertini), Umberto Zuanelli (Maestro Rubetti 1),Vittorio Zarfati (Maestro Rubetti 2). I nobili austroungarici: Fiorenzo Serra (ll Granduca di Harzock), Pina Bausch (La Principessa Lherimia), Philip Locke (Primo Ministro), Colin Higgins (Capo della Polizia). Gli altri viaggiatori: Peter Cellier (Sir Reginald Dongby), Norma West (Lady Violet Dongby), Sarah Jane Varley (Dorotea), Roberto Caporali e Franca Maresa (genitori di Dorotea) Pasquale Zito (Il Conte di Bassano, fan di Edmea Tetua), Jonathan Cecil (il comico Ricotin), Elizabeth Kaza (Produttrice), Ugo Fangareggi (capocameriere), Claudio Ciocca, Antonio Vezza (il capitano), Alessandro Partexano (ufficiale di bordo), Franco Angrisano (un cuoco), Francesco Maselli (guardiano del rinoceronte), Domenica Pertica (il pastore), Christian Fremont, Marielle Duvelle, Helen Stirling, Ginestra Spinola (cugina di Edmea), Regina Nemni (chiromante). Le voci vere dei cantanti: Mara Zampieri (lldebranda Cuffari), Elisabeth Norberg-Schulz (Ines Ruffo Saltini e Primo Soprano Serbo), Nucci Condò (Teresa Valegnani), Giovanni Bavaglio (Aureliano Fuciletto), Carlo Di Giacomo (Sabatino Lepori), Boris Carmeli (Ziloev), Bernadette Lucarini (Secondo Soprano Serbo), Bruno Beccaria (Tenore serbo).


«Non mi ricordo più bene chi ha detto che, allo stesso modo in cui l'individuo attraverso i sogni esprime quella parte di se stesso più segreta, misteriosa, inesplorata che corrisponde all'inconscio, così la collettività, l'umanità farebbe la stessa cosa attraverso la creazione degli artisti. La produzione artistica cioè, non sarebbe altro che l'attività onirica dell'umanità; il pittore, il poeta, il romanziere e anche il regista, risponderebbero a questa funzione, di elaborare, organizzare col proprio talento i contenuti dell'inconscio collettivo, esprimendoli, rivelandoli sulla pagina, sulla tela o sullo schermo. Mi sembra che se questa visione delle cose può funzionare, allora cada ogni questione di limite o di restrizione all'attività artistica. Può esaurirsi, può avere limiti l'inconscio? Finiscono i sogni? L'attività dell'uomo sognante, che sembra automatica, nell'artista si conforma a una tecnica, a un linguaggio della rappresentazione, a una simbologia, e l'artista riconosce nel suo creare una maniera di mettere ordine in qualcosa che già esiste, un farlo affiorare alla percettibilità sensoriale e intellettuale; è l'archetipo della creazione che si rinnova, cioè il passaggio dal caos al cosmos, dall'indifferenziato confuso e inafferrabile, all'ordine, e cioè all'espresso , al compiuto. Ancora: dall'inconscio alla coscienza. Per questo penso anche che nell'artista sia più forte il senso del fare che la sua finalità. Mi pare che chi opera nell'espressione è all'interno di questa che ricerca soprattutto la propria giustificazione e anche la propria felicità; e che qualsiasi valutazione che lo sbalzi fuori da questa collocazione faccia parte di una pericolosa, annebbiante infatuazione di se stesso che lo porta, per vanità, a chiacchierare a sproposito su quello che ha fatto e sul perché lo ha fatto; tradendo quasi sempre l'ineffabilità del fenomeno in sé.
Federico Fellini, da “Intervista sul cinema”, a cura di Tullio Kezich (ed. Laterza 1983)
Cercando materiale per questi post (ce n’è pochissimo, “E la nave va” è forse il film più dimenticato tra quelli di Fellini) mi sono letto tutte le critiche d’epoca pubblicate da Claudio G. Fava sul volume della Gremese editore, e ho trovato in tutte un grande imbarazzo. Se Fellini e Guerra volevano spiazzare i loro spettatori, critici di professione compresi, ci sono riusciti in pieno. Per essere più precisi, si nota l’imbarazzo tipico di chi non ci ha capito niente, ma deve parlare ugualmente del film; e magari vuole parlarne bene, perché è un ammiratore di Fellini, ma proprio non gli escono le parole. Che dire su questo film? Ci si aggrappa a quello che si è capito, e molti si aggrappano (anche per far colpo sul lettore, chissà) al momento più “spinto”, cioè ai giochini erotici di sir Reginald e di sua moglie. Scrivo “spinto” tra virgolette perché in realtà il tema è appena accennato, con molta grazia: a sir Reginald piace che la moglie abbia sempre nuovi amanti, la cosa lo eccita molto. Gli altri passeggeri della nave lo sanno benissimo, e ne ridono: ma di nascosto, che le apparenze siano salve. Così il bel marinaio è convinto di aver fatto una conquista, tutti sono contenti, eccetera eccetera.

Ma questo è solo un giochino, porta via poco spazio, altri temi (come la congiura della principessa Lherimia) sono trattati con più ampiezza, eccetera. Insomma, Fellini e Guerra si stanno un po’ divertendo alle spalle di chi li guarda e pensa di aver capito tutto: un gioco divertente, simile a quello dei Duchamp e dei Piero Manzoni, o di John Cage. Un gioco divertente e istruttivo, come in questo famoso dipinto di Manet intitolato “Dejeuner sur l’herbe”. Voi cosa ci vedete? Io vedo un prato, un bosco, un canestro di frutta, una michetta di pane, due signori con la barba di cui uno con un buffo cappello, due donne, una barca e uno specchio d’acqua (forse un fiume); una delle donne è più lontana e sta raccogliendo qualcosa, forse dei fiori o magari sta cercando un quadrifoglio. Ah, voi avete visto una donna nuda? E’ vero, perbacco, c’è davvero una donna nuda, ed è anche in primo piano; e sì che io non me ne ero nemmeno accorto.
Qualcosa di simile ha fatto anche quel burlone di Magritte, che ha dipinto una pipa e poi ci ha scritto sotto: “Questa non è una pipa”; e ci sono molte interviste di Fellini dove il nostro regista si mostra un po’ divertito e un po’ seccato dai tanti luoghi comuni sul suo cinema. Bisognerebbe sempre ricordarsi che Fellini nasce come disegnatore umoristico, sul "Marc'Aurelio": per un vignettista la caricatura - più o meno stilizzata - è elemento essenziale. In queste sequenze, dove la caricatura è appena accennata, direi che il riferimento d'obbligo è Giuseppe Novello.

Ma, intanto, siamo nella sala di scherma approntata per il Granduca, dove si intrufola il nostro giornalista che vorrebbe fare un’intervista. Ma rischia grosso: le guardie del corpo gli saltano addosso e lo immobilizzano a terra. Poi tutto si spiega, e l’intervista viene concessa sia pure con tutte le precauzioni e con la mediazione dell’interprete (ma noi sappiamo che il Granduca parla perfettamente la nostra lingua). Anche il Granduca vuole onorare Edmea Tetua, della quale era ammiratore, inizia dunque il nostro Narratore; “Sì, ma la domanda?” chiede l’interprete. E il giornalista chiede cosa ne pensa il Granduca dell’attuale situazione politica. Il Granduca tace, sta a testa bassa, parlano solo gli altri: la risposta è “siamo sull’orlo della montagna”, ma il prete non è d’accordo con l’interprete: “siamo sulla bocca della montagna”. Segue una discussione su come si traduce quella frase, finché il Granduca non si spazientisce, fa due passi avanti e dice: “Pum pum!”. Forse entrerà in guerra? Ma no, “pum pum” sta a indicare il vulcano: “siamo seduti sulla bocca del vulcano”, ecco quello che ha detto il Granduca. Che conclude sorridente, in tedesco: “se succede qualcosa, siamo tutti morti”. E qui finisce l’intervista.

Al minuto 54 Sul ponte, tempo di foto ricordo: per tutti, anche per il Granduca. Torna Debussy per la Cuffari che, colta di sorpresa mentre non sta facendo niente, ma in compagnia del direttore d'orchestra, ci improvvisa sopra un vocalizzo.

Tra i cantanti vi è anche un basso, “il basso profondo più profondo del mondo”. Si farà dunque un esperimento, che verrà ripreso per il cinegiornale: con un vocalizzo, il basso profondo più profondo del mondo manderà in catalessi una gallina. Si va nelle cucine, si prende una gallina, si esegue: non solo la gallina va in catalessi, ma il nostro giornalista si addormenta in piedi seduta stante, cade, viene soccorso. “Cos’è successo?”. La gallina è ancora lì, immobile, una zampa alzata.
Una gallina ipnotizzata l’avevamo già vista nel “Kaspar Hauser” di Werner Herzog; non con la voce ma dei gesti molto semplici. Herzog spiega che ipnotizzare le galline è molto facile, io non ci ho mai provato e non so cosa dire; so però che gli elefanti comunicano con gli infrasuoni, note molto basse che il nostro orecchio non percepisce, e che i cani possono ascoltare gli ultrasuoni, eccetera. Insomma, l’argomento è trattato in maniera divertente ma è tutt’altro che uno scherzo, e su questo argomento sia la fisica (l’acustica) che la medicina (neurologia) danno spiegazioni esaurienti.

Merita qualche riga anche la questione del basso russo: in quegli anni era famosissimo (e ricchissimo) Fjodor Scialiapin, che però non era un basso profondo e non somiglia per niente a questo attore; di Scialiapin, del tenore Enrico Caruso e del baritono Titta Ruffo in quel 1914 si diceva che avrebbero potuto comperarsi mezza New York, per via dei loro ingaggi stratosferici.

Tra i bassi profondi, capaci di toccare le note più basse sul pentagramma, ci sono stati e ci sono ancora molti russi o bulgari; si dice che sia per via della liturgia cristiano-ortodossa, che richiede espressamente questo tipo di voce molto suggestiva. Però il basso profondo più profondo del mondo, almeno nel Novecento, è probabilmente stato un italiano: Giulio Neri. La sua discografia, negli anni ’50, è in questo senso davvero impressionante.

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