SOGNI DI DONNA (KVINNODRÖM, 1955). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Hilding Bladh. Scenografia: Gittan Gustafsson. Montaggio: Olle Jacobsson Interpreti Eva Dahlbeck (Susanne), Harriet Andersson (Doris), Ulf Palme (Henrik Lobelius), Gunnar Björnstrand (il console), Inge Landgré (Marta Lobelius), Kerstin Hedeby (Marianne, la figlia del console), Sven Lindberg (Palle), Bengt Ake Bengtsson (il signor Magnus), Naima Wifstrand (Madame Arén), Ludde Gentzel (Sundstrom, il fotografo), Git Gay (la commessa), Axel Düberg (il fotografo giovane). Durata: 84’
“Sogni di donna” viene subito dopo i primi film importanti di Bergman (Donne in attesa, Gycklarnas afton-Una vampata d’amore, Monica e il desiderio, Una lezione d’amore), e precede i film che gli diedero grande fama. Dopo “Sogni di donna” parte una sequenza impressionante: “Sorrisi di una notte d’estate” è dello stesso anno, 1955; poi vengono Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), eccetera.
Insomma, ci si aspetterebbe qualcosa che si inserisca in questa sequenza, invece “Sogni di donna” è un piccolo passo indietro, un ritorno ai temi dei primissimi film di Ingmar Bergman.
Non è un brutto film, e anzi lo si vede molto volentieri; però fa un’impressione curiosa, sapendo il punto in cui è situato nella filmografia del regista svedese. Un’impressione che assume aspetti di vera curiosità quando vi si vede Gunnar Björnstrand che interpreta la parte di un vecchio signore cagionevole di salute (l’anno dopo sarebbe stato il vigoroso scudiero del “Settimo sigillo”), e che la modella elegantissima dell’alta moda, quasi una Audrey Hepburn di “Vacanze romane”, è interpretata da un’attrice somigliantissima ad Harriet Andersson – e poi si scopre che è veramente lei, la stessa Harriet Andersson che fin qui, e anche in seguito, aveva fatto tutt’altre parti. Del resto, è questo il mestiere dell’attore: bravissimi tutti e due, e anche gli altri.
Ma, andando con ordine, “Sogni di donna” si può anche definire come un film in due episodi, con prologo ed epilogo ad unirli; protagoniste principali due donne, una fotografa di alta moda interpretata da Eva Dahlbeck e una delle sue modelle, molto giovane, interpretata da Harriet Andersson.
L’inizio di “Sogni di donna” sembra un film di Antonioni, che girava film come questo proprio negli stessi anni, ma a Milano. Il fotografo in azione, con le modelle e le truccatrici, può anche suscitare un curioso confronto con “Blow up”: la differenza principale, oltre al colore e agli undici anni di differenza, è che qui il capo è una donna, interpretata da Eva Dahlbeck. Un’autentica perla le immagini iniziali: penso che nessuno assocerebbe il nome di Ingmar Bergman a una fotografia in primissimo piano di due labbra femminili, e invece eccola qui, proprio sui titoli di testa e con il nome del regista a scorrervi sopra.
E’ una sequenza lunga una decina di minuti, quasi senza parole, piuttosto divertente, dove tutti i presenti sembrano essere annoiati a morte e non vedere l’ora che il lavoro finisca per fare qualcosa di più divertente. Cosa che succederà di lì a poco: si lascia Stoccolma e si va a fare un servizio in esterni, all’aperto, a Göteborg. Dopo un breve viaggio e una notte in albergo, è l’inizio di una “folle journée” che toccherà tutte e due le donne nel profondo; ma poi si continuerà come prima, come se nulla fosse successo – ma anche questa è solo apparenza.
La prima avventura tocca alla giovane modella, interpretata da Harriet Andersson: che viene corteggiata da un ricco ed elegante signore che potrebbe essere suo padre, ne accetta i regali, e finirà con l’essere testimone di una lite in famiglia. Un finale mesto e decisamente triste, che avvicina questo film più ai film di Max Ophüls (magari “Il piacere”, con l’uomo anziano che finge di essere giovane ma non ha più la forma fisica necessaria per reggere balli e divertimenti) che alle commedie vere e proprie o ad altri film di Bergman. Gunnar Björnstrand, truccato un po’ troppo pesantemente (nei primi piani si vede), è come al solito molto bravo in un ruolo che sarebbe stato perfetto per Vittorio De Sica; Harriet Andersson è altrettanto brava, ma forse la migliore di tutti in questo episodio è Kerstin Hedeby, un’attrice che non conoscevo e che qui interpreta la figlia di Björnstrand.
Di seguito, vediamo Eva Dahlbeck che, dopo aver licenziato su due piedi la ragazza che a causa di questo corteggiamento si era presentata in clamoroso ritardo sul posto di lavoro (ma nel finale tutto tornerà a posto, come prevedibile), si ritrova perduta nel più classico dei triangoli: è l’amante di un uomo sposato, e dovrà affrontarne la moglie in una sequenza che sembra tratta di peso da un film di Dreyer. Il richiamo a Dreyer ovviamente non è casuale, dato che si tratta di uno dei punti di riferimento per Bergman. I tre attori sono Eva Dahlbeck (l’amante), Ulf Palme (il marito), e Inga Landgré (la moglie).
Il finale vedrà le due donne ancora nello studio fotografico di Stoccolma, come all’inizio: tutto si sta riaggiustando e le loro vite stanno tornando alla normalità dopo questa giornata balorda, una giornata che sembrava promettere molto ma che invece è stata da dimenticare.
I due episodi, al di là delle evidenti differenze del soggetto, sono molto simili nella loro costruzione e nel loro svolgimento. Si tratta infatti di due triangoli, molto simili anche nelle diverse ambientazioni: a renderli simili è soprattutto l’interpretazione delle due attrici “terze”, entrambe gelide e aggressive, quelle che entrano e rompono l’incanto della coppia. Due donne fredde e consapevoli e due passionali, istintive: così si potrebbe riassumere, un po’ rozzamente, quello che succede in “Sogni di donna”. Si può ancora aggiungere qualcosa riguardo l’atteggiamento dei due uomini durante il confronto risolutivo: che riguarda solamente le due donne, perché in entrambi gli episodi i due uomini tacciono imbarazzati e si ritirano sul fondo dell’inquadratura. Sono le due donne a guardarsi negli occhi, faccia a faccia: una delle due è in posizione di vantaggio, la legge e la morale sono dalla sua parte; l’altra può solo subire e accettare suo malgrado delle decisioni che non sono sue.
Su “Sogni di donna” non c’è molto, è uno dei film di Bergman più dimenticati, e Bergman stesso si dimentica volentieri di citarlo nei suoi libri; eppure ci sono molti spunti interessanti e sequenze divertenti, da commedia. Si possono anche cogliere molti riferimenti a temi importanti nell’opera di Bergman, qui appena accennati o sottotraccia: per esempio a temi mitologici, come la citazione esplicita di Medea a 1h07’ quando Eva Dahlbeck dice a Ulf Palme che sarebbe disposta anche a sterminare la sua famiglia pur di stare con lui, oppure lo sguardo gelido e neutro da divinità nel volto perfetto di Inga Landgré, nello stesso episodio. L’attrice Inga Landgré, protagonista del primo film di Bergman da regista e presenza abituale in molti suoi film degli anni ’50, appare spesso gelida e quasi soprannaturale nello sguardo, uno sguardo inquietante che sembra guardare direttamente nell’aldilà e che avrebbe trovato la sua espressione e collocazione perfetta nel finale del “Settimo sigillo”. Anche la sequenza al luna park, di per sè poco significativa, ha però al suo interno una sequenza di scheletri e di fantasmi che torneremo a vedere spesso, e che non si giustificano del tutto con il contesto in cui appaiono.
E’ molto impressionante anche il riferimento alla testa di lupo, davanti al ritratto della ragazzina che si rivela poi essere la moglie del protagonista, in manicomio da un quarto di secolo. Era ancora l’epoca dei manicomi: ma anche l’ultimo film di Bergman (Sarabanda, 2002) si chiude proprio così, con la visita ad una donna rinchiusa nella struttura medica che ha preso il posto del manicomio, una casa di cura.
Tra gli attori, molti volti familiari: Naima Wifstrand, proprietaria della casa di mode da cui Björnstrand acquista il vestito, sarà la madre di Viktor Sjöström nel “Posto delle fragole” e l’anziana maga nella troupe di prestigiatori di “Il volto”; il fotografo che si intravede all’inizio è Axel Düberg, lo spietato assassino di “La fontana della vergine”. Non sono riuscito ad identificare tre attori molto simpatici, l’uomo enormemente grasso dell’inizio, il portiere dell’albergo, e il vecchio fotografo di Göteborg.
Avendo visto “Sogni di donna” quasi per ultimo, alla fine di questi due anni passati con i film di Bergman e di Tarkovskij (e di Fellini, e di tanti altri) è difficile per me togliermi dalla testa l’impressione di essere come l’omino di Georges Perec in “La vita istruzioni per l’uso”: con in mano l’ultimo pezzo del puzzle, e l’impressione che qualcosa non torni.
Ma in verità mi mancano ancora due o tre film di Bergman da rivedere, a parte i primissimi (quelli girati fra il 1945 e il 1951), quindi può ancora darsi che il disegno, prima o poi, mi esca completo in ogni dettaglio. Vedremo...
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