mercoledì 9 marzo 2011

La vergogna ( I )

LA VERGOGNA ( Skammen, 1967). Scritto e diretto da Ingmar Bergman Fotografia: Sven Nykvist - Scenografia: P.A. Lundell. Musica: quasi assente, solo una brevissima citazione di Bach, un carillon, poco altro. Interpreti: Liv Ullmann (Eva Rosenberg), Max von Sydow (Jan Rosenberg), Gunnar Björnstrand (colonnello Jacobi), Birgitta Valberg (signora Jacobi), Sigge Fürst (Filip), Hans Alfredson (Lobelius), Willy Peters (un anziano ufficiale), Per Berglund (un soldato), Vilgot Sjöman (l'intervistatore), Ingvar Kjellson (Oswald), Rune Lindström (un signore grasso), Frank Sundström (ufficiale che guida l'interrogatorio), Frei Lindqvist (lo storpio), Ulf Johanson (il medico), Björn Thambert (Johan), Gösta Prüzelius (il pastore), Karl-Axel Forssberg (il segretario), Bengt Eklund (la guardia), Ake Jörnfalk (il condannato a morte), Jan Bergman (l'autista di Jacobi), Stig Lindberg (l'assistente medico). Durata: 103 minuti

- Certe volte mi sembra che sia tutto un sogno. Non un sogno mio ma quello di un altro, e del quale io faccio parte. Che cosa avverrà quando chi ci ha sognato si sveglierà e si vergognerà del suo sogno?
(da “La vergogna” di Ingmar Bergman: Liv Ullmann, minuto 46)


- Ho fatto un sogno. Percorrevo una strada bellissima: da un lato c’erano delle case tutte bianche, con arcate, colonne, e portici; e dall’altro lato c’era un parco molto grande. Sotto gli alberi, lungo tutta la strada, scorreva dell’acqua color verde scuro. Sono arrivata davanti a un muro molto alto, che era completamente ricoperto di rose; poi all’improvviso un aereo ha incendiato le rose. Io non avevo paura, era tutto così splendido. Stavo lì a guardare nell’acqua, e ci vedevo quelle rose che bruciavano. Io avevo in braccio una bambina, era nostra figlia, si stringeva contro di me e sentivo che mi sfiorava la guancia con la sua bocca. Tutto il tempo, sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto, e che io avevo dimenticato.
(da “La vergogna” di Ingmar Bergman: Liv Ullmann, il finale del film)
Un film sulla guerra, sull’angoscia della guerra e sui cambiamenti che porta in noi; fortemente influenzato dalla guerra in Vietnam (il film è del 1967-68) ma che prende subito una strada diversa dall’attualità, raccontando di una storia che, al di là delle apparenze (automobili, abiti, oggetti contemporanei) potrebbe essere ambientata in qualsiasi tempo.
Bergman, nei suoi commenti, dice che non esistono guerre giuste, e che i cambiamenti peggiori nei suoi personaggi avvengono quando la guerra è già finita: ma, vedendo il film, ci si chiede subito se questa guerra sia mai finita. Da cosa fuggono Liv Ullmann e Max von Sydow, nella seconda metà del film, se non dalla guerra e dalla distruzione?
A tratti, sembra già di vedere “Quintet” di Robert Altman (che è del 1979, dieci anni dopo): un mondo distrutto dalla stupidità umana e dai cambiamenti climatici, dove i pochi sopravvissuti giocano ad eliminarsi l’un l’altro. Un mondo dove non c’è più speranza; eppure ci si stava abbastanza bene, in quel mondo. Prima che cominciasse la guerra, quel mondo evocato nella parte iniziale, un mondo dove i due protagonisti, marito e moglie, potevano vivere di musica, suonando le prime parti in un’orchestra – ma tutto questo era prima, prima della guerra. La guerra, che non si sa da dove viene e da che cosa è stata provocata, ha sconvolto tutto; e la musica non è più possibile.
Non c’è musica in “La vergogna”: si ascolta un carillon al minuto 17, poi un frammento (molto breve) dei “Concerti Brandeburghesi” di J.S. Bach e viene mostrato uno spartito di Dvorak, il Trio in si bemolle maggiore; e dalla radio qualcosa arriva, ma il violino prezioso e amico viene solo mostrato ma mai suonato, e finirà distrutto dalla violenza dei soldati.
Un dialogo importante è a 1h03’ dall’inizio, quando il colonnello (interpretato da Gunnar Björnstrand) si siede a tavola con i due protagonisti, Liv Ullmann e Max von Sydow.
«Se non vi volessi bene, sareste già in un campo di lavoro...» dice il colonnello; ma le cose si stanno già mettendo male anche per lui, e lo sa. Poi si rivolge a Max:
- Sei un artista, o un fallito?
Max non capisce che si tratta di una domanda seria, e ride:
- Oh, un fallito, suppongo.
Ma il colonnello prende il suo bastone e lo sbatte con estrema violenza sulla tavola apparecchiata. E’ una reazione molto forte, che spaventa.
Poi dice: «Santa libertà dell’arte, santa fragilità dell’arte...» e sono parole importanti, che però non sono riuscito bene a decifrare. Di sicuro, questa scena non è lì per caso: forse è la vera chiave per capire tutto il film, la libertà e la fragilità dell’arte, dell’espressione artistica ma anche della nostra libertà interiore: fragile come il prezioso violino che verrà spezzato...
Dopo questa frase, c’è un lungo silenzio in cui tutti e tre rimangono fermi, impietriti. Il silenzio viene rotto dal colonnello stesso, che molto prosaicamente annuncia di voler uscire per orinare, lasciando soli marito e moglie, che sono molto spaventati e non si alzano dalla tavola.
Il colonnello rientrerà poco dopo, annunciando che i dintorni sono pieni di soldati: che cercano lui, con ogni evidenza. Il colonnello di Björnstrand, in questa scena, dice altre frasi che vanno riportate:
- Le rare volte che ho avuto un contatto umano era sempre associato al dolore. E’ successo anche a voi?
- No, per noi non è stato così.
- Certo, per voi è diverso, che ne parlo a fare?
Il colonnello chiede a Liv e poi a Max di toccarlo, di fargli sentire un contatto umano.
- Le parole non servono, niente scuse o giustificazioni, solo colpa e rimorso, e una grande paura.
Queste parole mi hanno evocato il ricordo di una poesia del padre di Tarkovskij, che in un suo verso molto simile: direi che non c’entra niente col film di Bergman, ma la trascrivo lo stesso.
Ieri ti ho attesa fin dal mattino,
ma loro sapevano che non saresti venuta.
Ricordi che bella giornata era?
Una festa. Ed io uscivo senza il cappotto...
Oggi sei venuta, e ci hanno preparato
una giornata particolarmente grigia.
La pioggia, l'ora così tarda,
le gocce scorrono per i rami freddi...
La parola non serve a placarle,
né le asciuga il fazzoletto.
( Arsenij Tarkovskij, da “Lo specchio” di Andrej Tarkovskij )

Da qui in avanti ci sono scene molto drammatiche, da grande film d’azione, in cui colpisce la grande verità della recitazione, tre grandissimi attori; si proseguirà così fino all’incontro con il giovane soldato, e all’incubo finale, l’imbarco come il dover passare una soglia, quasi come Stalker di Tarkovskij.
(continua)

6 commenti:

Marisa ha detto...

Devo ringraziarti perchè mi stai costringendo a rivedere Bergman e soprattutto dei film che, per la sensazione di amarezza che mi avevano lasciato, non pensavo di riaffrontare.
Invece mi accorgo di come siano fondamentali e mi aiutano a mettere a fuoco proprio il perchè di tanta sgradevolezza. So per esperieza, sia diretta che professionale, come siamo abilissimi nel rimuovere tutto ciò che ci disturba e che potrebbe interrogare la nostra coscienza in senso non proprio lusinghiero per l'immagine che vorremmo conservare di noi, e questo è uno di quei film che lavorano in quella direzione.
Già il titolo ce lo indica chiaramente: La Vergogna, che è precisamente il sentimento che vorremmo sempre evitare e quindi proiettiamo in continuazione sugli altri. Non sentiamo spesso nelle nostre trasmissioni la frase "Si vergogni!..."?
Anche il film, nella frase che opportunamente hai riportato, in una scena iniziale proietta la vergogna su un fantomatico "altro", che sta sognando e quando si sveglia deve provare vergogna, ma progressivamente e, nella seconda metà a ritmi sempre più incalzanti, ci mostra come la durezza e la violenza si impossessi anche dei protagonisti, che non riescono più a guardarsi in faccia e dovranno fare quindi i conti con la vergogna che la loro complicità col male sta per ora rimuovendo...

Giuliano ha detto...

Penso che sia qualcosa che è sfuggito anche a Bergman...Bergman ammette che molte cose gli sono sfuggite, per questo film, che non è riuscito a essere chiaro.
L'interpretazione che ne dai tu è perfetta, quei "si vergogni" dovrebbero essere proiettati su chi pronuncia la frase, il più delle volte.
Il sogno è nostro, non è di qualcun altro. Possono inserirsi parole di altri, immagini non nostre (questo soprattutto da quando esistono cinema e tv), ma il sogno è comunque nostro.

Marisa ha detto...

Un film come questo mi fa molto riflettere sulle analogie e differenze tra Bergman e Tarkovskij, a cui anche tu ti sei riferito.
Soprattutto vedo, oltre le indubbie eccellenze nell'uso della macchina da presa, le analogie dei temi trattati in "Andrej Rubliov" e "Sacrificio": la guerra e la sua relazione con l'arte, la minaccia di una distruzione totale, il rapporto tra responsabilità individuale e collettiva...
Ma immediatamente mi saltano all'occhio le differenti soluzioni: amare e chiuse in Bergman, aperte e luminose in Tarkovskij.
Che sia frutto della famosa "anima russa" che opera permettendo di attraversare il dolore e le crisi attingendo a quella profonda sorgente di spiritualità che lavora attraverso il "silenzio" di Andrej Rubliov e la capacità di sacrificio di un intellettuale come Alexander?

Giuliano ha detto...

Tarkovskij e Bergman sono molto diversi come stile, e la somiglianza non l'avrei forse mai trovata se non ci fosse stato "Sacrificio": il rimando a "Luci d'inverno", anche per la scelta precisa di un attore "disturbante" come Allan Edwall, parla chiarissimo.
Bergman era più vecchio di Tarkovskij ed è vissuto molto più di lui; non so se esista qualche intervista in cui parla di Tarkovskij, di certo sono stati insieme, all'isola di Faro dove è girato "Sacrificio", e chissà se qualcuno ha registrato le loro chiacchierate...
(nel '68 Andrej Rubliov era appena uscito nei cinema, con grande ritardo causa la censura sovietica)

Marisa ha detto...

Sì Bergman lo conosceva ed ammirava anche molto. Senti cosa diceva in "lanterna magica" :
"Quando un film non è documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? E' un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media. Per tutta la mia vita ho bussato alla porta di quegli spazi in cui lui si muove con tanta sicurezza. Solo qualche volta sono riuscito a intrufolarmi dentro. I miei tentativi coscienti hanno avuto quasi sempre come risultato dei penosi insuccessi: L'uovo del serpente, L'adultera, L'immagine allo apecchio..." (pag. 71)
Io penso che la grande differenza sia nello spietato super-io di Bergman, dalla sua rigida educazione protestante che gli generava continui sensi di colpa, più che dal fatto di costruire le sue immagini. Anche Tarkovskij era molto rigoroso e non lasciava niente al caso, ma i risultati sono diversi e Bergman ne era consapevole.
Questo non toglie niente alla grandezza di Bergman, anzi lo rende più umano e sicuramente noi siamo più simili ai suoi personaggi che non alla superiorità spirituale e alla grande misericordia di Andrej e alla capacità di sacrificio di Alexander.

Giuliano ha detto...

sì, è vero, mi ero annotato questa pagina di Bergman, hai fatto bene a ricordarmela. Per non perdermi troppo, mi sto limitando a "Immagini", e "Lanterna magica" dovrei rileggerlo con calma, così come gli altri libri di Bergman (negli anni '90 ne pubblicò parecchi).
Due perfezionisti, in ogni caso: penso che provassero a lungo, sia Bergman che Tarkovskij, e avevano attori formidabili. Forse la vera differenza sta qui, che Bergman aveva anche il lavoro quotidiano in teatro, non solo il cinema. Ed è anche uno dei lati più piacevoli e divertenti di questo mio rivedere i film di Bergman, trovare e ritrovare questi attori, sempre gli stessi e sempre diversi...