venerdì 18 marzo 2011

Falstaff ( V )

Chimes at Midnight (Falstaff, 1966). Regia di Orson Welles. Tratto da William Shakespeare (Riccardo II, Enrico IV- Enrico V, Le allegre comari di Windsor); narrazione tratta da “Cronache d'Inghilterra” di Raphael Holinshed. Sceneggiatura di Orson Welles. Distribuito negli Stati Uniti come “Falstaff” e in Spagna come “Campanadas a medianoche” . Fotografia: Edmond Richard. Costumi: Orson Welles. Musica: Angelo Francesco Lavagnino.
Cast: Orson Welles (sir John Falstaff), Keith Baxter (principe Hal, poi re Enrico V), John Gielgud (re Enrico IV), Jeanne Moreau (Doll Tearsheet), Margaret Rutherford (signora Quickly), Norman Rodway (Henry Percy, detto Hotspur), Marina Vlady (Kate Percy), Alan Webb (mastro Shallow), Walter Chiari (Silenzio), Michael Aldrich (Pistol),Tony Beckley (Poins), Fernando Rey (Worcester), Andrew Faulds (Westmoreland), José Nieto (Northumberland), Jeremy Rowe (principe Giovanni). Beatrice Welles (paggio di Falstaff), Paddy Bedford (Bardolph), Julio Pena, Fernando Hilbeck, Andrés Mejuto. Keith Pyott, Charles Farrell. Durata:119 minuti

Orson Welles, intervista del dicembre 1974, filmata per la tv francese (da “It’s all true” ed. minimumfax, pag.233 e seguenti) :
- Lei dice che oggi nessuno ama i vecchi. E’ per questo che ha girato un film su un vecchio affascinante come Falstaff?
«No, non l'ho fatto per invertire una tendenza universale, ma perché è un ruolo che ho sempre ritenuto uno dei due o tre più grandi che ci siano in Shakespeare, e avrei voluto recitarlo almeno quattro o cinque volte, perché ci sono almeno quattro o cinque modi di interpretarlo. Questo film ha sviluppato solo un certo tema. Ma ci sono molti altri modi di accostarsi al personaggio. È stato scritto che Falstaff era un Amleto mai tornato dal suo esilio in Inghilterra, diventato vecchio e corpulento. La verità di Falstaff è che Shakespeare lo capiva meglio di tanti altri grandi personaggi che ha creato, perché Falstaff era costretto a sudarselo, il suo pane. Doveva guadagnarsi quel che mangiava facendo ridere la gente. Non è che in sé fosse divertente: doveva essere divertente.»
- Ma in Shakespeare Falstaff ha anche un lato piuttosto ripugnante...
«Credo che nell'intero corpus dell'opera di Shakespeare sia l'unico uomo davvero buono.»
- Ma come agente di reclutamento, per esempio, lascia fuori i ricchi facendosi pagare e arruola solo i poveri.
«Senza dubbio, ma in questo modo lei trasferisce alcune istanze sociali del ventesimo secolo in quell'epoca. La scena è non è altro che uno scherzo terribile e divertente. Secondo me non dimostra che Falstaff è un uomo cattivo. In effetti non dimostra nulla, se non che è un simpatico furfante.»
- Comunque penso che lei ingigantisca un po' la bontà di Falstaff.
«Io credo di no. Davvero. E non sono di certo l'unico a dirlo: un buon numero di specialisti shakespeariani sono d'accordo con me. Io penso che Falstaff sia il solo grande personaggio immaginario che sia veramente buono. I suoi difetti sono così trascurabili. Nessuno è perfetto, e lui è pieno di imperfezioni fisiche e difetti morali, ma la parte essenziale della sua natura è la bontà. È quello il tema di tutti i drammi in cui appare.»
- Una volta lei ha detto che ammira le ambiguità di Shakespeare e il fatto che le cose non siano mai del tutto chiare.
«Nel caso di Falstaff ci sono due momenti veramente ambigui, e io li ho rappresentati nel modo più forte che potevo. Uno è la scena brutale del reclutamento, e anche se l'ho interpretata in modo gaio, non per questo è meno brutale. Su un palcoscenico inglese, naturalmente, non sarebbe mai stata rappresentata in alcun altro modo che non fosse quello della commedia. É una scena che fa ridere il pubblico, dopo una lunga pausa, perché viene dopo un'interminabile catena di guerre civili. Così, che sia giusto o no, non ho fatto altro che seguire la tradizione classica. Ma in questo modo non stavo cercando di far passare Falstaff per un uomo onesto. Di sicuro è un truffatore. Ma ci sono anche truffatori buoni...
-E questo era accettabile in un contesto elisabettiano?
«Ma certo! Dopo Shakespeare, chi è stato il più grande personaggio della cultura inglese? Io direi Francis Bacon.»
- Come uomo era orribile.
«Eppure resta uno dei più grandi autori di tutti i tempi. Era anche un esempio perfetto di cosa accadeva al primo e all'ultimo gradino della scala sociale durante il regno dei Tudor. Se Bacon alla fine è stato condannato per corruzione, allora perché il povero Falstaff, senza un centesimo in tasca, avrebbe dovuto agire diversamente nei confronti dei suoi compatrioti? Questo, penso, l'umorismo cupo della situazione, è come un'immagine che riflette l'interezza della società, un'immagine che Shakespeare non avrebbe mai osato mostrare in nessun altro modo. Venendo da lui, è una critica veritiera della società, non solo della corruzione dei suo tempo, ma del modo in cui le cose funzionano da centinaia di anni.»
-Eppure continua a giustificare il principe Hal in tutti i modi.
«Non potrebbe fare altrimenti. Il principe Hal è l'eroe patriota ufficiale. Ma lui l'ha reso estremamente ambiguo.»
- Sì, anche se lei non lo ha fatto altrettanto! Nel suo film il principe è talmente gelido...
«Hal vuole bene a Falstaff, ma prepara un tradimento necessario da un punto di vista machiavellico. Sto parlando del machiavellismo, quello del vero Machiavelli che conosciamo e che è di gran lunga superiore a colui che Shakespeare giudicava così scaltro. Hal è di certo un grande principe machiavelliano. Nonostante voglia bene a Falstaff, è pronto a tradirlo fin dall'inizio.»
- A che tipo di necessità si riferisce?
«La necessità di un grande re. Come avrebbe potuto costringere la corte d'Inghilterra e il popolo a rispettarlo se avesse tenuto con sé dei rozzi accoliti come compagni? Questo tipo di tradimento è comunque un'infamia, anche se è una necessità machiavellica. Lo si può giudicare severamente o con indulgenza, ma per quel che mi riguarda trovo impossibile essere accomodante con il principe. Dal punto di vista della ragion di Stato capisco quel che deve fare un principe, ma non posso amarlo se lo fa.»
- Ma lei sa che il pubblico moderno...
«Ah, ma stavo girando un film, e un film non è mai fatto per il pubblico. Un lavoro drammatico è fatto per il pubblico. Il film è fatto per se stesso.»
- Non pensa mai alla gente che lo vedrà?
«Mai!»
- In altre parole, è una specie di suo solipsismo personale?
«È interamente personale, perché il pubblico di un film non esiste. È impossibile immaginarlo. È fatto di duecento berberi dall'altra parte dei monti dell'Atlante. Di un gruppo di intellettuali negli archivi cinematografici di Atene. Di settecento borghesi che hanno votato per Nixon. Di un singolo individuo che guarda la televisione. Quel pubblico non esiste. E io sto scrivendo la mia manciata di film anche per la posterità, dove ci saranno altri generi di pubblico che non riesco neanche a immaginare. È impossibile rivolgersi a un pubblico, a meno che non ci si rivolga a un pubblico ben definito, come hanno fatto Godard, Fellini, o Bergman. Quando metto in scena un'opera teatrale, mi rivolgo a un pubblico di quest'anno in questa città. Quando faccio un film, faccio un film e basta.»
- Anche quando gira un film negli Stati Uniti?
«Certo.»
- Quindi Quarto potere non era orientato verso un pubblico americano?
«Si possono orientare le cose quanto si vuole, ma cosa ne penserà poi il pubblico americano? Io non ne avevo la più pallida idea. Non si tratta di disprezzo per il pubblico, è solo che il pubblico di un film davvero non è concepibile. Il sessanta per cento del pubblico non sentirà mai le parole che diciamo, perché il film sarà doppiato. Forse dieci milioni di persone lo vedranno soltanto in seguito, quando saremo tutti morti. Sono poveri, sono ricchi, sono grandi, sono piccoli. Non sappiamo chi sia il pubblico di un film, perciò non possiamo far altro che qualcosa in cui crediamo. Così quando interpreto Falstaff, do vita a un Falstaff che secondo me sarà al centro di una buona storia. Non è Enrico IV-Parte prima, che sarebbe stato un altro film, né Enrico IV-Parte seconda, o Enrico V, che sarebbe stato ancora un altro film. Ma mettere insieme tutti e tre significa creare qualcosa di nuovo. E c'è da fare anche un'altra distinzione: ho il fortissimo sospetto che un film tratto da opere shakespeariane non sia affatto quel che potrebbe essere la versione teatrale. Perché Shakespeare scriveva per un pubblico in carne e ossa, non per il cinema. E quando giro un film, mi sento libero come Verdi o qualsiasi altro adattatore che parta da un soggetto di Shakespeare. Non sento alcun obbligo verso la tradizione shakespeariana. Posso anche esserne vittima o prigioniero, ma non lo accetto come limite. [ ...] Credo che vi siano migliaia di modi di mettere in scena Shakespeare, non sono dogmatico a riguardo. Semplicemente difendo il mio modo di farlo, che non è l'unico, e credo che sia possibile realizzare un film shakespeariano che in realtà sia anche un dramma teatrale. È quel che ha sempre fatto Laurence Olivier, e funziona molto bene. Perché non dovrebbe funzionare? Ma allo stesso modo è possibile non usare neanche una parola di Shakespeare.»
- Neanche una ?
«Sì, perché no? Tutte le varianti sono possibili, ma penso che quando si adotta il mezzo cinematografico, questo nuovissimo mezzo espressivo, si è liberi di decidere fino a che punto si rimarrà shakespeariani e quale sia il limite entro il quale si sta realizzando il proprio film; e non credo che a teatro si ponga una questione simile.»
- In quel caso, se possiamo tornare al principe Hal che lei critica così severamente, cosa ha cercato di rappresentare attraverso di lui?
«È il principe machiavelliano, figlio di un usurpatore senza alcun diritto al trono. E obbligato a essere un eroe ufficiale. E io ritengo che l'eroe obbligato a essere tale sia uno dei personaggi più sgradevoli. E’ anche un uomo che viene redarguito senza mezzi termini dal padre perché non si sta comportando abbastanza da re. Ed Enrico IV, naturalmente, è più preoccupato di un vero re riguardo a quel che un principe dovrebbe essere, perché lui non è un vero re: è soltanto Bolingbroke, che ha deposto l'ultimo legittimo sovrano d'Inghilterra, cioè Riccardo II. Così credo che l’intera tetralogia vada compresa nel contesto dell'usurpazione, o piuttosto, non andrebbe compresa affatto, specialmente se si è liberi di non usare la storia di Enrico V. Quando ho messo in scena Five Kings a teatro, usavamo la storia di Enrico V: ed Enrico V, cioè il principe Hal trasformato in re, era interpretato in modo molto diverso, perché nel finale dovevamo giungere al suo famoso discorso. Ma il ruolo in sé era concepito come quello di un demagogo che progetta di diventare un grande eroe popolare. In lui c'è questa brutalità che, secondo me, lo caratterizza, insieme a qualcosa di fondamentalmente volgare. Credo che la scena in cui corteggia Caterina, che Olivier interpreta nel suo film come se Enrico fosse un principe italiano, in quel modo perda la comicità che dovrebbe contenere, perché Enrico è una specie di Gary Cooper che si sforza di parlare italiano, non un principe italiano che cerca di parlare francese. Nello spirito di Shakespeare, era un duro anglosassone, sia nel senso buono della parola che in quello cattivo. Ciò che Stalin chiamava senso della storia, così come la violenza che ha avuto origine dal padre e moltissime altre cose... tutto questo gli impone un grande ruolo storico, frustrando la sua parte migliore. La sua buona natura, il suo angelo buono era Falstaff, il suo cattivo angelo il re. Anche se aveva l'obbligo di diventare re, quest'obbligo era implicato nelle illegalità che sorgono alla fine di una guerra civile. E’ una situazione politica molto complessa.»
- Vuol dire che in un certo senso Hal usa un padre contro l'altro?
«Non credo che li usi. Cioè, credo che sì, Shakespeare li usi, e molto visibilmente. Quando fa interpretare a Falstaff il ruolo di Enrico IV... Si dà un gran daffare a mostrare al pubblico che ci sono due padri...»
- La scena in cui Enrico V ripudia Falstaff è una delle più commoventi che lei ubbia mai girato.
«Non le sembra che sia una delle scene più terribili che ci siano in letteratura?»
- Dipende dal modo in cui è realizzata...
« “Io non ti conosco, vecchio...” Dopo una frase del genere, è molto difficile far apparire buono l'uomo che la pronuncia. Perché un buon principe avrebbe detto: "Portate quest'uomo da qualche parte, voglio parlare con lui". Ma "Io non ti conosco, vecchio" è di una tale crudeltà demagogica, è terribile. Il ruolo è stato interpretato a meraviglia da Keith Baxter. E’ stato straordinario perché anche a lui si spezzava il cuore. Le necessità del potere... sappiamo che il potere corrompe, e che qui c'è una corruzione molto più profonda di quella che c'è nell'alleggerire qualche viaggiatore di un po' del suo denaro, o nel permettere ai ricchi di evitare la leva. Shakespeare adora la parodia. E gli piace moltissimo quando in un dramma può mettere un personaggio in condizione di fare la parodia di un altro. Gloucester è la parodia di Lear, e secondo me la scena del reclutamento è una parodia della battaglia per il potere a corte. A Shakespeare piace mostrare le cose in termini semplici, o in termini folli, in qualsiasi termine, mostrando le stesse cose due volte, un'immagine allo specchio di questa o quell'altra cosa. La parodia è specificamente shakespeariana.»
- Lei ha usato il tema del tradimento anche in altri film. La gente tradisce i propri amici per varie ragioni, oppure tradisce gli stessi valori in cui crede.
«Sì. Per lei cos'è peggio?»
- Credo sia peggio tradire i valori in cui si crede...
«Eccoci al punto! Ora sappiamo in cosa siamo diversi! Per me tradire un amico è quanto c'è di peggio. Non ci scommetterei la testa, ma la cosa definisce bene la nostra posizione.»
- Se non fosse per il fatto che, in tutta onestà, non credo tanto nei valori...
«Mi ha incastrato! Questa è una risposta alla Falstaff...»
- Nel mondo così com'è, è molto difficile credere nei valori. Perciò l'unico valore che resta, credo, è l'amicizia. E quando un uomo tradisce un amico...
«Bruto e Cesare...»
- Sì, oppure, nell'Infernale Quinlan, Menzies che tradisce Quinlan. In un certo senso, sembra che lo faccia perché crede nella legge, crede che Quinlan abbia essenzialmente torto.
«E’ quello che penso anch'io. Nel film cerco di essere più ambiguo possibile, e lei è stato molto intelligente a prendermi in trappola. Perché la maggior parte dei miei amici e molti critici che commentano L'infernale Quinlan credono che Quinlan sia dotato di una bontà intrinseca, mentre per me è un farabutto. Il fatto che sia umano, che si possa capirlo nella sua umanità, tutto questo va anche bene. Ma io, per quanto mi riguarda, credo profondamente nella supremazia della legge. E credo che un poliziotto corrotto sia la peggiore creazione della società.»
- Ma questo non contraddice quel che ha detto poco fa?
«Ma si capisce, è quello che le sto dicendo, lei mi ha incastrato, mi ha preso in una trappola terribile! Penso che il tradimento di Quinlan da parte di Menzies sia orribile, ma la sua motivazione è buona. Così torniamo a Hal che sta per prendere il potere. Con la differenza che Menzies distrugge se stesso: non diventa capo della polizia. Non vede anche lei una piccola differenza?»
- Perché è così affascinato dall'immagine del traditore?
«Non lo sono affatto! (...)»
- Stava dicendo che Vargas applica la legge in modo meccanico, che è un tecnocrate della legge.
«Sì, è la creatura, l'uomo nuovo. L'abbiamo visto emergere in ogni Paese, non c'è bisogno di specificarne la nazionalità, è l'uomo moderno che non agiterà mai le masse, no, lui è un computer ben programmato. Avrebbe potuto essere uno dei grandi capi della CIA, è facile immaginarlo in quel contesto. Qui si tratta di un messicano. Il Messico è un Paese nato dalla fermentazione di un'umanità deliziosamente corrotta che entra in una tecnocrazia nuova di zecca e produce tanti Vargas, che, cosa piuttosto strana, non sono eroi di cartapesta, ma sono veramente così.»
- Il tema del tradimento è essenziale anche in Shakespeare, no?
«Certo, politicamente all'epoca era essenziale. Perché non potevano avere idea di chi sarebbe stato ad architettare cosa, quale progetto. C'erano tante rivolte, tante cospirazioni... era davvero una grande preoccupazione dell'epoca, così come lo è nell'Europa dell'Est da quarant'anni a questa parte.»
- Vorrei leggerle qualche frase di un critico canadese: «Il traditore è molto più disturbante del codardo e dell'ipocrita. (...) Il codardo continua a vivere nella società, per quanto svergognato e disonorato. Il traditore trasmette il senso del nulla, dell'annichilimento, che è implicito nel dissolvimento di un gruppo sociale. Questo nulla, o non-essere, è un abisso più profondo della morte, perché la morte in sé affligge solo gli individui, e l’individuo non è, in questa concezione, la forma della vita umana. (...) Il traditore resta più imperscrutabile. Il suo motto è il “Non chiedermi nulla, quel che sai, sai " di Jago». Lei è d'accordo con questa definizione?
«Sì. E’ detto molto bene, e mi trova d'accordo. Chi lo ha detto?»
- Northrop Frye, in un libro sulle tragedie di Shakespeare che si intitola Fools of Time.
«Ma, tanto per essere anche un po' complicati, in effetti penso che la vera questione è se Jago sia davvero un traditore. “Non chiedermi nulla, quel che sai, sai” è una fantastica definizione del traditore. Ma sapere se Jago sia davvero un traditore o no è una di quelle discussioni atrocemente noiose. Io non credo che lo sia. Credo che Jago sia fedele a se stesso. Non è mai stato amico di Otello.»
- Perlomeno finge di esserlo.
«Finge l'amicizia come un leccapiedi, un adulatore. È il sottufficiale che cerca di salire di grado. All’inizio Otello lo tratta con disprezzo, e comincia a trattarlo con rispetto solo quando le sue forze malvagie, la sua stessa collera, vengono liberate da Jago.»
- Ho letto da qualche parte che lei avrebbe voluto unire Jago e Otello in un'unica immagine di omicida.
«No, non è vero.»
- Ma ha reso fa loro relazione più stretta possibile...
«Questo sì.»
- Ma così facendo non ha accentuato la singola persona, l'individuo, piuttosto che !'immagine dell'uomo nella suo società?
«Credo che la questione sia quella della tragedia domestica. Otello è unico nell'opera di Shakespeare, perché è l'unica tragedia - abbiamo visto che Shakespeare non prediligeva la tragedia, ma è quel che io intendo per tragedia - che non ha luogo a corte, dove i personaggi non sono re che determinano il corso della storia. In Shakespeare ogni cosa è comica a meno che il protagonista non porti una corona e non ingaggi battaglie. Qui il dramma è domestico: tutto si svolge in una casa, e riguarda un uomo e sua moglie. E se lui è un grande generale, è solo perché il pubblico non avrebbe preso sul serio nessun personaggio se non fosse stato importante.»
- In Shakespeare, la responsabilità congiunta di Jago e di Venezia è evocata nella prima scena, quella in cui Brabanzio accetto il discorso razzista di Jago, fin dall'inizio. Lei, d'altra parte, ne ha completamente spostato l'accento. Il film incomincia mostrando Otello e Desdemona morti, e la folla in strada mentre Jago viene portato in prigione . Perché ha messo il finale della tragedia all’inizio?
«Perché no? Mi piace mettere il finale di una tragedia al suo inizio perché è molto difficile farlo a teatro, e non si può fare se si rispetta la struttura formale di Shakespeare. Ma io trovo che aggiunga molto. Tempo dopo, ho messo in scena il dramma a Londra (nel 1951), e non ho fatto niente del genere. Il dramma manteneva esattamente quella che io considero essere la sua forma shakespeariana. Jago era molto ben interpretato da Peter Finch, un modo molto diverso di impersonarlo. Io me la sono cavata molto meglio in teatro che non al cinema, o diciamo meno peggio. Ma anche qui, nessuno è buono... come si fa a essere buoni nei panni di Otello? Però sono d'accordo con quello che diceva a proposito di Jago. Tutti gli accenti che ho posto erano modifiche da me introdotte per esigenze specifiche del film che intendevo realizzare.»
- Nel suo allestimento teatrale del dramma, si tratta più di impotenza che di attitudine mefistofelica...
«Vede, l'attitudine mefistofelica è terribilmente fuori moda... è stata più o meno distrutta nel diciannovesimo secolo dalle calze rosse e dalle botole installate sul palco.»
- Lei ritiene che l'impotenza possa spiegare la malvagità di Iago?
«Almeno lo spero! Non siamo riusciti a trovare di meglio. L'altro modo, come fece Olivier quando interpretò Iago con Ralph Richardson, è di renderlo omosessuale. In fin dei conti, mi sembra una motivazione più debole dell'impotenza, però in qualche modo bisogna pur fare... in realtà, in Shakespeare Iago è un farabutto. Ora, nella vita io conosco alcuni cattivi, semplici cattivi, imperscrutabili cattivi; ma il pubblico non è disposto a credergli. Perciò bisogna aggiungere qualcosa e dire: "è impotente", o "è questo e quest'altro". Per quel che mi riguarda, sono d'accordo con Shakespeare: non ci sarebbe bisogno di fornirgli nessuna motivazione.»
- In altre parole, lei ha utilizzato l'impotenza per dissimulare il mistero della cattiveria di Iago piuttosto che sradicarla attraverso una spiegazione?
«Esattamente. Non volevo sradicarla. Volevo semplicemente che il pubblico credesse nella sua possibile esistenza. Di questi tempi la gente non crede più ai cattivi. Da Freud in poi, credono che esistano solo persone disturbate!»
- Quindi lei crede nel mistero dell'iniquità?
«Il "segreto potere dell'iniquità" (espressione tratta dalle Lettere di san Paolo, Tessalonicesi II, che è usata da Melville per caratterizzare Claggart in Billy Budd): sì, ci credo. Credo nell'esistenza di quel che si indica con la parola più fuori moda che ci sia al mondo: e cioè il male.»
- Il male individuale? In che modo lo concettualizza?
«Non lo so. È imperscrutabile. Ho dovuto affrontare il male per tutta la vita, dunque credo che esista. Ma non ho mai cercato di raffigurare, al cinema o al teatro, del male puro, del male in se stesso, perché penso che gli altri non lo capirebbero. Hanno tutti subìto il lavaggio del cervello da parte dei successori di Freud. Ci sono demoni ovunque nell'aria, non lo sa?»
- Una volta lei ha detto che nei suoi film c'è sempre una ricerca, un obiettivo. L'imperscrutabilità del traditore si avvicina all'imperscrutabilità di ogni essere umano...
«Questo lo ritroviamo anche nelle più antiche opere letterarie del Medioevo, che sono la fonte più assoluta del mio modo di pensare. C'è sempre un male imperscrutabile, e c'è sempre una ricerca. È nel cuore più profondo del nostro folklore, che per me ha inizio nell'Alto Medioevo, con cui sento delle forti affinità, e giunge fino all'inizio del Rinascimento. È il periodo che comprendo meglio. Riesco a capire molto meno la fine del Rinascimento, anche se sono un regista cinematografico barocco - o almeno lo ero. Ora non lo sono più. Non mi considero un uomo rinascimentale.»
- In genere è questo che si dice di lei!
«Lo so. Ma non riesco proprio a vedermi in quel modo. Il Rinascimento è pieno di persone con cui mi sarebbe piaciuto moltissimo trovarmi a cena, ma preferisco l'inizio del quattordicesimo secolo!»
- Lei dice che il potere corrompe, e la cosa è ben illustrata in gran parte dei suoi film, ma c'è un altro tipo di corruzione che è provocato dall'età, dalla povertà, dal declino fisico...
«La debolezza della vecchiaia, la malattia, la miseria, eccetera. Questo tipo di corruzione proviene da una specie di disastro. È una forma di corruzione molto innocente, come è innocente la corruzione della carne dopo la morte. A me sembra una parte del ciclo della natura più che qualcosa di imperscrutabile.»
(Orson Welles, intervista del dicembre 1974, filmata per la tv francese) (da “It’s all true” ed. minimumfax, pag.233 e seguenti)


- Come sarà il suo Falstaff?
«Non lo so... spero che ne verrà fuori un buon lavoro. Posso solo dire che sotto l'aspetto visivo sarà molto modesto, e, spero, allo stesso tempo soddisfacente e corretto. Ma per come lo vedo io, si tratta essenzialmente di una storia umana e spero che un buon numero di idioti del giro cinematografico possano sentirsene ingannati. Questo perché, come ho detto, ritengo che il film sarà molto modesto sotto l'aspetto visivo. Il che non significa che sarà inesistente sul piano della visione, ma piuttosto che non sarà appariscente a quel livello. Il film è la storia di tre o quattro persone, e di conseguenza dovrebbero essere queste persone a dominarlo completamente. Credo che userò molti più primi piani del solito. Sarà davvero un film completamente al servizio degli attori.»
- Lei viene spesso accusato di essere egocentrico. Quando appare come attore nei suoi film, si dice che la macchina da presa sia, soprattutto, al servizio dello sua personale esibizione... per esempio, nell'Infernale Quinlan l'angolo di ripresa si muove dal campo totale al primo piano per cogliere il momento in cui lei appare per la prima volta uscendo dall'automobile.
«Sì, ma questa è la storia, il tema del film. Non interpreterei un ruolo se non apparisse come dominante sull'intera storia. Non credo sia giusto dire che utilizzo la macchina da presa a mio vantaggio e non a vantaggio degli altri attori. Non è vero. Anche se la stessa cosa verrà detta anche più di prima riguardo Falstaff, ma accadrà per il semplice fatto che nel film io interpreto Falstaff, non Hotspur. In questo momento penso e ripenso soprattutto al mondo in cui la storia si svolge, all'aspetto che avrà il film. Il numero di set che potrò costruire sarà così limitato che il film dovrà essere decisamente antibarocco. Dovrò disporre di numerose inquadrature generali piuttosto formali, come quelle ad altezza d'occhio, affreschi murali. È un grande problema dover ricreare un mondo in costumi d'epoca. In questo genere, è difficile ottenere un'impressione di vita reale, pochi film ci arrivano. Credo che sia dovuto al fatto che prima di cominciare a lavorare spesso non si concretizza, in tutti i suoi dettagli, l'universo che un film simile presuppone. Falstaff dovrà essere molto lineare sul piano visivo perché è soprattutto una storia umana molto reale, molto comprensibile e molto adattabile alla tragedia moderna. E nulla dovrà interferire con la storia e il dialogo. La parte visiva di questa storia dovrà esistere come sfondo, come qualcosa di secondario. Tutto quel che c'è d'importante nel film dovrà ritrovarsi nei volti; su questi volti si ritroverà l'intero universo di cui parlavo poco fa. Immagino che per me sarà "il" film, in termini di primi piani. Teoricamente, sono contrario a qualsiasi tipo di primo piano, anche se sono poche le teorie che considero come qualcosa di dato e stabilito, e preferisco restare molto libero. Sono decisamente contrario ai primi piani, ma sono convinto che questa storia li renda necessari.»
- Perché quest'avversione ai primi piani?
«Trovo meraviglioso che il pubblico possa scegliere, con i suoi occhi, cosa vedere di una singola inquadratura. Non mi piace forzarlo, e l'uso del primo piano equivale a una forzatura: non puoi vedere nient'altro. In Quarto potere, per esempio, avrete notato che c'erano pochi primi piani, quasi nessuno. Ce ne sono forse sei in tutto il film. Ma una storia come Falstaff li richiede, perché nel momento in cui si fa un passo indietro e ci si separa dai volti, vediamo gente in costume d'epoca e molti attori sullo sfondo. Più siamo vicini a una faccia, più questa diventa universale; Falstaff è una commedia cupa, la storia del tradimento di un'amicizia. Quel che mi attrae di Falstaff è che questo progetto mi ha interessato come attore, e mi capita raramente di essere interessato a un'opera cinematografica in quanto attore. Sono felice quando non recito. E invece Falstaff è una delle rare cose che voglio realizzare come attore. Tra le storie che ho scritto, sono solo due quelle che mi interesserebbe affrontare come attore. Nel Processo non volevo recitare assolutamente, e se l'ho fatto è perché non ho trovato un attore in grado di interpretare quella parte. Tutti quelli che abbiamo interpellato hanno rifiutato.»
- All'inizio ha detto che avrebbe recitato la parte del sacerdote...
«L'ho anche girata, ma, dal momento che non sono riuscito a trovare un attore per il ruolo dell'avvocato, ho tagliato le sequenze in cui recitavo la parte del sacerdote e ho cominciato a girarle di nuovo. Falstaff è un film di attori. Non solo il mio ruolo ma anche tutti gli altri sono fatti per mostrare quanto vale un bravo attore. Il mio Otello ha avuto più successo a teatro che al cinema. Vedremo cosa succederà ora con Falstaff; che è il miglior ruolo che Shakespeare abbia mai scritto. E’ un personaggio grande quanto Don Chisciotte. Se Shakespeare non avesse mai realizzato altro che questa magnifica invenzione, sarebbe già sufficiente a renderlo immortale. Io ho scritto la sceneggiatura traendo ispirazione dalle tre opere in cui Falstaff appare e da un'altra in cui si parla di lui, e ho completato il tutto con alcune cose trovate in un'altra opera ancora. Perciò ho lavorato su cinque opere di Shakespeare. Ma naturalmente ho scritto una storia su Falstaff, che riguarda la sua amicizia con il principe e la sua avversione nel momento in cui il principe diventa re. Nutro grandi speranze per questo film.»
(Orson Welles, intervista del 1964, realizzata in Spagna mentre girava “Don Chisciotte”) (da “It’s all true” ed. minimumfax, pag.182 e seguenti)

6 commenti:

Marisa ha detto...

Non conosco questo film di Orson Welles, ma non mi meraviglia tanta simpatia per Falstaff.
Sarebbe troppo lungo e complicato entrare nei singoli argomenti, ma trovo che Falstaff sia intrinsecamente "necessario" , anche se è stato del tutto inventato da Shakespeare, come complemento e contraltare del Principe Hal e futuro re Enrico V, e quindi vada visto in funzione dell'altro, quasi due apetti della stessa persona. Non penso perciò che lui sia "buono" e il principe "cattivo", perchè trovo che queste semplificazioni facciano torto alla complessità di tutti e due i personaggi e alla loro reciproca relazione, né tantomeno che Falstaff sia innocente ed innocuo.
Paradossalmente trovo che Falstaff impersoni un aspetto "adolescenziale", la tendenza cioè a stare con gli amici, fare bisboccia, parlar male dei genitori, il piacere di trasgredire, ecc...Poi però bisogna entrare nella vita ed assumere le proprie responsabilità, anche se non sono in genere quelle di dover far prosperare un regno. E qui trovo che l'aspetto Falstaff inevitabilmente "venga scaricato" da chi deve crescere. Il fatto che venga rappresentato come "vecchio" è geniale, perchè è vecchio tutto quello che "non cambia", che non si rinnova e si adegua alla nuova situazione. Falstaff è sempre uguale e questo viene scambiato per "fedeltà a sé stessi", ma non lo è. E' soltanto inerzia e per questo si illude che il principe, compagno di bagordi, sia lo stesso ora che è diventato Re, ma sbaglia. Lui è rimasto lo stesso (un aspetto ormai vecchio), ma il principe deve diventare adulto ed assumere nuovi atteggiamenti, perciò Il vecchio,( non più adatto e che non può o non vuole cambiare) da un punto di vista psicologico, deve morire.

C'è una versione molto bella della stessa storia in un film di Gus Von Sant del 1991 "Belli e dannati" con Keanu Reeves nella parte del principe, un giovane ereditiero che alla morte del padre si distacca altrettanto drasticamente dai compagni di bagordi di gioventù e dal leader del gruppo adolescenziale, un vero e proprio Falstaff, per assumere la dirigenza delle imprese del padre.
Lo so che sembra crudele, ma il distacco a volte deve essere totale. Sarebbe importante però non rimuovere dentro di sè il passato e "trasformare" le vecchie tendenze in nuove possibilità, per es. con nuove amicizie e non solo soci in affari.

Giuliano ha detto...

E' molto bella questa tua analisi, che mi coglie in parte impreparato. A dire il vero, conoscevo bene solo l'opera di Verdi, fino a qualche anno fa - non molti. Poi ho letto l'Enrico IV, e mi è piaciuto molto, ma ero già molto vicino a quell'età...
Il Falstaff delle Allegre comari è molto diverso, è davvero un uomo buono come dice Welles, e alla fine tutti ridono insieme a lui (Verdi ne fa un finale simile a quello del Don Giovanni di Mozart, ma stavolta Don Giovanni-Falstaff è sul palcoscenico, allegro e contento). Nei drammi storici, invece, fa davvero cose turpi, e anch'io sono rimasto un po' perplesso di quello che ne dice Welles (una rapina a mano armata, la corruzione nella scena della leva per l'esercito...) però la sua spiegazione riporta dentro il teatro shakespeariano, ed è utilissima per contestualizzare.
Welles, comunque, va sempre preso con un certo distacco: dice cose bellissime e sorprendenti, si impara molto, ma gli piaceva molto andare a ruota libera. Mi piacerebbe avere i filmati originali di queste interviste, ne ho qualche spezzone e Welles è davvero divertente, gli basta una piccola smorfia per far cambiare senso a quello che dice...

Marisa ha detto...

La grandezza di Shakespeare, come del resto di altri artisti, è che amplifica tanto i personaggi da renderli "mitici". In questo ognuno può proiettare qualcosa di sé e tutta l'opera diventa "catartica", come succedeva con il teatro greco. Paradossalmente, più i personaggi sono grandiosi, grotteschi ed esagerati, più c'è spazio per le proiezioni delle nostre parti inconsce, che sono appunto primitive, arcaiche, incestuose, smodate, sublimi, eroiche... e pertanto lontane e non riconosciute dall'Io, sempre controllato e a modino.
Falstaff ed Enrico V rappresentano quindi non la realtà storica, per quanto grande possa essere stato il vero Enrico V, ma proprio la raffigurazione del passaggio dalla giovinezza con le sue tendenze alla sfrenatezza all'età adulta e al bisogno di assumere le responsabilità. E' qui che, se la parte adulta rinnega la parte adolescenziale (il Peter Pan che è in ognuno di noi), si può assistere al problema "Falstaff", che invecchia e non regge alla rottura.

Giuliano ha detto...

Si può aggiungere che gli attori amano profondamente queste parti, da Riccardo III a Jago; e pensa a cosa poteva essere un "Falstaff" nelle mani di Buazzelli o magari di Aldo Fabrizi!
Ho riportato qui il parere di Welles proprio perché parla da attore, e da regista di teatro, e lo fa con grande competenza, riportando tutto all'Inghilterra e al teatro inglese, elisabettiano e contemporaneo.
Un Peter Pan invecchiato e ingrassato era anche lui, Orson Welles...non so se mi avrebbe fatto piacere conoscerlo e frequentarlo, penso che di persona non fosse facile, un po' come Falstaff, però dalle sue interviste e dalle sue interpretazioni si imparano moltissime cose.

giacy.nta ha detto...

" Non pensa mai alla gente che lo vedrà?
«Mai!»
- In altre parole, è una specie di suo solipsismo personale?
«È interamente personale, perché il pubblico di un film non esiste. È impossibile immaginarlo. È fatto di duecento berberi dall'altra parte dei monti dell'Atlante. Di un gruppo di intellettuali negli archivi cinematografici di Atene. Di settecento borghesi che hanno votato per Nixon. Di un singolo individuo che guarda la televisione. Quel pubblico non esiste. E io sto scrivendo la mia manciata di film anche per la posterità, dove ci saranno altri generi di pubblico che non riesco neanche a immaginare "

...Un Falstaff anche Welles, vista la direzione presa dal cinema!
E' una riflessione da incorniciare che ridà all'arte il suo valore originario.

Giuliano ha detto...

Orson Welles a venticinque anni aveva tutta Hollywood al suo servizio, e potendo scegliere tra infiniti soggetti ha girato Citizen Kane
:-)
straordinario!
è proprio quello che manca oggi, il coraggio. A tutti i livelli.