lunedì 24 gennaio 2011

Il settimo sigillo ( VII )

IL SETTIMO SIGILLO (Det sjunde inseglet, 1956). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren - Scenografia: P.A. Lundgren – Con: Max von Sidow (il cavaliere Antonius Block), Gunnar Björnstrand (lo scudiero Jöns), Nils Poppe (il giullare Jof), Bibi Andersson (Mia, moglie di Jof), Bengt Ekerot (La morte), Ake Fridell (il fabbro Plog), Inga Gill (Lisa), Erik Strandmark (il capocomico Skat), Bertil Anderberg (Raval), Gunnel Lindblom (la donna muta), Inga Landgré (la moglie di Antonius Block), Anders Ek (il monaco), Maud Hansson (la giovane al rogo), Gunnar Olsson (il pittore di chiese), Lars Lind (il giovane monaco), Benkt-Ake Benktsson (l'oste), Gudrun Brost (la donna all'osteria), Ulf Johanson (il capo dei soldati). Durata: 96 minuti

- Che cosa dipingi?
- La danza della morte.
- Quella è la morte?
- Sì, e prima e poi danza con tutti.
- Che argomento tetro!
- Voglio solo ricordare alla gente che tutti dobbiamo morire.
- Non servirà a rallegrarli.
- E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente? Che guardino, e piangano.
- Invece di guardare, chiuderanno gli occhi.
- Io dico che li apriranno. Un teschio interessa più di una donna nuda.
- Se però li spaventi...
- Li fai pensare.
- E se pensano...
- Si spaventano ancora di più.
- E corrono in braccio ai preti.
- Questo non mi riguarda.
- Tu pensi solo al tuo lavoro?
- Mostro come stanno le cose (indica il dipinto), poi ognuno decide per conto suo.
- Ti arriveranno molte maledizioni...
- Sicuro! E se saranno in troppi a maledirmi, allora passerò a un argomento più divertente. Devo pur vivere...almeno finché non mi uccide la peste.
- La peste! Non è piacevole, vero?
- Guarda lì (indica il dipinto): il collo si gonfia che sembra scoppiare, il corpo si contrae, gambe e braccia si torcono dallo spasmo come corde nelle fiamme...
- Brutto affare.
- Puoi dirlo. (...) Ti ho messo paura?
- Paura a me? Si vede che non mi conosci. Là in alto, cos’hai dipinto?
- Molti si sono convinti che la pestilenza è una punizione divina, e così turbe di peccatori terrorizzati si trascinano per le strade, digiuni, flagellando se stessi e gli altri, per la gloria del Cielo.
- Si flagellano veramente?
- Certo. Ed è uno spettacolo orribile. (...)
- Hai mica dell’acquavite? E’ tutto il giorno che bevo soltanto acqua...
- Vedi che ti ho messo paura?
(Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, dialogo fra lo scudiero e il pittore)
Jons e il pittore continuano il loro colloquio, si trovano simpatici, e la grappa aiuta a fraternizzare: l’argomento di conversazione non cambia, ma adesso che si è un po’ brilli ci si può anche scherzare sopra. Li vedremo ancora una volta qualche minuto dopo, quando il cavaliere avrà terminato la sua visita in chiesa, e poi del pittore non sapremo più niente. Chissà, forse è riuscito a sopravvivere alla peste.
Questo dialogo mi ha fatto pensare ad un altro film, l’Andrej Rubliov di Tarkovskij. Ci sono molte differenze, ma l’argomento è lo stesso: un dipinto sull’Apocalisse. Qui c’è una data precisa, l’inizio del ‘400: il pittore di icone Andrej Rubliov discute col suo maestro Teofane il Greco, e ci sono molti altri personaggi in scena. Rubliov deve affrescare la cattedrale della città di Vladimir, ma non se la sente: è molto giovane ma ha già visto troppa violenza, e troppa corruzione. Non sa che il peggio deve ancora arrivare: gli affreschi faticosamente realizzati verranno distrutti, Andrej Rubliov si troverà in mezzo al vortice della violenza, coinvolto suo malgrado, e smetterà di dipingere per molti anni. Ricomincerà solo da vecchio, a violenze terminate, dopo la pestilenza e dopo il prodigio della fusione della campana: ma del film di Tarkovskij ho già parlato a suo tempo.

Nel film di Tarkovskij, invece della peste ci sono i tartari: che arriveranno subito dopo, distruggeranno e bruceranno tutto, ed entreranno a cavallo nella chiesa, contemplando le pitture sul muro con curioso stupore: perdono tempo a dipingere sul muro, questi cristiani, come i bambini...
Andrej Tarkovskij, dal libro “Andrej Rubliov” (ed. Garzanti 1992)
IL GIUDIZIO UNIVERSALE - ESTATE 1408
Le alte volte fresche e riecheggianti della cattedrale dell'Assunzione. Dalle strette finestre si scorgono il chiaro cielo estivo e le cime degli alberi, che alla luce del sole sembrano di due colori: bianco abbagliante quelle illuminate e nere quelle in ombra.
L'interno della cattedrale è soltanto intonacato. Lungo due muri, fin quasi al soffitto, sono stati costruiti dei ponteggi che tracciano sulle superfici bianchissime una serie di linee orizzontali perfettamente parallele. I raggi del sole disegnano sul pavimento sghembi rettangoli infuocati e riscaldano le lastre scabrose, coperte di sabbia, schegge e calce. I pittori di Rubliov sono oppressi dal caldo soffocante. (...)
(...) proprio in quel momento sulla porta appare un monaco dalla figura sgraziata. È il sacrestano della cattedrale, il pope Patrikej, che agita la mano e fa a Daniil alcuni gesti misteriosi. Ogni suo movimento è accompagnato dal tintinnio dell'enorme mazzo di chiavi che gli pende da un anello alla cintura.
Goffo, curvo, con il petto infossato e le lunghe braccia che agita sopra il capo in gesti assurdi, con gli occhi neri e folli e un lungo naso svettante, il pope Patrikej assomiglia a un vecchio uccello impazzito, spelacchiato e infausto. Il suo viso è imperlato di piccole gocce di sudore, e tutto il suo aspetto rivela che ha bevuto molto e che c'è qualcosa che lo sconvolge.

«Ascolta, Daniil, padre, ascolta che cosa è successo! Però, silenzio! Mi raccomando!». Stralunando gli occhi, Patrikej si appoggia alle labbra un dito mostruosamente lungo e si guarda intorno con aria spaventata. «Sono appena passato dal nostro metropolita, e...», Patrikej agita le mani in modo bizzarro e si fa il segno della croce, con il viso spaventato a morte. «... Certe urla, urla, baccano e ancora urla, il metropolita ha addosso solo la biancheria e corre, corre tutto rosso dalla rabbia! Non ho più pazienza, dice, non ne ho più! Basta! Basta! Ed era di voi che parlava! Sono due mesi che tutto è pronto, due mesi! diceva. E quanti soldi! E i maestri se ne stanno con le mani in mano! Con le mani in mano! In panciolle! Con tutti i soldi che hanno chiesto se ne stanno in panciolle e non hanno ancora fatto niente! Ma davvero avete chiesto così tanti soldi, eh?».  «Ma cosa dici?», Daniil è agitato.


«Per me, dice, è lo stesso! Rubliov Andrej o Daniil il Nero! È lo stesso! Ma quanti soldi! Strepito, baccano, il metropolita corre perle sue stanze con addosso solo la biancheria, e per giunta tutto rosso! Saranno anche dei pozzi di scienza, grida, per me fa lo stesso! Che razza di roba è? Eh? Per me è lo stesso! E fa una smorfia così!», Patrikej fa una smorfia inverosimile e ripete come se delirasse: «Cosa mi importa di Rubliov e di Daniil il Nero! Io voglio che per quest'autunno la cattedrale sia affrescata, non mi interessano le chiacchiere!».
Patrikej si ferma per riprendere fiato, poi, roteando gli occhi, mormora con tono teatrale: «Ha mandato un messaggero con le sue lagnanze direttamente al Gran Principe, l'ha mandato dal Gran Principe...».
Daniil tace e guarda al di là di Patrikej con tale intensità che il sacrestano si gira, ma non vede niente oltre alla cappa temporalesca che incombe sulla campagna grigia e immobile.
«E allora? Non avete ancora cominciato?», chiede guardando Daniil con i suoi occhi da folle.
Daniil fa segno di no con la testa.
«Sapete... Dovete incominciare, altrimenti...».
Patrikej agita nervosamente le mani e si fa il segno della croce. « E Andrej dov'è?».
Daniil si stringe nelle spalle.
«E non potete cominciare senza di lui? Eh? Forza, mettetevi al lavoro...».


(...) I campi di grano saraceno splendono opachi sotto il sole. Il calore è soffocante. Nella foschia nebulosa fluttua il ronzio musicale delle api. Il grano è bianco come i muri intonacati della cattedrale dell'Assunzione. Con un bastone in mano, Andrej vaga tra la polvere ardente, gli occhi fissi a terra, la mente svuotata, stanco degli inutili tentativi di cogliere un progetto inafferrabile, misterioso e ancora indeterminato, ma già vivo nella sua anima e nel suo cuore. Cammina lungo una strada che taglia in due un vasto campo, proprio come una riga tracciata da una mano sconosciuta su un muro intonacato, mentre la sua ombra irrequieta lo segue tra la polvere. Si ferma per un attimo, poi ricomincia a vagare, confuso, teso nel tentativo di afferrare un pensiero sfuggente che lo costringe a camminare sempre più veloce e poi, inaspettatamente, a fermarsi a lungo, immobile, in piedi sotto il sole, per poi correre di nuovo alla ricerca di una soluzione, sollevando nuvole di polvere e trascinandosi nell'afa, per riafferrare il filo delle sue segrete meditazioni.
Andrej entra nella cattedrale, Piotr interrompe il lavoro. Tutto è silenzio, adesso; dall'esterno giunge solo lo stridio dei rondoni che volteggiano attorno alla chiesa. Tutti tacciono, osservano Andrej e lo studiano per qualche istante. Poi capiscono e tornano a voltarsi, privi ormai di qualunque curiosità.
Andrej è in piedi in mezzo alla cattedrale, scalzo, con la tonaca impolverata e il viso abbronzato dal sole.
«Ammazzatemi pure», dice sottovoce e tossisce; la sua voce adesso è secca e roca, « ma io non so cosa dipingere...».
«Come non lo sai?» chiede Foma anche lui sottovoce. « Dobbiamo dipingere il Giudizio Universale».
«Il fatto è che io credo sia addirittura meglio non dipingerlo, il Giudizio Universale», dichiara Andrej.
«Ma come...», balbetta Daniil.
«Io voglio...» , comincia Andrej e all'improvviso avvizzisce, si ingrigisce, e il suo viso diventa brutto e vecchio, «non voglio niente, niente... E basta...». (...)


Andrej solleva gli occhi e vede davanti a sé un muro incredibilmente bianco, così bianco che gli sembra di essere diventato cieco, come se fosse avvolto da una vuota nebbia biancastra che rende i volti dei suoi compagni estranei, sconosciuti, neri sullo sfondo di quei muri incredibilmente bianchi, senza nemmeno una linea che profani la loro superficie assoluta, scintillante di macchie grigie, che uccide in lui ogni speranza e distrugge tutta la sua umanità, tutta la sua consapevolezza. Una tremenda tensione spinge la sua volontà giù per il pendio di quell'accecante muro bianco, su cui essa scivola senza trovare appigli, come su un cielo senza nubi, a cui non ci si può aggrappare, su cui non si può contare, come non si può contare sui volti degli amici tramutati da quel tremendo biancore in tizzoni carbonizzati, privi di senso e di movimento, paralizzati dall'attesa tormentosa della morte. Senza rendersene conto, Andrej fa qualche passo, si china su un bigoncio pieno di fuliggine grassa e densa e, dopo averne afferrata una manciata, la getta su quel muro abbagliante. Sulla superficie nivea divampano strisce nere, lunghe ferite assurde e offensive. Ghirigori. Arabeschi. Schizzi. Nere impronte.
I compagni lo guardano pieni di terrore. Andrej si prende la testa tra le mani e, alleggerito dopo quell'improvviso e intrattenibile scoppio di odio animalesco e violentissimo, si siede su un pezzo di trave. Il suo viso è coperto di sudore, la bocca semiaperta, quasi come ritornasse da un altro mondo.
Comincia a piovere. Le gocce cadono pesanti sulla strada, sollevando la polvere leggera e trasformandola a poco a poco in un torrente fangoso. La pioggia gorgoglia sulle pietre, ribolle nelle fosse argillose, crepita sulle foglie, coprendo gli alberi di piccolissimi schizzi, scorre giù dai tetti, tamburella sulle lastre di pietra del sagrato. Tutto viene avvolto da un grigio velo madreperlaceo. Si sente tuonare.
«Sergej, leggi le Scritture!», la voce di Daniil è forzatamente tranquilla e piatta.
«Da dove comincio?», chiede Sergej con voce tremante dall'alto dell'impalcatura.
« È lo stesso... Da dove vuoi». (...)
Andrej Tarkovskij, dal libro “Andrej Rubliov” (prima stesura, in forma di racconto)
(ed. Garzanti 1992) (traduzione di Cristina Moroni)


2 commenti:

Marisa ha detto...

Il richiamo a Tarkovskij e al suo Rubliov è molto pertinente ed anche il grande regista russo usa il bianco e nero in questo film in modo magistrale per accedere al colore solo alla fine, per mostrare il mondo celestiale e pacificato delle icone, dopo tanto travaglio. In Bergman il pittore è molto lontano dalla sensibilità religiosa e dalla pietas di Andrej, per cui mostrare la morte agli uomini per lui è del tutto indifferente, così come lo scudiero ormai incallito a tutti gli spettacoli della guerra non si lascia minimamente impressionare. Quello di cui si parla è semmai l'utilizzo dalla paura della morte che rende il popolino succube degli ecclesiastici e disposto ai più grotteschi riti di autopunizione. Sentimenti ben diversi dal tormento di Andrej che non riesce a dipingere il volto terribile di Dio e imbratta il muro bianco con disperazione! Questa dell'impulsivo erompere della disperazione è una delle immagini più forti pittoricamente di tutto il film ed anticipa tutta la pittura moderna, dopo la rottura dell'armonia che la guerra ha portato nelle coscienze.

Giuliano ha detto...

L'influenza di Bergman su Tarkovskij è enorme, non un'influenza diretta ma un ripensamento personale. Mi stavo chiedendo: esisterà qualche filmato di Bergman e Tarkovskij insieme? Penso proprio di sì, dato che esiste "Sacrificio" (girato in casa di Bergman!), ma io non l'ho mai visto.
Mi ha colpito molto, con il fermo immagine, l'immagine da fumetto degli affreschi: ma anche la chiesa di "Luci d'inverno" aveva qualcosa di simile, e il modello è probabilmente l'arazzo di Bayeux, oltre che le miniature sui codici.