venerdì 3 dicembre 2010

Futurologia

FINO ALLA FINE DEL MONDO (Bis ans Ende der Welt, 1991). regia di Wim Wenders. Soggetto di Wim Wenders e Solveig Dommartin. Sceneggiatura di Peter Carey e Wim Wenders. Fotografia: Robby Müller. Musica: pigmei del Camerun, aborigeni australiani della nazione Mbantua, Puccini (Madama Butterfly), Talking Heads, REM, U2, Laurent Petitgand, Lou Reed, Peter Gabriel, e altri. Con Solveig Dommartin, Sam Neill, William Hurt, Max von Sydow, Jeanne Moreau, David Gulpilil, Rüdiger Vogler, Chishu Ryu, Eddy Mitchell, Chick Ortega, Ernie Dingo. Durata prima edizione commerciale: 179 minuti. Durata originale: 287 minuti

In “Fino alla fine del mondo”, girato nel 1991, Wim Wenders provò a immaginarsi, con dieci anni d’anticipo, come sarebbe andato il cambio di millennio: il passaggio dal 1999 al 2000. E’ un film ancora oggi piacevole e divertente, ricco di belle immagini, con molti tratti del film di fantascienza e d’avventura; e l’idea del cambio di millennio non è certo il suo tema portante, ma solo un espediente per raccontare la storia principale.
Direi che il film è invecchiato pochissimo salvo che per un dettaglio non secondario, che è questo: Wenders si è divertito a inventare gadgets che si sarebbero usati dal 2000 in poi, cose che nel 1991 non c’erano ancora e che poi sarebbero diventate d’uso comune. Siccome siamo ormai nel 2011, possiamo farne un piccolo inventario: Wenders anticipa con molta verosimiglianza il navigatore in macchina, ma manca completamente il telefonino come l’abbiamo oggi, e questo è sorprendente.
Si immagina invece (ma qui c’è un rimando preciso a “Metropolis” di Fritz Lang) città avveniristiche con le loro brave stazioni e aeroporti, tutte provviste di svariati videotelefoni a gettoni, efficientissimi. La nostra realtà quotidiana è invece che sono ormai spariti quasi completamente anche i normali telefoni a gettone, o a moneta, o a scheda: ognuno fa da sè, è ormai obbligatorio avere con sè un telefono – guai a chi lo perde e glielo rubano, dovrà elemosinare un aiuto. Qualche videotelefono c’è, ma molto simile ai primi telefoni cordless: ancora piuttosto ingombrante e con una vistosa antenna esterna. Mancano anche, dalle stazioni di “Fino alla fine del mondo”, gli onnipresenti messaggi pubblicitari, in video e dagli altoparlanti: insomma, Wenders si è immaginato un futuro migliore di quello che abbiamo oggi. Non sempre l’ottimismo paga, guardando al futuro: e non mi sento di farne una colpa a Wenders che – due anni dopo la caduta del Muro di Berlino - si è immaginato, come massimo della cattiveria, delle mafie internazionali legate alla nuova tecnologia, quindi persone colte: ma non il ritorno del nazifascismo, il razzismo, la corruzione...
Proseguendo nel mio piccolo inventario, al posto dell’i-pod c’è una scheda come quelle delle carte di credito; i bancomat hanno schermate da cartone animato; gli orologi nei posti pubblici sono elettronici ma hanno ancora le lancette; la polizia si muove su strani scooter con le rotelline e ha caschi e tute che sembrano prese da Fahrenheit 451; i videopoker sono come quelli già visti in Tokyo-ga qualche anno prima; il meccanico d’aerei (l’attore australiano Gulpilil) lavora ancora con chiavi e cacciavite; le cineprese portatili e le macchine fotografiche non fanno parte del telefonino ma sono ancora oggetti ben distinti, separati; i computer portatili sono molto simili a quelli di oggi, almeno per le dimensioni; i monitor del pc hanno ancora il tubo catodico.
Non me la sento di dare giudizi di merito, però tra le cose belle (facendo confronti con il cinema del 2010) metto sicuramente il seno di Solveig Dommartin: che è molto ben fatto, ma è tutto suo e non ha bisogno di protesi. Anche se l’attrice qui ha già passato i trent’anni non c’è bisogno di photoshop e ritocchi chirurgici – e questa è un’ottima cosa, purtroppo si tratta di un’altra profezia non avverata.
Sono dunque previsioni più o meno azzeccate, ma c’è una gran parte di gioco e di divertimento in questo film, e quindi ci può stare. Quella che invece è diventata una previsione azzeccatissima, e addirittura inquietante, è il tema più importante del film, quello che ne giustifica l’esistenza. Ed è un tema drammatico: la protagonista femminile, interpretata da Solveig Dommartin, che perde se stessa dentro un apparecchio elettronico; e si perde a tal punto che l’esaurimento delle pile e l’impossibilità di cambiarle (ben giustificata dalla trama del film) scatenano in lei quella che è una vera crisi d’astinenza, ai limiti della pazzia.
Il finale del film sarà positivo, ma vale la pena di riflettere sul perché questa previsione è così centrata, e oggi ancora più inquietante. Quello che nel 1991 poteva essere interpretato come un momento di introspezione, di chiusura su se stessi, del desiderio di ritornare all’infanzia, oggi è diventato possibile (manca pochissimo) grazie alle moderne tecnologie diagnostiche. Dalla TAC alla risonanza magnetica, si tratta di rilevazioni dell’attività elettrica e magnetica del nostro cervello: le cellule del cervello, i neuroni, lavorano appunto così, con impulsi elettrici e campi magnetici che oggi possono essere facilmente rilevati registrati. Nel 1991 non era possibile, oggi lo si può fare: nel film si parla di un ricordo infantile che riemerge nei sogni, oggi illustri clinici e neurologi sono già molto avanti negli studi in proposito, al punto da poter annunciare la possibilità di un backup del cervello, tutta la nostra memoria in un dvd o magari in una chiavetta sul telefonino.
Non è più fantascienza, insomma: ma l’aspetto più inquietante, e visibile quotidianamente, è un altro. Non è più necessario avere un backup dei nostri ricordi per perdersi dentro un apparecchio elettronico portatile: basta molto meno. Basta un telefonino, uno smart phone, un i-pod, un i-pad. Un’intera generazione, forse anche due, è cresciuta stando incollata ai videogiochi e al telefonino: oggi molti di questa generazione sono nei posti di comando, banche aeroporti e ministeri dipendono da persone che hanno perso contatto con la realtà, e pensano che la realtà sia questa, un apparecchio elettronico.
Non sto esagerando né in un senso né nell’altro: gli articoli sul backup del cervello, e simili, sono ormai frequenti sui giornali più autorevoli che parlano di medicina, e vengono ripresi sempre più spesso anche da giornali e quotidiani, e anche dalla tv. Se poi non si vuole prendere atto della realtà, è un altro paio di maniche: la realtà esiste anche se non ci piace.
Banche e ferrovie hanno quasi ultimato l’eliminazione di cassieri e biglietterie: siamo costretti a dialogare con una macchina. Può anche far piacere, può essere considerato comodo, ormai è un dato di fatto. Gli uffici dell’Enel, del telefono, del gas, dell’assistenza di qualsiasi casa produttrice di elettrodomestici, sono stati dapprima sostituiti con i call center, cioè da qualcosa di lontano e impersonale; ma ormai anche i call center stanno per diventare un ricordo, sostituiti da messaggi registrati o da mail. C’è, anche qui, chi ne é contento: di certo, siamo davanti a un altro fatto compiuto. Passiamo sempre più ore della nostra giornata a comunicare con uno schermo elettronico, lo si voglia o no: è qualcosa che ci è stato imposto o che abbiamo accettato volentieri, ma il rischio – come ci mostra il film di Wenders – è di trovarci del tutto indifesi davanti a una mancanza di corrente elettrica o all’esaurimento delle pile. Sono tecnologie belle ma fragili: nessun meccanico potrebbe più ripararvi l’automobile in caso d’emergenza, dimenticatevi le riparazioni al tornio e con il martello, se vi si guasta l’automobile significa che sono guai seri. E, se ci rubano l’i-pod, l’i-pad, l'hip-hop, il videofonino, la scheda magnetica o col microchip, rischiamo ormai di essere perduti.

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