giovedì 20 febbraio 2020

Il tè nel deserto


Il tè nel deserto (The sheltering sky, 1990) Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un romanzo di Paul Bowles. Sceneggiatura di Mark Peploe e Bernardo Bertolucci. Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche di Ryuichi Sakamoto, "Midnight sun" di Lionel Hampton, musica tradizionale marocchina. Interpreti: Debra Winger, John Malkovich, Campbell Scott, Timothy Spall, Jill Bennett, Nicoletta Braschi, Amina Annabi, Sotigui Kouyaté, Eric Vu An, Paul Bowles, Enrico Maria Salerno (voce narratore nella versione italiana). Durata: 2h12'

"Il tè nel deserto", uscito nel 1990, si situa tra "L'ultimo imperatore" e "Il piccolo Buddha", due dei più grandi successi internazionali di Bertolucci, e rischia di uscirne un po' schiacciato, quasi dimenticato. Tratto da un romanzo dell'americano Paul Bowles (1910-1999, che recita se stesso nel film) racconta la storia di tre viaggiatori (viaggiatori e non turisti, come si tiene a specificare nei dialoghi) nel Sahara, partendo da Tangeri per inoltrarsi nell'interno. E' una storia tragica, sia pure con momenti di serenità; ed è anche la storia di amori e tradimenti, ma quello che più conta, per Bowles e per Bertolucci, è proprio il perdersi, lo smarrire la propria identità in un ambiente a noi straniero e ostile nella sua natura.


"Il tè nel deserto" è la storia di una deriva, di un naufragio e della conseguente deriva della protagonista. Protagonista è una giovane donna di nome Kit, interpretata da Debra Winger, che vedrà il marito (John Malkovich, il nome del personaggio è Port) morire di tifo nel deserto, senza poterlo salvare; inseguita e cercata dal loro comune amico Tunner, si nasconderà da lui per lasciarsi andare definitivamente. Non sappiamo che fine farà Kit: alla fine del film, anziché riconsegnarla al povero Tunner che la stava cercando disperatamente, Bertolucci la riporta a Paul Bowles in persona, come l'avevamo vista nell'inizio del film, e nello stesso bar; è il personaggio che torna all'autore, felice come se fosse tornata a casa. Siamo a 2h05' dall'inizio:
- Si è perduta? - chiede la voce del narratore, fuori campo.
- Sì...- risponde Debra Winger, e un sorriso le illumina il volto, solo per un attimo.
E', con ogni evidenza, un ricongiungimento; ed è della morte che si sta parlando, quel sorriso appena percettibile, forse un anticipo del "Piccolo Buddha", rivela l'anima che è tornata a casa. Del film e del suo soggetto, a questo punto, non ci importa più; diventa tutto secondario. Bertolucci ci mostra il volto silenzioso dell'autore, e la voce fuori campo del narratore completa il discorso con le parole di Paul Bowles:
- Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza di esso non riuscite neanche a concepire la vostra vita... forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete la luna? Forse venti... eppure, tutto sembra senza limite.
A mio livello personale, ascoltando queste parole mi sorge il ricordo di "L'invenzione di Morel", di Adolfo Bioy Casares; ma non conosco Bowles e potrei sbagliarmi.
Qui finisce il film, a 2h12 finiscono anche i titoli di coda.


Vedendo qui Bowles è quasi inevitabile pensare a Omero, magari quello di Borges, immortale e smemorato come gli immortali di Swift (I viaggi di Gulliver). Questa citazione si ricollega alla riflessione dell'inizio del film, sempre con Bowles e sempre nello stesso bar; è la breve apparizione di Nicoletta Braschi, al minuto 8 dall'inizio:
- ... poiché né Kit né Port avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi commesso il fatale errore di considerare confusionalmente il tempo come inesistente; un anno era come un altro, alla fine tutto sarebbe potuto accadere.
Di seguito Port racconta un suo sogno, dove non riesce a gridare, davanti a un muro di lenzuola; sua moglie Kit lo legge come un presagio, si alza e si allontana. Siamo a Tangeri, in Marocco, nel 1947, e i tre americani sono in viaggio di piacere: il compositore Port (John Malkovich) e sua moglie Kit (Debra Winger) più l'amico Tunner, giovane e bello, ricco e invadente. Tunner è l'amante di Kit, Port lo sa o lo sospetta, e sarà proprio per tener lontano Tunner che si troverà solo e malato in mezzo al Sahara, febbre tifoidea. Kit lo aiuta, ma da sola non potrà far altro che accompagnarlo verso la morte; da qui poi la sua deriva.
 

E' all'inizio del film la distinzione fra turista e viaggiatore:
- Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento in cui arriva, invece un viaggiatore può anche decidere di non tornare affatto (minuto 4 dall'inizio)
Tunner è interpretato da Campbell Scott, che scopro essere figlio di George C. Scott: alto ed elegante, sottile, lineamenti fini, non gli somiglia affatto ed è difficile rendersene conto (avrà preso dalla mamma?). E' il personaggio di cui mi ero dimenticato prima di rivedere il film dopo tanti anni, così come mi ero dimenticato dei Lyle, la madre scrittrice di libri di viaggio e il figlio alcolizzato che le fa da autista, sempre in cerca di soldi perché la madre lo tiene a stecchetto: due ottimi attori inglesi, Jill Bennett e Timothy Spall, e due personaggi che svolgono un ruolo importante nella storia raccontata. La voce del narratore, cioè Paul Bowles, nella versione italiana è affidata a Enrico Maria Salerno e nell'originale inglese è dello stesso Bowles.
Tra gli altri interpreti, oltre ad Amina Annabi (difficile da dimenticare), si vedono brevemente Sotigui Kouyaté, fresco reduce dal Mahabharata di Peter Brook, e il ballerino dell'Opera di Parigi Eric Vu An, che è il fascinoso tuareg del finale.
Vittorio Storaro, direttore della fotografia, crea per "Il tè nel deserto" un altro dei suoi capolavori, davvero un continuo incanto di luce e di colori. "The sheltering sky", il cielo che ti protegge (shelter in inglese è "riparo, rifugio", ma anche "pensilina"), è il titolo originale e il senso di questo titolo è reso benissimo da Storaro: basti vedere il cielo sopra Kit e Port nella loro scena d'amore, dopo la "fuga" in bicicletta, da soli.
 

Sempre a livello mio personale, per quel che può interessare e lasciando da parte per un attimo la bellezza delle immagini e la profondità della storia, "Il tè nel deserto" è il film di Bertolucci che mi ha creato più problemi, fin dalla prima volta, al cinema. Per me questo film rappresenta l'increscioso incontro con il cinema multisala (il teatro Odeon appena berlusconizzato, 1990) e con le sue salette piccole. Pensare di proiettare un film così spettacolare in una piccola sala, magari mandando lo spettatore in prima fila a testa in su per due ore, mi era sembrata davvero una fesseria, uno scandalo; ma poi i multisala hanno preso il sopravvento e oggi è quasi impossibile vedere proiettato un film nella maniera giusta: meglio il salotto di casa, è una triste constatazione e nessuno osa dirlo apertamente, ma ormai le nuove generazioni spesso non sanno nemmeno cosa sia un cinema e guardano tutto direttamente sullo smartphone. Se i giovani entrano in un cinema, in un multisala soprattutto, rischiano di dover pensare "tutto qui?", e avrebbero tutte le ragioni di pensarlo. Per me, insomma, e sempre a livello mio personale, "Il tè nel deserto" rappresenta la fine del cinema; non per colpa di Bertolucci, sia ben chiaro, ma per colpa di chi ha gestito questa mutazione. Abbandonato il multisala, andai a vedere "Il tè nel deserto" al cinema President o all'Ambasciatori, sempre a Milano, in una proiezione come si deve; ma ormai anche il President non esiste più da tempo immemorabile. Devo anche dire che queste storie di ricchi sfaccendati in giro per il mondo (così è, dispiace dirlo) sono lontanissime dalla mia sensibilità e non riesco a riconoscermi. E' la storia in sè che probabilmente fa fatica a reggersi, i personaggi sono poco gradevoli e spesso supponenti, e tutto tende a suonare falso; il finale però è molto bello, gli ultimissimi minuti riscattano tutto ciò che (sempre secondo me) non aveva funzionato.

Notevoli i titoli di testa, con la partenza in nave da New York mostrata con filmati d'epoca (la festa per la fine della guerra, nel 1918) sulle musiche di "Midnight sun" suonata da Lionel Hampton. Si ascoltano anche molte musiche tradizionali marocchine o d'ambiente arabo, ben collocate all'interno della storia. Non mi sono piaciute le musiche di Sakamoto, sono funzionali ma è un saccheggio continuo da Wagner, da Mendelssohn, e da tanti altri ancora.
(...) ma il Sahara, più che generare una rinnovata geografia della passione, finisce per produrre uno sradicamento totale; e i due amanti vi si ritrovano, in modo diverso, irrimediabilmente perduti. Tornato ai temi strazianti di Ultimo tango a Parigi, l'ultimo Bertolucci incanta, disorienta e inquieta.A volte si perde, e ci perde, nei cunicoli di luce e buio delle casbah; altre volte dà l'impressione di essere più turista che viaggiatore, cioè uno che si sposta - secondo l'iniziale citazione di Bowles, solo pensando al momento di tornare a casa. (a Hollywood e agli Oscar?) Poco risolto è il rapporto con i luoghi (i personaggi sono in cerca di un luogo, invece che generati da esso come in Ultimo tango, Strategia del ragno, Novecento), mentre è palesemente a disagio lo sguardo nel filmare gli "indigeni" (che forse Bertolucci, come Kit, ama tutti insieme ma mai uno alla volta). Ma poi, a deriva ultimata, viene il sospetto che questo disagio e questa irresolutezza siano il pregio del film, e che il meglio che si possa chiedere al cinema oggi è di renderci affettuosamente perplessi. Un film disincantato. (Gianni Canova, Repubblica Tuttomilano 3 gennaio 1991)
"Quante volte abbiamo osservato il sorgere del sole? Una ventina di volte in tutto, e tuttavia siamo convinti che di albe sia impregnata tutta la nostra vita" - è l'amara campana a morto del narratore-autore nella sequenza finale. "Ci sono ricordi d'infanzia senza i quali sembra che la nostra esistenza non avrebbe un senso, ma quei momenti di magia non ci capita di evocarli che quattro o cinque volte durante l'intera esistenza..." Film di fastosa autoelisione, costruito per progressive scaglie sonore (...) (Gianni Canova, Repubblica Tuttomilano 3 gennaio 1991)
 


 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 

Nessun commento: