martedì 6 aprile 2010

Titus

Titus, regia di Julie Taymor (1999). Tratto dal Tito Andronico di William Shakespeare. Sceneggiatura di Julie Taymor. Fotografia di Luciano Tovoli Musiche originali di Elliott Goldenthal Con Anthony Hopkins, Laura Fraser, Jessica Lange, Harry Lennix, Jonathan Rhys-Meyers, Matthew Rhys, James Frain, Angus Mac Fadyen, Colm Feore, Alan Cumming, Raz Degan, Emanuele Vezzoli Durata:162’

"Titus", diretto da Julie Taymor, è un Blade Runner girato all’EUR, in stile disco-punk. L’inizio promette bene: un bambino che gioca con soldatini e dinosauri nella cucina di casa, ma la guerra irrompe davvero sotto forma di un soldato e di bombardamenti. E’ un buon inizio per questo Shakespeare che parla di guerra e di violenza, un testo terribile pieno di sangue e di torture.
Poi il film comincia, e devo dire che il giochino punk stanca molto presto, e crea un’inutile confusione. Fa pensare a un musical mancato, e annoia. Non è brutto, ma in questo modo del dramma rimane ben poco; si guardano pettinature, arredi, gadgets, tatuaggi, scene e costumi, la sostanza del dramma si perde, e si rischia di capire poco di un testo già fin troppo complicato e pieno di personaggi.

Il film prende quota solo quando tutti gli orpelli vengono abbandonati, e cioè quando Tito Andronìco (ma io dirò sempre Andrònico, perché ormai è tardi per riparare), al quadrivio, declama il suo lamento alle pietre:
Atto terzo, scena prima. I due figli di Tito vengono portati via , su un carro, legati, verso il luogo dove avverrà l’esecuzione. Tito Andronico vede passare il corteo dei giudici e dei senatori, gli si mette in mezzo, supplica, il corteo gli passa davanti e nessuno gli bada. A questo punto arriva il terzo figlio, Lucio; vede il padre ricurvo sul selciato, che continua la sua supplica.
Tito: O venerabili tribuni! O vecchi gentili! Slegate i miei figli, revocate la condanna a morte, lasciate ch'io dica, io che non ho mai prima pianto, che le mie lacrime sono oratori persuasivi.
Lucio: O nobile padre, ti lamenti invano: i tribuni non ti sentono, non c'è nessuno, tu racconti i tuoi dolori ad una pietra.
Tito: Ah Lucio, per i tuoi fratelli lasciami implorare: austeri tribuni, ancora una volta io vi supplico...
Lucio: Mio amato signore, nessun tribuno è qui a sentirti parlare.
Tito: Non importa, ragazzo: se mi sentissero non mi presterebbero attenzione, e se lo facessero non avrebbero pietà di me, e tuttavia devo implorarli, anche se inutilmente. Perciò racconto i miei dolori alle pietre, che, se non possono rispondere alla mia pena, pure sono in qualche modo meglio dei tribuni, perché non interrompono la mia storia. Quando piango, ai miei piedi esse ricevono le mie lacrime umilmente e sembrano piangere con me; se solo fossero abbigliate di vesti austere, Roma non disporrebbe di tribuni a loro pari. Una pietra è tenera come cera, i tribuni sono più duri delle pietre; una pietra è silenziosa, e non offende, i tribuni con le loro lingue mandano uomini a morte. (...)
Il vecchio Will funziona sempre, è davvero uno che sapeva il fatto suo, e la sua fama non è certo usurpata: rischia senza timore il ridicolo e a leggerlo non si direbbe un testo così grande, ma dato in mano ad un attore che sa il fatto suo funziona e commuove. Roba da non crederci, e da restarne ancora una volta ammirati.
Restituito a se stesso, e agli Attori, Shakespeare funziona ancora: caspita se funziona. Ridotto all’essenzialità di uno Straub-Huillet, con attori come Hopkins o come Harry Lennix (il perfido Moro), il film si solleva immediatamente di livello, e si capisce finalmente perchè un soggetto come “Tito Andronico” continui a essere in repertorio. Non è più solo un susseguirsi di efferatezze, anche il monologo di Aaron a difesa della “negritudine” diventa forte e commovente, parente di quello futuro di Shylock.
Atto quarto, scena seconda. Aaron, perfido e cattivissimo Moro (cioè nero di pelle) ha una relazione con Tamora, regina dei Goti e adesso moglie dell’imperatore Saturnino. Ne nasce un bambino, la cui pelle nera è molto eloquente. La nutrice glielo porta, appena nato, insieme al messaggio (da parte della madre) di sopprimerlo subito. Ma il bambino è bellissimo, e davanti ai due figli adulti di Tamora il nero Aaron non nasconde il suo orgoglio di padre.
Aaron: (...) Via, via, ragazzini rubicondi dal cuore vuoto! Muri imbiancati! insegne da bettola mal dipinte! Il nero carbone è meglio degli altri colori, perché sdegna di contenere un altro colore, e tutta l'acqua dell'oceano non potrà mai far bianche le nere zampe del cigno, anche se le lava di continuo nei suoi flutti. Dite da parte mia all'imperatrice che ho l'età per tenermi il mio, che mi scusi come può. (...)
Demetrio: Per questo, nostra madre è svergognata per sempre.
Chirone: Roma la disprezzerà per questa sporca scappatella.
Nutrice: L'imperatore nella sua rabbia la condannerà a morte.
Chirone:Arrossisco al pensiero di una tale ignominia.
Aaron: Bene, è il privilegio della tua bellezza. Puah! colorito infido, che tradisce arrossendo i segreti moti e consigli del tuo cuore! Ecco qui un ragazzino fatto d'altro impasto: guardate come sorride a suo padre il nero schiavo come per dire, «Sono tuo, vecchio mio». E’ vostro fratello, signori, percepibilmente nutrito di quello stesso sangue che prima ha dato vita a voi; e da quel ventre in cui voi già foste imprigionati si è affrancato ed è venuto alla luce: sicuro, è vostro fratello dal lato più certo, pur se ha stampato in faccia il mio sigillo. (...)

E la scena della mosca, una delle cose più improbabili che mi sia mai capitato di leggere, che aspettavo e temevo fosse stata tagliata, è risolta alla grande: diventa un dialogo tra un nonno e un nipotino, e se il nonno è Anthony Hopkins anche da una scemenza può nascere un capolavoro. Una vera lezione di stile e di recitazione.
Atto terzo, scena seconda. Tito, suo fratello Marco, il nipote. (La regista affida la bambino la parte che in Shakespeare è dell’adulto Marco, che diventa Nonno Tito e suo nipote, a tavola.)
Ragazzo: Nonno caro, smetti questi amari e profondi lamenti, rallegra mia zia con qualche storia piacevole.
Marco: Ahimè, il tenero ragazzo, mosso a compassione, piange a vedere la tristezza del nonno.
Tito: Sta' buono, tenero virgulto; tu sei fatto di lacrime, e le lacrime dissolveranno presto la tua vita.
Marco colpisce il piatto con un coltello.
Tito: A cosa dai colpi, Marco, con il tuo coltello?
Marco: A ciò che ho ucciso, mio signore: una mosca.
Tito: Maledizione, assassino! tu uccidi il mio cuore. I miei occhi sono sazi di spettacoli di violenza: un atto di morte commesso sugli innocenti non si addice al fratello di Tito. Vattene, vedo che non sei fatto per la mia compagnia.
Marco: Ahimè, mio signore, ho ucciso solo una mosca.
Tito: «Solo»? e se quella mosca aveva un padre e una madre? Come stenderà le fragili ali dorate ronzando per l'aria lamentosi fatti? Povera mosca innocente, che con la graziosa melodia del suo ronzìo era venuta qui a rallegrarci, e tu l'hai uccisa.
Marco: Perdonami, signore: era una brutta mosca nera come il Moro dell'imperatrice, e perciò l'ho uccisa.
Tito: Oh! Oh! Oh! Perdonami allora per averti rimproverato, perché hai fatto un atto misericordioso. Dammi il coltello, infierirò su di lei illudendomi che sia il Moro venuto qui apposta per avvelenarmi. Questo è per te, e questo è per Tamora. Ah, marrano! Ma spero che non siamo caduti così in basso da non poter uccidere, insieme, una mosca che ci viene davanti a somiglianza d'un Moro nero come il carbone.
Marco: Ahimè, pover'uomo! il dolore l'ha così sconvolto che prende ombre false per sostanze vere.
Tito: Su, sparecchiate. Lavinia, accompagnami; verrò nella tua stanza a leggere con te tristi storie accadute in tempi passati. Vieni con me, ragazzo: la tua vista è giovane, leggerai tu quando la mia comincerà ad annebbiarsi.
Escono.

All’inizio, Tito fa uccidere uno dei figli di Tamora, regina dei Goti: ma è quasi un atto dovuto. In seguito, Tamora sposa Saturnino e diventa imperatrice di Roma; ordisce un’atroce vendetta contro Andronico e i suoi figli. Nel finale, arriverà l’altrettanto atroce vendetta di Andronico contro di lei e contro i suoi figli, e la catastrofe finale che porterà a un nuovo imperatore, Lucio figlio di Andronico – l’unico superstite di quattro figli.
Lavinia è Laura Fraser, e il rimando di Shakespeare è a Ovidio, la storia di Filomele. E’ una parte orribile, che eviterò di descrivere; ma in omaggio alla bravura dell’attrice metto qui un’altra sua foto, presa da un altro film; perché trovare on line una sua foto presentabile come Lavinia non mi è stato possibile. E’ notevole nella scena in cui suo zio Marco, fratello di Tito, la invita a scrivere sulla sabbia il nome dei suoi torturatori, usando un bastone da tenere in bocca; ma lei si getta sul bastone e scrive quei nomi tenendolo fra le braccia.
Aaron, il cattivissimo Moro che si compiace dei suoi efferati delitti, è Harry Lennix, fenomenale. Jonathan Rhys-Meyers e Matthew Rhys sono i figli di Tamora; Tamora è una splendente Jessica Lange, grande attrice e non solo bellissima donna. Raz Degan è Alarbus, James Frain è Bassanio: entrambi vengono tolti di mezzo dopo pochi minuti dall’inizio. Lucio è Angus Mac Fadyen, Marco fratello di Tito è Colm Feore (che interpretò Glenn Gould in una vita precedente). L’imperatore Saturnino è Alan Cumming, e c’è anche Emanuele Vezzoli (uno dei nostri migliori attori di teatro) come capo dei Goti, a fianco di Lucio quando Aaron è catturato. Molto belli i clowns sull’Ape Piaggio, e brava la sventurata balia che porta il bimbo nero ad Aaron. Nella colonna sonora c’è anche “Vivere” di Bixio, cantata da Carlo Buti: una canzone (ormai antica) che riascolto sempre volentieri.

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